Provaci ancora, Ilaria

Post 28_2016In foto: un esempio di “coordinato di prodotti alimentari”, forse.

Mattina presto, centro città. Sto armeggiando, ancora parecchio assonnata, con la catena della bici per parcheggiarla quando vedo un giovane giapponese avvicinarsi. Pur in modo molto timido, sta puntando proprio me.

“Oddio, ‒ penso ‒ vorrà chiedermi un’informazione stradale. Chissà adesso dove lo manderò a finire, poveretto!”.
Invece capisco che quel che desidera è un’informazione sì, ma di carattere lessicale. Mi rilasso.
“Evvai, stavolta la so! È il mio campo!”, mi dico.

E invece no. Non la so mica tanto bene.

“Cos’è un coordinato?”, mi chiede lui, fiducioso.
“Mmh… un completo da uomo?”, azzardo dubbiosa.
“Un coordinato di prodotti alimentari”, scandisce lui leggendo dal suo iPhone.
“Eeehh… allora… vediamo… di solito si usa più come aggettivo… che sia un gergo tecnico? Fammi capire il contesto.”

Con le teste che si spostano in sincrono, chinate sul suo telefono, leggiamo insieme la frase incriminata mentre gli faccio scorrere avanti e indietro col dito “per capire meglio”.

“Traccia 1. Valutare un coordinato di prodotti alimentari al fine di nonmiricordopiù”.
“Mah, in italiano per coordinato si intende per esempio un insieme di diversi elementi che stanno bene, si intonano insieme o funzionano bene insieme”.
“Come un vaso e una bottiglia?”, prova lui.
“Mah, più come un vaso e un innaffiatoio magari della stessa linea; una caraffa e dei bicchieri; oppure come una pasta e un ragù; o il colore lilla col rosa, sono colori coordinati”.
“Lilla… cos’è lilla?”
“Eeh, no, proviamo con un colore più facile. Il rosso e… e… (e chi se ne intende di abbinamenti?)”
“Il nero e il blu?”
“No, nero e blu in teoria no, anche se ultimamente pare che gli stilisti abbiano cambiato idea e io concordo con loro. Nero e grigio, magari. Ma torniamo ai prodotti alimentari!”

Insomma, siamo giunti alla fondamentale nonché lapalissiana conclusione che un “coordinato di prodotti alimentari” sia un insieme di prodotti alimentari che stanno bene insieme.
Che poi, “prodotti alimentari”, è molto vago. Quindi, rimane quella sensazione di “boh”!

[Mia sorella, cui poi ho raccontato l’episodio, ipotizza che probabilmente ci sia di mezzo una delle tipiche cattive traduzioni di google translator o di uno di quei traduttori elettronici che i giapponesi (almeno, i suoi studenti giapponesi) usano costantemente… a meno che non si tratti davvero di un gergo alimentare]


Donne in sella

ladies on bycicle
Minacce su due ruote, da una foto del 1895

Da che mondo è mondo esistono categorie di persone che sprecano gran parte del loro tempo nello sforzo di limitare la libertà o anche solo i più semplici diletti di altre persone e un buon esempio di questo atteggiamento, dal quale – in quanto ciclista – mi sento particolarmente toccata, è rappresentato dal caso della “bycicle face”, la terribile quanto immaginaria sindrome della “faccia da bicicletta”.

