Impotenza

minne
Georges Minne, Mother grieving over her dead child.

Fin da ragazzina mi sono sempre chiesta come sia stato possibile che, nel secolo scorso, nel cuore d’Europa, la civile colta progredita Europa, tragedie e crimini quasi inenarrabili, tra cui la persecuzione e lo sterminio di milioni di persone innocenti, siano potuti avvenire sostanzialmente sotto gli occhi di tutti, senza che le popolazioni civili, i comuni cittadini come noi, reagissero per fermare l’orrore che veniva perpetrato in mezzo a loro.
Com’è stata possibile tanta indifferenza?, mi chiedevo con angoscia e anche con sdegnato senso di superiorità.
Adesso – e già da alcuni anni, ormai – lo so.
So che si può vivere sicuri nelle nostre comode case mentre a poca distanza da noi uomini donne e bambini come noi non hanno più le loro; si possono progettare villeggiature e pregustare bagni e gite in barca nel nostro mare, incuranti del fatto che sia una immensa bara di morte; si può sedere a tavola chiacchierando in famiglia mentre sullo sfondo va in onda l’ennesimo naufragio.
Quelle persone – che conosciamo in cifre (80 morti, 200 morti, 50 dispersi…) – è come se fossero un po’ meno persone di noi.

Ma quel che ho capito – e che probabilmente valeva anche per gli europei di allora, che tanto a lungo ho duramente giudicato senza sapere quanto fossimo simili – è che a nulla o a poco valgono la sensibilità del singolo, il senso di colpa delle persone di buona quanto inerme volontà, l’empatia e la solidarietà; moti e sentimenti, questi, che infatti ci sono e si manifestano; basti pensare alle centinaia di vite salvate per esempio da un’organizzazione umanitaria per me eroica come i Medici senza frontiere, ai cittadini di Lampedusa e alle tante meravigliose iniziative di solidarietà e sostegno concreto che si manifestano in tutto il nostro Paese (e non solo) in supporto dei migranti, dei profughi e dei rifugiati anche nelle nostre città. Io stessa sono personalmente a contatto con alcune di queste iniziative concrete. Che sicuramente aiutano alcune persone in carne e ossa; che certamente favoriscono anche l’abbattimento di pregiudizi e diffidenze in altre persone in carne e ossa; e si sa che questo conta; che la persona di carne e sangue che si salva, che vive, vale più di mille princìpi decantati e non agiti.

Però non basta. E non è questione di cittadini singoli o solo di coscienza civile. È questione di volontà politica, di visione internazionale, di scelte dei governi. E non saranno i sensi di colpa individuali a cambiare le cose; perciò facciamo bene ad andare in vacanza, a vivere sereni, ad amare la vita, perché sarebbe sciocco e inutile il contrario.

Però una ragazzina del futuro un giorno si chiederà come sia stato possibile che, nei primi decenni del ventunesimo secolo, migliaia di persone siano state lasciate morire per terra e per mare sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno fermasse lo scempio, e ci giudicherà duramente, con angoscia e con uno sdegnato senso di superiorità.


Così carina, così sequestrabile

Ieri pomeriggio camminavo tranquilla per strada, in centro, quando un uomo, col tono affabile da complimento, mi ha apostrofata così: “Stai attenta, ché così carina rischi di essere sequestrata”. Credo di averlo guardato con aria terrorizzata, poiché la mia mente aveva completamente trascurato il “carina” per concentrarsi sul “sequestrata” e – stordita dalla dissonanza cognitiva per cui capivo che mi era stato fatto (nelle intenzioni) un complimento ma che suonava malissimo – lo fissavo chiedendomi: che cavolo ha detto ‘sto qui? Mi ha augurato di venire sequestrata (e orrendamente torturata, poiché è evidente che si riferiva a questo orrore qui)? Mi sta minacciando di sequestrarmi?
Leggendo il terrore nel mio sguardo, l’uomo si è sentito in dovere di precisare: “Era solo per dire che sei bella”.
Per non fare la parte dell’altezzosa o quella della femminista rompiscatole e pedante che non sono, l’ho ringraziato ma, ridendo, a mo’ di battuta gli ho detto: “Be’, la prossima volta è meglio se si ferma alla prima parte del complimento, però, perché la seconda fa paura. Se proprio vuole fare un complimento a una sconosciuta.” Lui si è messo a ridere, mi ha dato ragione e io sono scappata ho proseguito il mio cammino.

