Impotenza

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Georges Minne, Mother grieving over her dead child.

Fin da ragazzina mi sono sempre chiesta come sia stato possibile che, nel secolo scorso, nel cuore d’Europa, la civile colta progredita Europa, tragedie e crimini quasi inenarrabili, tra cui la persecuzione e lo sterminio di milioni di persone innocenti, siano potuti avvenire sostanzialmente sotto gli occhi di tutti, senza che le popolazioni civili, i comuni cittadini come noi, reagissero per fermare l’orrore che veniva perpetrato in mezzo a loro.
Com’è stata possibile tanta indifferenza?, mi chiedevo con angoscia e anche con sdegnato senso di superiorità.
Adesso – e già da alcuni anni, ormai – lo so.
So che si può vivere sicuri nelle nostre comode case mentre a poca distanza da noi uomini donne e bambini come noi non hanno più le loro; si possono progettare villeggiature e pregustare bagni e gite in barca nel nostro mare, incuranti del fatto che sia una immensa bara di morte; si può sedere a tavola chiacchierando in famiglia mentre sullo sfondo va in onda l’ennesimo naufragio.
Quelle persone – che conosciamo in cifre (80 morti, 200 morti, 50 dispersi…) – è come se fossero un po’ meno persone di noi.

Ma quel che ho capito – e che probabilmente valeva anche per gli europei di allora, che tanto a lungo ho duramente giudicato senza sapere quanto fossimo simili – è che a nulla o a poco valgono la sensibilità del singolo, il senso di colpa delle persone di buona quanto inerme volontà, l’empatia e la solidarietà; moti e sentimenti, questi, che infatti ci sono e si manifestano; basti pensare alle centinaia di vite salvate per esempio da un’organizzazione umanitaria per me eroica come i Medici senza frontiere, ai cittadini di Lampedusa e alle tante meravigliose iniziative di solidarietà e sostegno concreto che si manifestano in tutto il nostro Paese (e non solo) in supporto dei migranti, dei profughi e dei rifugiati anche nelle nostre città. Io stessa sono personalmente a contatto con alcune di queste iniziative concrete. Che sicuramente aiutano alcune persone in carne e ossa; che certamente favoriscono anche l’abbattimento di pregiudizi e diffidenze in altre persone in carne e ossa; e si sa che questo conta; che la persona di carne e sangue che si salva, che vive, vale più di mille princìpi decantati e non agiti.

Però non basta. E non è questione di cittadini singoli o solo di coscienza civile. È questione di volontà politica, di visione internazionale, di scelte dei governi. E non saranno i sensi di colpa individuali a cambiare le cose; perciò facciamo bene ad andare in vacanza, a vivere sereni, ad amare la vita, perché sarebbe sciocco e inutile il contrario.

Però una ragazzina del futuro un giorno si chiederà come sia stato possibile che, nei primi decenni del ventunesimo secolo, migliaia di persone siano state lasciate morire per terra e per mare sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno fermasse lo scempio, e ci giudicherà duramente, con angoscia e con uno sdegnato senso di superiorità.


Vietato eccellere

daliyhaDaliyah Marie, bibliotecaria per un giorno alla Library of Congress, con la direttrice Carla Hayden (prima donna nella storia a dirigere la gloriosa Biblioteca)

Ieri, sfogliando Repubblica: dopo avere superato i vari allarme gelo, melodrammi politici, diversi omicidi efferati tra cui due paginone pruriginose dedicate a un paio di assassini adolescenti, con giornalisti che si improvvisano psicologi (come se non avessimo già abbastanza psicologi veri), mi imbatto in due foto che mostrano una bella bambina dal sorriso simpatico.
Oh no, non sarà successo qualcosa a questa piccola?
No, fortunatamente la bimba non è stata rapita né uccisa; mi trovo di fronte a un raro caso di Bella Notizia. Leggo infatti che la piccola Daliyah Marie, quattrenne di Gainesville (Georgia), è felice poiché ha potuto visitare la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti nella quale ha anche vestito gli abiti della “bibliotecaria per un giorno”. Questo grazie alla sua passione per la lettura: Daliyah infatti ha imparato a leggere all’età di due anni e mezzo e ha già letto circa mille libri. Non è l’unica, in quanto partecipa come tanti bambini al programma “1000 Books Before Kindergarten (1000 libri entro l’inizio della prima elementare), un progetto lanciato nel 2015 per «incoraggiare le famiglie a passare più tempo assieme, promuovendo la lettura negli asili» e che invoglia i bambini a leggere mille libri prima del loro ingresso nella scuola materna (sic nell’articolo: in realtà è la scuola elementare, errore che ho corretto anche a inizio citazione)”.