Verso la fine del 19° secolo, infatti, nei paesi anglosassoni, quando le biciclette erano diventate diffuse e accessibili ai più, anche le donne avevano scoperto l’ebbrezza di una bella pedalata da sole o in compagnia. Abiti sportivi – se non addirittura un comodo paio di pantaloni! -, capelli al vento, eccole sfrecciare allegramente sulle due ruote. Immaginiamo che parecchi damerini avranno anche apprezzato la novità, che gettò tuttavia il panico tra i vecchi tromboni i quali, dall’alto della loro egemonia, si sentivano gravemente minacciati da queste donzelle pedalatrici. Si sa che le due ruote favoriscono un’autonomia e una mobilità davvero impensate a fronte di tutta la disponibilità di spazi e mezzi di cui godevano lorsignori. Bisognava dunque correre ai ripari e, data la gravità della situazione, si decise di chiamare in campo la Scienza Medica, che in quanto ad autorevolezza cominciava a non essere seconda a nessuno. Medici di professione, in spregio a Ippocrate, inventarono dunque di sana pianta una sindrome, che chiamarono “bycicle face”, per scoraggiare le donne dall’andare in bicicletta. Si diffuse così la notizia che, per la fragile costituzione femminile, pedalare fosse nefasto al punto da modificare i lineamenti del volto: lo sforzo dovuto alla pedalata, infatti, avrebbe provocato nelle cicliste in modo permanente occhi e menti sporgenti, labbra tese e sottili, guance paonazze e rugose; tratti del viso, questi, considerati decisamente poco femminili e pertanto da evitare. In un’epoca nella quale la bellezza per una donna era in genere la più importante se non talvolta l’unica dote su cui contare per sistemarsi nella vita, chissà quante ragazze e quante donne avranno rinunciato all’innocuo piacere di una pedalata all’aria aperta.

Chissà come avrei reagito io, se fossi vissuta all’epoca. Il mio carattere attuale mi fa sperare che forse sarei stata tra le ribelli, tra quelle che avrebbero rischiato di imbruttirsi pur di sentirsi un po’ autonome… ma è facile ragionare col senno di poi.
Resta da notare come, in simili casi, coloro che vogliono affermare il proprio predominio e il proprio potere soffocando il prossimo si rivelino invece tremendamente fragili (ma non per questo meno dannosi), temendo tanto le piccole libertà altrui e sentendosene così minacciati; e questa, purtroppo, è storia ancora tremendamente attuale

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Un’immagine di Frederick Burr Opper pubblicata sulla rivista satirica “Puck” del 1895.

Per le notizie storiche sulla “bycicle face” mi sono ispirata principalmente a questo articolo, ma se volete divertirvi cercate “bycicle face” su google e su google immagini e ne vedrete delle belle.
Qui un esempio di donne in tenuta da ciclista, all’epoca.


Ricerche senza tempo

annunci

Cambiano i tempi ma le pene d’amore sono sempre le stesse.
Quel “mitissime pretese disinteressandosi stipendio”, poi… (anche se credo fosse un’espressione standard perché “miti pretese” è riportata anche in altri annunci di ricerca di lavoro, però “miti”, non “mitissime”!).

Fin da piccola mi ha sempre incuriosito leggere gli annunci sui giornali, perché dietro quelle poche righe si intravedono storie.
A questo link è possibile sfogliare ogni giorno il Resto del Carlino del giorno corrispondente ma di 100 anni fa. Ed è possibile comunque anche leggere tutti i numeri passati tramite l’apposita barra di ricerca (questi annunci per esempio risalgono all’edizione del 18 novembre 2015). Così si vedrà, tra le cronache terribili della Grande Guerra che imperversava e le pubblicità che già allora occupavano buona parte delle pagine, come la vita andasse avanti, ognuno cercando l’amore, il lavoro, un po’ di felicità.
Il progetto fa parte della Biblioteca Digitale dell’Archiginnasio, consiglio ai curiosi come me di visitare il sito perché vi si trovano tante immagini e documenti interessanti: qui.


Inquietanti teorie

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L’inquietante teoria di mio padre riguardo a tutti questi pensionati in giro col cane è che il suddetto animale sia stato comprato appositamente dalle mogli per “togliersi dai piedi i mariti e tenerli il più possibile fuori di casa”. Se no non si spiega, dice lui, osservando come in genere il pensionato maschio strattoni perlopiù il cane con nervosismo e malagrazia mista a un ché di rassegnato.