Ma quel “complimento” mi è rimasto sul gozzo.

Mi sembra emergere da quello stesso clima violento, sessista e pervasivo al quale appartengono anche le accuse vomitevoli rivolte alla Boldrini (e attorno alle quali è emersa una polemica assurda – tra i cosiddetti difensori della libertà di parola e i suoi presunti censori; come se fosse questo il punto! – che evita accuratamente di entrare nel merito di quegli insulti); gli insulti e le battute a sfondo sessuale che capita costantemente di sentire tra adolescenti in giro, di leggere su internet o per es. alla radio; al quale appartengono le varie uscite razziste e omofobe che leggiamo quotidianamente sui giornali, a volte provenienti anche da uomini politici (vedi certi leghisti contro il ministro Kyenge); fino ad arrivare a ciò che sta dietro a veri e propri reati come gli assassinii di donne (fidanzate, mogli, amanti).

Cosa c’è nella mente di un uomo normalissimo che ascolta al tg un tremendo fatto di cronaca e lo utilizza per fare un complimento con – ne sono sicura – le migliori intenzioni?
In realtà a me sembra (magari però mi sbaglio perché ragiono da donna?) che è quasi come se mi avesse detto: sei bella e allora meriteresti di essere sequestrata (e incatenata e violentata, come le ragazze del fatto di cronaca). Per di più in quello scambio ho avuto come l’impressione che, nelle vesti e coi toni di un gentile dottor Jeckyll, in realtà un perverso Mr. Hide mi stesse comunicando le sue odiose fantasie. Mi è anche tornata in mente una battuta che la mia migliore amica pronunciava sempre quando, da adolescenti, uscivamo tra ragazze e magari qualcuna di noi, salutando le altre e dovendo tornare a casa da sola col buio, esprimeva qualche timore:
“Ma figurati… [brutta come sei] non corri nessun rischio, se incontri un violentatore è lui che scappa”. L’idea è un po’ la stessa al contrario, se ci pensate bene. Infatti, purtroppo, le prime a usare battute sessiste e denigratorie verso le donne sono, spesso, le donne stesse. A dimostrazione che è una questione di cultura in cui siamo immersi, non di genere sessuale di appartenenza. Francamente, non so come se ne esce. L’educazione, la scuola, le iniziative di vario tipo, certo; ma a volte ho l’impressione che siano gocce in mezzo a un mare di melma. E sappiate che sono in genere una tipa molto “sportiva”, abituata a battutacce di tutti i tipi, anche a causa dell’ambiente (un po’ maschilista) che frequento, e di cui rido allegramente; non sono una femminista e tantomeno una “paranoica”… Ma mi sembra che si stia un po’ passando il segno, su tante cose (penso anche al razzismo e all’omofobia dilaganti e in modo spavaldo). Se perfino una “tranquilla” come me comincia a preoccuparsi…


Non finisce più

Non finisce più. Alle nove stamattina di nuovo la casa che sobbalza, cose che cadono, ancora il panico, ancora come topi in trappola. Le linee telefoniche non funzionano e quindi non si riesce ad avere notizie gli uni degli altri se non tramite internet. Questo rende il tutto ancora più angosciante rispetto alla volta scorsa. Non riuscire a comunicare e non avere notizie da persone che abitano nelle zone più colpite è tremendo, ed è attualmente il mio caso. Nuovi morti, nuovi crolli, nuovi sfollati. Si stava cercando di riorganizzarsi. E ora è tutto da rifare. Mi sento demoralizzata. L’unica cosa che dà coraggio è la solidarietà che si respira tra le persone comuni.