Subito mi immedesimo nella gioia della piccola; anch’io sono stata una bambina lettrice (anche se non così precoce) e posso solo immaginare come mi sarei sentita contenta nel vivere una giornata come quella che è stata concessa a Daliyah. Da appassionata lettrice di Roald Dahl, poi, non può che stagliarsi nella mia mente Matilda, sorellina cartacea di Daliyah, come lei lettrice precocissima che nei libri trova anche la chiave per sopravvivere in condizioni ostili e migliorare la sua esistenza.
Eppure, più vado avanti nella lettura, più l’articolo assume toni negativi, arrivando perfino a gettare ombre sulla madre di Daliyah, accusandola di protagonismo. Sul fondo della pagina, poi, ecco la lapidaria chiosa firmata dall’intellettuale di turno che è purtroppo un insegnante: una pietra tombale sulla gioia di Daliyah e sulla nostra di ingenui lettori (e te pareva che si potesse leggere una vera bella notizia su un giornale italico? No, mi ero illusa). La punitiva e feroce chiosa si intitola così: “Non troverà la felicità tra le pagine. Mandatela a giocare in cortile”.

Quindi laddove negli USA la piccola Daliyah viene accolta come ospite d’onore nella prima biblioteca d’America, qui da noi, giustamente, nel paese dell’analfabetismo di ritorno, tra un po’ viene messa alla gogna e considerata una vittima di violenza.

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A visitare la Library of Congress con la Direttrice in persona a fare da guida? Orrore… che vada in cortile!

Fonti:
–  l’articolo italiano: qui
–  l’invettiva lodoliana: qui
– l’articolo originale del Washington Post di cui l’articolo italiano è una parafrasi approssimativa (con almeno un errore grossolano di traduzione: un conto è leggere 1.000 libri prima della scuola dell’infanzia, ben diverso è leggerli prima dell’inizio della primaria) e distorta; nell’articolo originale non sono presenti i toni giudicatori e moralistici presenti nel nostro articolo: qui
– Il progetto  1,000 Books Before Kindergarten (direi che con buona pace di Lodoli possiamo lasciare tranquillo il Telefono Azzurro):qui


Bologna, 2 agosto 1980

autobus1Quando scoppia una bomba il mondo si rovescia. Così un autobus diventa un carro funebre. Quel giorno, per 16 infinite ore, l’autobus 4030 della linea 37, guidato da Agide Melloni, ha trasportato ininterrottamente i cadaveri delle vittime dalla stazione all’obitorio, in modo da lasciare le ambulanze libere per i feriti. In seguito alla strage tornò a ricoprire il suo ruolo di sempre, un semplice autobus col suo normale carico di persone ‒ felici, tristi, preoccupate, indaffarate ‒ finché non è stato messo a riposo per limiti di vecchiaia.

Le persone se ne vanno, le cose restano. Diventano simboli per aiutarci a non dimenticare.

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Qui la testimonianza di Agide Melloni e qui il documentario dedicato al leggendario “Trentasette” e alle testimonianze di chi quel giorno era tra i soccorritori.