L’Ussaro sul rogo

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Questa mattina, passeggiando in Centro, osservo il “vecchione” che verrà bruciato in piazza allo scoccare della mezzanotte per salutare l’anno vecchio.
‒ Ma è uno dell’Isis? Ma siamo matti a provocare così? ‒, esclama l’amica che è con me.
‒ Ma no, è un russo, un cosacco! ‒, si intromette un anziano lì vicino.
‒ Veramente è un Ussaro… ‒, dico io, ma lo so solo perché lo avevo letto su internet ieri sera.
Fatto sta che, a giudicare dai commenti, i più sono convinti che quel tipo minaccioso alto 10 metri sia “un russo” e non si capacitano del fatto che stasera noi pacifici bolognesi metteremo al rogo un cittadino russo, coi tempi che corrono, poi. Mi sa che qui più della conoscenza della storia militare poté lo Zecchino d’Oro col suo Popoff.
Per quanto mi riguarda, questo Vecchione per essere bello è bello, proprio ben fatto, tuttavia mi fa un po’ impressione andare a bruciare un Ussaro in piazza anziché un classico “vecchio” o “vecchia” indistinto. Anche vedendola come provocazione, contro le chiusure delle frontiere e i nazionalismi (come è nell’intenzione dichiarata dall’autore qui), mi pare un po’ stantia.
In ogni caso, tutto finirà in fumo (fumo che non vedrò perché mi guardo bene dall’andare in piazza stasera) e domani ce ne saremo già dimenticati.

Però eccomi con gli auguri di rito… come Snoopy sono pronta ad accogliere l’anno nuovo. Saluto con gratitudine il 2016 che per quanto mi riguarda è stato davvero tanto bello e auguro a me e a chi legge di poter vivere il nuovo anno coltivando la gioia del quotidiano e gli affetti, perché qualunque cosa ci succeda saremo più forti se abbiamo in noi e attorno a noi la protezione giusta. Auguri! 🙂
capodanno


Varia umanità

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Una volta alla settimana, uscita dal lavoro, vado a lezione di letteratura e immaginario, a nutrire la mia anima. Nella fredda ma suggestiva cornice di una antica chiesa ora riconvertita in solenne biblioteca, ascolto uno degli intellettuali più significativi della mia vita spaziare per due meravigliose ore, con la sua voce un po’ impastata un po’ sorniona, dalle Ombre del Casentino di Emma Perodi ai viaggi di Sinbad, dalla Parigi di Hugo e Maupassant alle macerie di guerra fino agli orrori narrati dal gran maestro di Providence e tanto altro ancora: luoghi e storie, letterari e reali, tutti attraversati e rivisitati tramite la lente della Paura, il tema portante di questo lungo ciclo di conferenze.

Seduta tra il pubblico, ascolto, prendo appunti e mi guardo anche intorno: osservo i miei compagni di viaggio.
Sorridendo rilevo come anche il nostro erudito consesso non sia esente dal noto fenomeno chiamato La Forza dell’Abitudine per il quale, in simili circostanze, dopo i primi due o tre incontri nei quali il pubblico si dispone in ordine sparso, ben presto i più tendono a riposizionarsi sempre allo stesso posto e a rispettare come per un tacito accordo la collocazione altrui. Così, ecco per esempio il ragazzo dai vaporosi capelli a caschetto seduto sulla sedia più esterna a destra, la libraia per ragazzi nell’ultima fila al centro che dondola ininterrottamente la gamba accavallata, le due signore anziane in pelliccia della prima fila e, al tavolo in fondo, la coppietta innamorata che passa buona parte della conferenza a bisbigliare occhi negli occhi e a visionare lo schermo dello smartphone, sussurrandosi commenti e sghignazzi per chissà quali battute.
E poi c’è lui, dietro al quale già per la terza volta siedo io: il mangiatore seriale di barrette di cioccolato Kinder. Di mezza età, capelli corti arruffati, maglione a righe larghe, pelle del viso morbida e liscia come quella di un bambino; prende rari appunti con una calligrafia minuta e aggrovigliata da uomo e intanto, con regolarità, scarta una dopo l’altra le barrette di cioccolato al latte. Lavora con metodo: dalla confezione da quattro posata sulla sedia accanto estrae una barretta, la scarta lentamente con una sola mano e poi la ripone dov’era lasciandola un po’ lì così, nuda sulla carta, a disposizione. Dopo poco allunga di nuovo la mano, prende la barretta, ne morde metà e riappoggia la metà restante nella carta sulla sedia. Dopo un altro poco la finisce e riparte allo stesso modo con le altre tre barrette della confezione. Il tutto avviene senza un fruscio né altro suono di alcun tipo. Chissà se questo rito è riservato solo a quell’ora della giornata o si ripete più volte. Chissà se si svolge ogni giorno o è dedicato solo a certe occasioni.