Giornalismo “scaramantico”

Ogni giorno ho sempre più motivi per disprezzare la maggior parte di quella che viene spacciata come “informazione giornalistica”; la giudico spesso inattendibile, sensazionalistica, ideologica e approssimativa, cioè ben poco affidabile. E poi arriva la goccia che fa esplodere (altro che traboccare) il vaso. E dato che possiedo un blog, la voglio proprio segnalare qui. Ieri sera, durante l’edizione del tg 2 delle 20,30, nel bel mezzo dell’inspiegabile tragedia che è accaduta nel nostro mare, è andato in onda questo schifo (se qualcuno ha una definizione migliore la proponga pure) che trovate a questo link (sì, mi sono pure presa la briga di cercarlo); quella che trovo peggiore è la conclusione:

servizio indecente Rai

Mi chiedo: che cos’è questo “servizio”? È un’informazione? È qualcosa di utile? Di sensato? Di logico? Di rispettoso della situazione?
Allora, in un paese del cavolo – quello in cui viviamo – in cui la gente si indebita e va in rovina perché crede nelle maghe (Wanna Marchi docet); in cui l’oroscopo campeggia ovunque; in cui se ti scappa un “Auguri” rivolto in perfetta buona fede a qualcuno che deve affrontare una prova rischi di venire sbranata perché devi pronunciare quella cosa assurda che è “In bocca al lupo”; in cui non puoi mai proferire qualcosa di ottimistico perché se no allo scaramantico di turno (cioè il 90% delle persone che ti circondano) viene una crisi isterica e quindi non puoi dire – per es. in previsione di un evento che stai organizzando – cose tipo: “Vedrai che ci sarà il sole!” o “Non vedo l’ora di festeggiare il nostro successo”, guai!, ma devi sempre intristirti e al massimo sospirare un “Mah… speriamo” andando contro la tua natura che ti porterebbe invece a urlare continuamente ai quattro venti che andrà tutto OK e che la vita è meravigliosa; insomma in un paese popolato da gente piena di fissazioni strane e antiscientifiche vai a proporre nel bel mezzo di una tragedia un servizio che vuole essere “curioso” (e allora è fuori luogo) e che molti invece scambiano per “informazione”, dato il contenitore nel quale viene proposto (è all’interno di un telegiornale, non di Voyager)? A questo punto voglio essere assunta al telegiornale, tanto peggio di questo Gabriele Lo Bello e Irene Greco (autori del “servizio”) non posso fare.
Andiamo pure avanti così, che è proprio un piacere pagare il canone.

P.S.: io torno al mio Gene… e a breve posterò le mie “recensioni ilariesche” sui vari film visti, alcuni veramente strepitosi!


Io, Gene e la nefasta Nuvola Grigia

I love You, Gene

(il testo della canzone dedicata al mitico Gene lo trovate qui)

E dire che miriadi di sociologi e massmediologi ci avvertono da anni: la tv fa male. Ma noi continuiamo ad accenderla. Poi non lamentiamoci se ci vengono i traumi. Al limite sfoghiamoci con un post! Ebbene sì: stanotte ho passato una notte d’inferno per colpa di una tal Roberta Petrelluzzi, di cui fino a ieri sera non conoscevo neanche l’esistenza.

Ma procediamo con ordine: il 2 gennaio mi sono innamorata di Gene Hackman. Non è che prima non lo conoscessi, ovvio; ma non mi era mai scattata la scintilla. Per me, era un attore come tanti (sciocca e cieca che non ero altro; come ho potuto?!). Ma il 2 gennaio, appunto, ho preso in biblioteca uno dei pochi film di Woody Allen (che è il mio Mito Assoluto in campo cinematografico e non) che ancora non avevo visto: “Un’altra donna”; e in questo film ci sono un paio di scene d’amore – due semplici baci sulla bocca, niente di hard –  anche abbastanza rapide, con Gene Hackman e Gena Rowlands.

E così, mentre Gene baciava Gena – la quale, probabilmente già sotto l’influsso di Santa Cunegonda, osava resistergli perché doveva sposare un altro tipo, cosa di cui si sarebbe poi largamente pentita e allora, ma troppo tardi!, avrebbe rimpianto aspramente il buon Gene –, sì insomma, mentre Gene baciava Gena che gli resisteva, sono caduta innamorata io. Perdutamente.