Francesco

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Dopo la fumata bianca, vista in diretta, ho silenziato la tv lasciandola accesa, pronta a riattivare il volume solo quando avessi visto aprirsi i tendaggi della loggia dalla quale sarebbe apparso il cardinale protodiacono che avrebbe annunciato il nome del nuovo papa. Niente chiacchiere giornalistiche per quel momento importante; volevo concentrarmi. Quell’ora di attesa tra la fumata e lo svelamento del papa è stata in realtà affollata di: scambi su facebook coi vari amici, con argomento: papa; sms che mi arrivavano sul cellulare, con argomento: papa; telefonate di altri amici e di mia mamma, con argomento: papa. Ma tra uno scambio e l’altro, nel silenzio del mio soggiorno mi concentravo e cercavo di immaginare cosa potesse stare vivendo in quegli stessi momenti quel papa di cui ancora non conoscevo né il volto né il nome; quale tumulto di sentimenti stava attraversando mentre si vestiva e si preparava a presentarsi al mondo? In realtà poi quando è apparso sembrava molto più calmo di me, che avevo da circa un’ora il cuore a mille; per fortuna non corro il rischio di diventare papa perché mi verrebbe un infarto fulminante solo all’idea di dovermi affacciare da quel balcone, figuriamoci tutto il resto. Sì, diciamo che mi sono sentita molto in sintonia col protodiacono Tauran, visibilmente emozionato nel fare il grande annuncio: ho temuto per la sua salute. Ma poi, dopo  quell’ora di sospensione e di stress, con mio padre su un treno, lontano da tv e internet, che chiedeva aggiornamenti; mia madre che in questi giorni, avendo vissuto connessa col comignolo papale 24 ore su 24, doveva sfogare l’emozione e mi telefonava ogni cinque minuti; amici credenti emozionati quanto me, amici atei che si davano da fare per lanciare sfottò e provocazioni varie ma anch’essi emozionati; insomma in mezzo a tutte ‘ste palpitazioni, con la curiosità che mi divorava, alla fine il tendaggio si è mosso, ho riattivato il volume, è apparso Tauran mezzo infartuato, ha cominciato a dare l’annuncio, è arrivato al nome del papa e io… non l’ho capito. Eeeh? Cosa? Ber… chi? Sarà che non era tra i pronostici, sarà che sono ignorante in tema di cardinali (anche se, per questo conclave, ne ho adottato uno), sarà che Tauran non aveva proprio il tono di voce fermissimo, ma boh. Poi, però, ho capito “Franciscum”. Il nome nel quale speravo. Sognavo un papa che scegliesse come nome Francesco.

Infine è arrivato lui, e ha detto “Buonasera”; ha fatto una battuta; poi ha fatto la cosa più semplice e bella: ha detto “Preghiamo” e ha invitato a recitare tre preghiere, quelle in cui anche chi non frequenta più una chiesa dai tempi della Cresima si ritrova subito, e infatti so di persone che si sono ritrovate a pregare così, assieme al papa, dopo chissà quanto tempo; potere della tv e dell’emozione del momento storico vissuto in diretta.

Così mi ispira fiducia questo papa, col suo sorriso, la sua semplicità e quel dolce nome. Speriamo che riesca a fare un buon lavoro, con questa Chiesa da raddrizzare e questo mondo con cui riuscire a dialogare.

Buon lavoro, papa Francesco.

E ora, il papa lo abbiamo. Ci manca giusto il governo…


Le belle statuine

Ieri sera ho ceduto anch’io alla moda e ho guardato Berlu su La7, in teoria ospitato da Santoro anche se a dire il vero il conduttore e regista della trasmissione è risultato essere Berlu in persona. Non ho visto niente che non mi aspettassi di vedere, poiché da anni sostengo che Michele Santoro è più berlusconiano di Berlusconi stesso: nello stile, nel narcisismo, nella vanità, nella megalomania, nella fuffa che lo contraddistingue. La differenza è che Berlu rispetto a lui riesce a risultare più sincero, diretto e simpatico.
Dunque il programma si è rivelato un lungo monologo del nostro Berlu, più brillante che mai, intervallato da scherzi e battute tra maschi e agevolato da efficaci volate lanciate dal conduttore/spalla a Berlu, delle quali tra l’altro lui non aveva neanche bisogno.

Quello che mi ha colpita è stato altro. Mentre questi uomini se la ridevano e se la cantavano virilmente tra loro, apparivano in studio due belle statuine: bionde, ben vestite e sedute composte sulle loro sedie, con le gambe accavallate strette strette come si conviene alle donne serie in tv per distinguersi da quelle poco serie (veline & C.) che invece le gambe le possono tenere come pare a loro e sicuramente stanno più comode.
Trattavasi di Luisella Costamagna e Giulia Innocenzi (la prima l’ho riconosciuta, della seconda ho cercato il nome per metterlo in questo post perché non so chi sia ma suppongo una “giornalista”). Cosa facevano queste due signore, in mezzo ai suddetti frizzi e lazzi da bar sport? Tacevano. E si procuravano una forte tensione al collo tendendone tutti i nervi per ostentare – non potendo dimostrarla a parole – la loro intelligenza attraverso uno sguardo che fosse il più possibile determinato e ficcante. Ma il loro viso è stato inquadrato solo di sfuggita rendendo pertanto inutile il torcicollo che le starà affliggendo in queste ore.
Le due, nei pochi secondi in cui è stata loro concessa la parola, hanno mostrato di essere preparate e di avere intenzioni ben più serie e bellicose (in senso giornalistico) del conduttore gigione; ma non sono riuscite a portare avanti uno straccio di dialogo in quanto costantemente interrotte e corrette dal gatto Michele e dalla volpe Silvio. I due compari le interrompevano, è vero; ma le due non sono mai state capaci di farsi valere e prendere la parola o almeno portare a termine un discorso cominciato.