Così mentre il mio mentore, laggiù, parla, legge, spiega e ci incanta, si svolge sotto i miei occhi il parallelo spettacolo delle nostre singole umanità e il tutto si fonde in un piacere speciale.


Le mail sbagliate

Circa due anni fa cominciarono ad arrivare al mio indirizzo di posta elettronica alcune mail che tra l’altro, al solo leggere l’oggetto, sul momento mi facevano ogni volta prendere un colpo: riguardavano tasse, fatture, conti, banche… tutte cose abbastanza ansiogene finché, nel giro di pochi secondi, non mi rendevo conto che non riguardavano me. L’arcano fu presto svelato: la destinataria era una mia omonima, impiegata presso lo studio di un commercialista di un’altra regione. I nostri indirizzi mail differivano soltanto perché i rispettivi nome e cognome, separati dal punto, erano invertiti di posizione. Resami subito conto dell’equivoco, ho inoltrato alla mia omonima la prima di questa serie di mail accompagnata da due mie parole di spiegazione e con l’occasione ci siamo anche salutate tra noi, scoprendo anche di essere quasi coetanee. Dopo questi convenevoli superficiali, ho semplicemente preso l’abitudine di inoltrarle le mail quando le ricevevo, senza aggiungere altro; finché, abbastanza rapidamente, queste mail sbagliate hanno cominciato a essere sempre meno ‒ man mano che lei evidentemente riusciva ad avvertire tutti i suoi contatti di memorizzare il suo indirizzo nel modo giusto ‒ fino praticamente a scomparire. L’ultima è stata una mail scherzosa inviata da una sua amica (e non, come al solito, da qualche cliente) che, quando l’ho inoltrata all’altra Ilaria, ha portato a un nuovo piccolo scambio divertito tra noi.
Dato che poi non ci sono state più mail sbagliate a favorire contatti, benché minimi, da un po’ abbiamo preso l’abitudine di mandarci una simpatica mail di auguri a Natale e a Pasqua. Non ci siamo mai scambiate informazioni personali a parte l’anno di nascita e non abbiamo mai sentito l’esigenza di cercarci sui social o comunque di approfondire la conoscenza. Ieri quando le ho scritto i miei auguri le ho però confidato una bella novità riguardante la mia sfera lavorativa, dato che si tratta di un bel cambiamento per me. D’altra parte io il suo lavoro lo conosco, no? Questo nostro contatto strampalato, di quelli che solo internet riesce a creare, mi fa davvero sorridere. Siamo solo due “colleghe di nome” e non sappiamo quasi niente l’una dell’altra ma mi sento comunque affezionata all’altra Ilaria.

Auguri di buona Pasqua ai miei blogger amici e a chi passa di qui!

easter


Piano con le offese…

Dialogo tra due uomini seduti al tavolino accanto al mio al bar:

– Ieri sono andato dall’oculista. La prima volta in vita mia! No, non è vero, la prima volta è stata per la visita della patente, ma proprio dall’oculista la prima volta è stata ieri. Sono andato perché sentivo un fastidio qui, a quest’occhio. E niente, aveva tutte delle sue macchine strane e… mi ha trovato un difetto.