Pertanto, da brava monomaniaca seriale quale sono, il passo successivo è stato fiondarmi – in preda ai languori ma anche a quella rigorosa e scientifica determinazione che comunque mi pertiene – su internet e, attraverso il sempre-sia-lodato catalogo Opac, individuare tutti i vhs/dvd con Gene Hackman presenti in tutte le biblioteche di Bologna e provincia. Dopodiché, montata in sella al mio fedele destriero e del tutto incurante delle incombenze cui avrei dovuto dedicarmi (del tipo leggere tre o quattro libri e impostare una ricerca importante cui devo lavorare), ho setacciato tutte le suddette biblioteche procurandomi buona parte del bottino ambìto che tuttora troneggia disposto in totemica pila sul tavolo del mio salotto. Ed è così partito il “ciclo Gene Hackman”: ogni sera un film. Ogni sera, dal 3 gennaio, dopo avere assolto durante il giorno ai miei doveri e dopo avere cenato, io mi spalmo comodamente sul mio divano, inserisco un dvd, spengo le luci in sala e mi godo due ore di Gene Hackman, passando imperturbabile da capolavori del cinema a filmetti di pura cassetta come se niente fosse; l’importante è che ci sia Gene.

Ieri sera era la volta de Il braccio violento della legge, bel film, soprattutto se vi piacciono gli inseguimenti-con-sparatorie-nella-Città-Violenta lunghi anche una ventina di minuti (a me piacciono parecchio, soprattutto se c’è un senso dietro) e i poliziotti tipo ispettore Callahan (qui in una variante ancor più sul tipo del dannatamente perduto), quelli che sembrano gli unici dotati di pistola & senso della giustizia – pur vissuto in modo ossessivo-compulsivo – nel bel mezzo di una melma anomica immane e senza confini costituita da tutti-gli-altri, dotati solo di pistola. Bel film, dicevo, ma adattamento italiano schifoso; due esempi tra tutti: invece di dire “Tu sei del Bronx” dicono “di Bronx” – più volte –, come se “Bronx” fosse un paese e non una circoscrizione di New York (nel 1971 qui nella provincia Italia non si sapeva cosa fosse il Bronx?). E il personaggio di Gene, che in lingua originale viene soprannominato nel film “Popeye”, nella versione italiana è chiamato “papà”. Cioè vi rendete conto? Da “Popeye” a “papà”! Ma che senso ha? Di solito, quando mi accorgo di tali scempi, metto il dvd in lingua originale con i sottotitoli italiani se solo in originale non riesco a seguire bene; ma questa era una videocassetta, quindi mi son tenuta l’adattamento pessimo.

Ma io non volevo scrivere un post su Gene Hackman. Io volevo dire che ieri sera quando il film è finito e stavo aspettando che la videocassetta si riavvolgesse, nel frattempo era rimasta la tv accesa, che era casualmente impostata su rai tre. E io – che quando finisco di vedere un film mi sento sempre un po’ stranita, un po’ in una dimensione a metà tra quella del film in cui ero calata e quella della dura realtà in cui vivo e a cui lentamente mi tocca tornare – me ne stavo lì sul divano ad aspettare la fine di questo riavvolgimento del vhs e non mi accorgevo bene delle immagini che nel frattempo mi passavano davanti sullo schermo; stavo ripensando infatti a quel tipo che nel film aveva ucciso un sacco di gente a caso e del tutto inutilmente perché poi Gene lo aveva raggiunto e giustiziato; e mi dolevo per queste morti inutili (tra cui una giovane mamma con passeggino) benché fossero solo comparse in un film; finché in questa nube filmica in cui restavo immersa hanno cominciato a trapelare le voci della realtà, nella fattispecie quella di una signora di una certa età e dai capelli a forma di nuvola grigia che vedresti bene a giocare a burraco con le amiche sorseggiando un tè e da cui mai ti aspetteresti invece di udire cose tipo: “Cadaveri dei genitori messi in due sacchi della spazzatura” né ti aspetteresti di vederti lampeggiare davanti agli occhi così, a tradimento, le fotografie di questi due sacchi con dentro due persone – due genitori – e subito dopo il primo piano del figlio ventenne sospettato di averli uccisi e inquadrato mentre è sotto processo. E la cosa sconvolgente è che, come in una sorta di reality giudiziario (della serie Il Grande Processo), veniva trasmesso il processo a questo ragazzo in una regolare aula di tribunale, solo che ogni volta che l’imputato o i vari testimoni, interrogati, pronunciavano la parola “sacchi della spazzatura”, il regista staccava e ti mandava in onda a mo’ di flash quei due sacchi della spazzatura con dentro due genitori, posizionati sul pavimento verde di una camera da letto ordinatissima. Ho cambiato subito canale a caso e i miei occhi sono stati aggrediti dagli sbrilluccichii di Milly Carlucci circondata da presunte Stelle ballerine. Ma Milly con la sua vocina ciarliera e squillante non è riuscita a tranquillizzarmi né l’orchestra che suonava la samba. Continuavo a vedere nel mio cervello quei due sacchi, alternati agli occhiali da vista del ragazzo presunto assassino, e al suo sguardo.

Andare a letto è stato un dramma… mi sono tornate tutte le paure che avevo da piccola e anche più avanti quando mi trovavo da sola in casa; ed era un’ora troppo tarda per chiamare qualcuno al telefono. Da un momento all’altro mi aspettavo di trovarmi davanti i fantasmi invendicati di quei due genitori, arrabbiati con me perché li avevo oltraggiati guardandoli in tv. In pratica ho tenuto accese tutte le luci e la radio mentre mi lavavo i denti e mi preparavo e poi, al momento di infilarmi nel letto, ho spento le luci e fatto una corsa sbattendo contro ogni spigolo come non mi succedeva più da tanto tempo. Lo sapevo che era irrazionale – non sono completamente folle – ma a me di notte la razionalità cade un po’. Di giorno sono coraggiosissima!

Ma dai, cretina! – mi dicevo – È da almeno tre sere che non fai altro che vedere morti ammazzati in tutte le salse; solo stasera ne hai visti a decine; ieri sera hai assistito a torture e alla distruzione di intere baracche di neri ammazzati nel Mississippi e la sera prima hai assistito ad altri brutali omicidi nel Pentagono e hai dormito sonni tranquillissimi, sereni e innamorati. Ora perché hai visto due sacchi della spazzatura con dentro due cadaveri devi farti venire tutto ‘sto patema che neanche a cinque anni d’età…?

Eh sì, sì. Tutti quei morti ammazzati nei film sono finzione; mentre quei due sacchi sono realtà. Inoltre la mancanza di rispetto con la quale quei due poveri genitori sono stati sbattuti (con fotografia di quando erano vivi – oltre che di quando erano morti –, nome, cognome, indirizzo e biografie) alla mercè di tutti in seconda serata per me è violenza pura, totale, incomprensibile (non capisco davvero che senso e utilità possa avere quella morbosa trasmissione, si chiama “Un giorno in pretura”). Ho anche pensato che ho passato l’adolescenza e non solo quella a guardare e leggere film e fumetti horror ma gli unici incubi che ho avuto e che ho sono quelli procuratimi dai telegiornali (dopo l’11 settembre ho sognato incendi per un mese, per non parlare di teste decapitate o degli incubi dopo le stragi compiute da psicopatici tipo Casseri).

E poi c’è chi condanna i film violenti. Ma datemi Gene Hackman e la Città Violenta tutta la vita, piuttosto!

[E d’ora in poi quando guardo un film, tv sempre impostata su Boing o rai Yo Yo, così non corro pericoli di traumi una volta spento il videoregistratore/lettore dvd!]


Abbasso la fi.GA

orig_C_2_articolo_1000691_listatakes_itemTake0_immaginetakeQui a Riccione siamo reduci dalla Notte Rosa, una lunga notte a carattere dionisiaco che dura da venerdì alla domenica della prima settimana di luglio, con lo scopo principale di uscirne vivi. Quest’anno la notte rosa è stata particolarmente partecipata, alla faccia della crisi. E io, che volevo solo mangiare il mio primo gelato di stagione, ho dovuto rinunciarvi perché stavo soffocando nella ressa dei festaioli.