Ha pronunciato la parola “difetto” con l’indignazione di chi ha appena ricevuto un affronto. Poi ha proseguito:

– Sì, ha detto che ho un difetto: sono astigmatico. Ti rendi conto? Sono arrivato a quarant’anni senza che nessuno me lo avesse mai detto! Adesso arriva lui e mi dice che sono astigmatico! –

– Be’ – ha ribattuto l’amico – Nessuno te lo ha mai detto perché finora non eri mai stato a una visita oculistica. –

– Ok, questo è vero. Ma comunque io non ero andato lì per vedere se ero astigmatico, ma solo per questo fastidio all’occhio. Non c’entrava proprio che lui dovesse andare a vedere se sono astigmatico, sono fatti miei, ok? Che poi sai cos’è l’astigmatismo? È che non vedi da lontano le cose piccole. Cioè io sapevo che uno si mette gli occhiali perché non vede le cose da vicino. [No, amico mio, – chiosavo io nel frattempo dentro me – una per esempio si mette gli occhiali quando non vede niente da lontano e rischia di scambiare il proprio fidanzato con un rispettabile signore sconosciuto, al quale pertanto correrà incontro a occhi chiusi dalla gioia, gli salterà al collo, gli si avvinghierà al corpo, appiccicherà freneticamente le sue labbra contro le sue, e solo allora si renderà conto che la miopia le ha giocato un brutto scherzo. E a quel punto, dopo tante avvisaglie precedentemente trascurate, si deciderà ad andare dall’oculista e a mettersi quel paio di occhiali. E da allora poi sarà così più felice la sua vita? Ok, abbraccerà sempre la persona giusta e non rischierà più di salire sull’autobus sbagliato, ma chissà se così è più quel che guadagna o quel che perde…] Poi – proseguiva il tipo, accalorandosi sempre più – capisco se non vedi le cose grandi da lontano. Ma chi se ne frega se non riesco a vedere un moscerino a un chilometro di distanza? –

– Ok, calmati. Non sei mica obbligato… –

– Certo che no! Astigmatico, figurati! Be’, comunque poi per quel fastidio che avevo, ha detto che sì, nell’occhio c’è qualcosa che sporge. –

– Ma… come, qualcosa che sporge? Cos’è? Qualcosa… di che tipo?! –

– Non so, devo fare degli accertamenti, vediamo, intanto mi ha dato una roba da prendere. –

– Ma tu… te la prendi tanto per l’astigmatismo e non sei preoccupato per questa cosa sporgente? –

– Senti, non posso offendermi per una cosa vera. Per quella faremo gli esami e le terapie. Ma per l’astigmatismo… cazzo, io so che ci vedo benissimo, a me “astigmatico” non lo ha mai detto nessuno, ok? –.

Ecco. Io amo il mondo. Anche e proprio per dialoghi come questi. So che anche a ottant’anni non smetterò mai di restare profondamente affascinata dalla incredibile varietà di opinioni, sensibilità e suscettibilità di noi esseri umani. Sette miliardi di teste pensanti… e ognuna pensa, sente e si offende a modo suo!


Dolcezza

Di solito non faccio video-post ma sono incappata in questo brevissimo video e nel vederlo ho provato un’emozione fortissima osservando le espressioni della civetta, sembrano così umane ma non sono umane, dunque certe sensazioni (e forse emozioni) sono davvero universali? Mi sono così immedesimata che mi sentivo quasi lei. Mi sono ritrovata a pensare alla breve vita di questa singola civetta e al fatto che in questa vita ha provato un tale piacere. E ho pensato alle nostre vite, al valore che hanno certi momenti di intensa felicità o piacere, in cui semplicemente chiudiamo gli occhi e tutto il mondo è dentro di noi. E sappiate che io non sono un’animalista pronta a sciogliersi di fronte al primo animale che vede (anzi, tutt’altro… non dico che sono proprio Crudelia Demon ma insomma…), quindi se ha smosso il cuore a me, è tutto dire! Eccolo:


L’evoluzione tecnologica dei sentimenti

La mia vita sentimentale è iniziata quando ancora i telefoni cellulari non esistevano o li avevano forse  in pochissimi eletti. Ai miei tempi [ma che soddisfazione immensa provo nel poter dire finalmente: «Ai miei tempi»?!], c’era il vecchio, sano, beneamato telefono fisso. Ma proprio fisso, eh? Il cordless era di là da venire. Ai più fortunati i genitori avevano comprato un telefono fisso da mettere in camera, oltre a quello familiare; gli sfortunati – tra cui ovviamente io – avevano un solo telefono per tutta la famiglia, posizionato solitamente nell’ingresso, crocevia dell’intera casa; questo comportava che per avere un po’ di privacy bisognasse aspettare l’ora adatta per telefonare – ovvero quando non c’erano indiscrete orecchie genitoriali in giro né fratelli/sorelle pestiferi – o industriarsi per tirare al massimo il cavo del telefono in modo per esempio da potere telefonare dalla sala riuscendo anche a chiudere la porta, magari stando in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.