In questo lungo weekend rosa, non potevo non notare questo volgare manifesto che occhieggiava un po’ ovunque annunciando un evento organizzato proprio dal mio quartiere riccionese, l’Abissinia (eh, sì, la toponomastica di Riccione è rimasta a un’epoca leggermente sorpassata). Io non ce l’ho con gli ideatori dello stupido slogan e della bevanda che sponsorizzava l’evento (“fi.GA” è un cocktail tratto dai fiori di Guaranà, cocktail che magari sarà anche buonissimo ma che non credo avrò mai il bene di assaggiare perché mi vergognerei a ordinarlo!) e non ce l’ho neanche con le ragazze immagine, le “veline” eccetera. Io vorrei solo chiedere a Cristina del Grande Fratello: ma perché ti vuoi tanto male? Davvero tu ti consideri solo un pezzo di carne con un buco in mezzo (chiedo scusa ai romantici)? Davvero tu vali quanto un bombolone alla crema? Io credo di no, ragazza mia, tirati su!


N.B.: all’evento la suddetta Cristina non si è poi presentata ed è stata sostituita da Nina Moric, che si è presa tutti i simpatici cori inneggianti alla “bibita” e che potete ben immaginare. Io invece il bombolone rosa che offrivano per strada me lo son mangiato e posso orgogliosamente esclamare, seppur in minoranza rispetto al pubblico urlante di sabato: abbasso la fi.GA e viva il bombolone.


Largo ai vecchi

Quando in autunno ho perso il lavoro, sono diventata un’affezionata lettrice di tutti quei giornaletti gratuiti di annunci di lavoro, nonché di siti internet con la stessa funzione. Tale lettura è servita solo a deprimermi e, ora che ho deciso di mettermi in proprio, una delle cose che mi dà più gioia è proprio non dover più sentire quel senso del dovere che mi imponeva di leggere annunci inutili e perlopiù umilianti. L’altro giorno però la forza dell’abitudine ha fatto sì che ne sfogliassi uno, di questi giornaletti, abbandonato sul bancone del bar. Su due pagine dedicate agli annunci di lavoro, entrambe erano dedicate alle domande di lavoro; c’era un solo annuncio di offerta di lavoro: rivolto a pensionati. Leggendolo, ho provato il consueto nodo alla gola provocatomi da questo specifico tipo di annunci che ultimamente va per la maggiore. L’attuale trend è proprio questo: cercare pensionati, da assumere in genere per lavori di segreteria/amministrazione ma, dato che evidentemente la cosa conviene ai datori di lavoro, ne ho visti per call center come addirittura per volantinaggio. Volantinaggio! Il tipico lavoretto del cavolo, solitamente appannaggio di studenti per raccattare qualche euro, un lavoro (che ho svolto, ai tempi del liceo), che richiede anche di stare in piedi a lungo, muoversi, camminare, insomma un lavoro per gente agile. Macché, ai pensionati pure quello! Non so voi, magari me la prendo troppo, ma davvero questa cosa mi sconvolge: con la crisi che c’è, pur di non dar lavoro ai giovani lo si dà ai pensionati, che una pensione – magari piccola, certo – ce l’hanno già!!! Non è giusto.


Di gente orribile che si aggira nel mondo

Spesso vedo un mio amico per pranzo; di solito andiamo in qualche pizzeria e, data l’ora, vi troviamo persone in pausa pranzo, solitamente uomini (dove faranno la pausa pranzo le donne lavoratrici dei dintorni? Boh!). Ebbene, questi uomini parlano, a voce alta o comunque chiaramente udibile da me, che sono al tavolo col mio amico, ok, solitamente impegnata in conversazioni interessanti, certo, ma ho la sfortuna di possedere un udito molto fine. Bene, non sapete quante volte questi spregevoli esemplari del genere maschile si mettono a raccontarsi l’un l’altro – tra una sorsata di vino o coca cola e un’azzannata a quel che hanno nel piatto – avventure sessuali, in genere clandestine, con donne (be’, io adesso dico “donne”, loro usano la ben nota e volgare sineddoche), a volte anche prostitute (e qui parte il paragone tra quale sia la nazionalità da preferire per questo tipo di incontri), quando non si mettono a vantarsi sghignazzando di viaggi (veri o finti, chissà) in Thailandia. E non sto parlando di vecchi bavosi senza speranza ma di gente dai quaranta in su (a volte anche meno).
Che poi, almeno una volta di certe cose si parlava a bassa voce e lontano da orecchi indiscreti; sarà stato un atteggiamento ipocrita, ma significava che, se non altro, ci si vergognava di quei comportamenti; ora invece ci se ne vanta. Io ogni tanto non resisto e lancio la mia temibile e cupa occhiataccia, ma senza ottenere effetti di sorta.