A quei tempi tu, romantica tredicenne, ti invaghivi di un ragazzino, trovavi il suo numero di telefono sull’elenco e poi, al momento di chiamare, c’era quel meraviglioso – a ricordarlo adesso – quarto d’ora di panico in cui, oltre a prepararti un discorso decente da fare – nei casi più importanti, con tanto di scaletta scritta; ditemi voi se almeno una volta non avete scritto la mitica scaletta pre-telefonata! –, ti preparavi psicologicamente a dover passare tramite il filtro del genitore del beneamato che, due volte su tre, rispondeva al telefono. Sì, il genitore metteva talvolta un po’ soggezione, ma faceva parte del gioco, era uno degli ostacoli da superare per raggiungere lo scopo, aveva un senso. E comunque perlomeno non sarebbe andato a spettegolare per tutta la scuola della tua telefonata. Quindi eri libera. Tra te e il tuo amore c’era solo una guida telefonica e al massimo un paio di genitori.

Libertà, questa, gravemente compromessa dall’avvento del cellulare, perché adesso se a te, romantica tredicenne, piace in segreto Pinco e questo Pinco vive attaccato al cellulare ed è chiaramente il tipo su cui non faresti una buona impressione chiamandolo sul fisso – sempre che ce l’abbia, poi, il fisso – per risalire al suo numero di telefono, non essendo il cellulare sull’elenco telefonico, devi procedere per vie traverse: di conseguenza chiederai a Tizio, Caio e Sempronio, conoscenti di Pinco; attraverso i quali – benché tu sia convinta di essere stata molto abile nel mascherare il tuo vero scopo – Pinco verrà a sapere che tu sei interessata a lui prima ancora che tu trovi il coraggio di telefonargli. E quando finalmente gli telefoni, Pinco potrebbe essere ovunque: non nel silenzioso ingresso di casa sua, bloccato a un fisso ad ascoltarti col cervello concentrato; ma magari su un autobus affollato e rumoroso dove sentirà una parola su tre di quelle che gli dici, o al campo di basket o per strada a far danni, in compagnia dei suoi amici. Non il contesto ideale per una telefonata con scaletta prefissata. Per non parlare del fatto che tramite cellulare, in molti eviteranno le imbarazzanti telefonate in favore dei più brevi e comodi messaggini. Quindi anziché ricevere una telefonata nella quale senti con piacevole orgoglio tutto l’imbarazzo di chi, dall’altro capo del filo, sfidando la propria timidezza e le orecchie genitoriali, ti chiede tremebondo se sei libera stasera, rischi di ricevere un trillo e leggere su un gelido schermo cose del tipo:
«Ciao, 6 lib stas?».
Ammetterete che non è la stessa cosa.

Ma il limite è stato superato con il malefico facebook. Prima dell’avvento di questo cosiddetto social network, se per avventura conoscevi qualcuno – a scuola, sul lavoro, per strada, in un locale, insomma nel mondo reale –, ci si scambiava un sano numero di telefono, fosse pure il cellulare, e si era a posto. Oggi no. Oggi sempre più spesso capita di conoscere qualcuno, magari proporre di vedersi qualche volta e, mentre si estrae il fido cellulare per inserire in rubrica il numero del nuovo amico/a, sentirsi dire:

“Ok, allora poi ti chiedo l’amicizia su facebook e ci mettiamo d’accordo”.

Eeehh? Ma perché devo essere costretta ad accendere il computer, andare su facebook e aspettare un tuo messaggio se esiste da centoquaranta anni quel benedetto aggeggio che si chiama telefono? Perchééé?!

Ed è così che mi sono trovata a sorridere ripensando ai tempi in cui si telefonava dal fisso, in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.