Quello che mi colpisce è che alla base di questi discorsi c’è il sentirsi potenti perché si hanno soldi da spendere. Quanto vorrei alzarmi e spiegargli che c’è poco da vantarsi di avere delle donne, che siano libere o povere prostitute, che vengono con te solo perché hai il tuo accenno di pancia d’ordinanza, un dopobarba che si sente anche a tre metri di distanza e l’aspetto sicuro di te da portafogli bello pieno in tasca (infatti secondo me è meglio non essere ricchi). La mia unica consolazione è che, un giorno magari lontano, la disillusione arriverà – arriva per tutti – e sarà amara.

Senza contare che molti di costoro sono anche fidanzati o sposati, e questo, be’, un po’ mi terrorizza; perché, a meno che tutte queste mogli o fidanzate non siano stranamente cieche o rimbecillite – e ne dubito – significa che questi sporcaccioni sanno mimetizzarsi bene nella popolazione civile. Quindi, ragazze, stiamo attente, che non è che in giro ci sia gente tanto raccomandabile, eh?


L’uragano Ilaria

Ebbene, lo ammetto pubblicamente: io sono una persona equilibrata, solitamente calma, più razionale che emotiva, per farmi arrabbiare bisogna mettercisi d’impegno ed è difficile che ci si riesca e così via. Capìto il tipo. Però… ragazzi, ci sono dei momenti in cui veramente mi parte la bussola, è come se mi si rompesse una vena nella testa, mi trasformo in un’altra persona: mi arrabbio. Ma non è che mi arrabbio quando devo arrabbiarmi, no! Se mi arrabbio, lo faccio e basta. Esplodo, e non c’è niente da fare, bisogna lasciare passare la bufera. Che in genere, massimo due ore, passa, e dopo cinque minuti che è passata, per me è finito tutto, anzi non è mai successo niente:

«Io e te abbiamo litigato? Davvero? Come dici? Sembravo l’incredibile Hulk? Ma va là, è impossibile», esclama la sottoscritta con viso angelico.
«E allora com’è che hai il lato della mano destra completamente viola, gonfio e dolorante?», risponde il malcapitato travolto dalla mia recente ira.
«Ops, sì, è vero, ho sferrato un pugno micidiale contro il tavolo. Lo ammetto, mi sono arrabbiata. Ma non mi ricordo perché!!!».

Ma dico io, che senso ha arrabbiarsi tanto se poi non ci si ricorda neanche il perché?!
Per fortuna è un fenomeno sul tipo degli uragani che una o due volte l’anno si abbattono sul centro-America, cioè non succede spesso, ma quando succede, si salvi chi può.

(Che poi, arrabbiarsi, stanca tantissimo, peggio della maratona di New York).


Se questo è un uomo

“La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quan­do, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiedia­mo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il tota­litarismo e il terrore, a far chiudere gli oc­chi. Oggi no. Una quieta, rassegnata in­differenza, se non anche una infastidi­ta avversione, sul Mediterraneo. L’Oc­cidente a occhi chiusi. Cinque naufra­ghi sono arrivati a dirci di figli e mariti morti di sete dopo giorni di agonia. Nel­lo stesso mare delle nostre vacanze. U­na tomba in fondo al nostro lieto mare. E una legge antica violata, che minac­cia le stesse nostre radici. Le fonda­menta. L’ idea di cos’è un uomo, e di quanto infinitamente vale.

Tratto dall’editoriale di Marina Corradi, pubblicato su Avvenire del 21 agosto. Se volete leggerlo tutto, cliccate qui.

Il paragone fatto con le masse di indifferenti che sapevano e vedevano ma non agivano, durante la Shoah, lo condivido. Ho già scritto una volta del mare Mediterraneo divenuto cimitero. Non lo posso sopportare.