Perciò, cara Luisella: tu che sei una giornalista, una professionista anche di una certa età e ti senti certamente una spanna superiore a molte altre donne, perché accetti questo trattamento? Hai provato a emanciparti l’anno scorso con un programma tuo su rai 3; presumo che sia andato male dal punto di vista degli ascolti e che per questo tu sia tornata all’ovile. Ma ti posso dire che mi sembra più padrona di sé una lobotomizzata de “La pupa e il secchione” rispetto a una bella statuina intelligente ma muta nello studio di Santoro. Insomma mi dispiace per te e per tutte quelle donne intelligenti, professioniste, che in certi programmi tv politici/culturali sono usate (e si lasciano usare) solo per fare scenografia e servono come “quota rosa” ma si vede benissimo che vengono mal sopportate ed emarginate. L’unico che si salva – sia nell’atteggiamento verso le donne sia nel saper tenere testa a Berlusconi – è Gad Lerner (sempre onore a Gad). Ovviamente è appena stato silurato per lasciare spazio al più conformista Formigli.

Il fatto è che nella vita normale non vedo donne messe a tacere come accade nei talk televisivi o in certi contesti politici (anche di sinistra). Quindi la domanda che resterà senza risposta è: perché??? Perché accettate di fare le belle statuine, le brave bambine composte? E la pongo anche considerando il fatto che io in teoria sarei favorevole alle quote rosa (temporanee) ma se poi le donne in quota arrivano nei posti che contano (in parlamento, nei consigli d’amministrazione ecc.) ma non sanno farsi rispettare (a meno di non trasformarsi in uomini, e anche questo è non farsi rispettare), mi sa di fregatura.


Giornalismo “scaramantico”

Ogni giorno ho sempre più motivi per disprezzare la maggior parte di quella che viene spacciata come “informazione giornalistica”; la giudico spesso inattendibile, sensazionalistica, ideologica e approssimativa, cioè ben poco affidabile. E poi arriva la goccia che fa esplodere (altro che traboccare) il vaso. E dato che possiedo un blog, la voglio proprio segnalare qui. Ieri sera, durante l’edizione del tg 2 delle 20,30, nel bel mezzo dell’inspiegabile tragedia che è accaduta nel nostro mare, è andato in onda questo schifo (se qualcuno ha una definizione migliore la proponga pure) che trovate a questo link (sì, mi sono pure presa la briga di cercarlo); quella che trovo peggiore è la conclusione:

servizio indecente Rai

Mi chiedo: che cos’è questo “servizio”? È un’informazione? È qualcosa di utile? Di sensato? Di logico? Di rispettoso della situazione?
Allora, in un paese del cavolo – quello in cui viviamo – in cui la gente si indebita e va in rovina perché crede nelle maghe (Wanna Marchi docet); in cui l’oroscopo campeggia ovunque; in cui se ti scappa un “Auguri” rivolto in perfetta buona fede a qualcuno che deve affrontare una prova rischi di venire sbranata perché devi pronunciare quella cosa assurda che è “In bocca al lupo”; in cui non puoi mai proferire qualcosa di ottimistico perché se no allo scaramantico di turno (cioè il 90% delle persone che ti circondano) viene una crisi isterica e quindi non puoi dire – per es. in previsione di un evento che stai organizzando – cose tipo: “Vedrai che ci sarà il sole!” o “Non vedo l’ora di festeggiare il nostro successo”, guai!, ma devi sempre intristirti e al massimo sospirare un “Mah… speriamo” andando contro la tua natura che ti porterebbe invece a urlare continuamente ai quattro venti che andrà tutto OK e che la vita è meravigliosa; insomma in un paese popolato da gente piena di fissazioni strane e antiscientifiche vai a proporre nel bel mezzo di una tragedia un servizio che vuole essere “curioso” (e allora è fuori luogo) e che molti invece scambiano per “informazione”, dato il contenitore nel quale viene proposto (è all’interno di un telegiornale, non di Voyager)? A questo punto voglio essere assunta al telegiornale, tanto peggio di questo Gabriele Lo Bello e Irene Greco (autori del “servizio”) non posso fare.
Andiamo pure avanti così, che è proprio un piacere pagare il canone.

P.S.: io torno al mio Gene… e a breve posterò le mie “recensioni ilariesche” sui vari film visti, alcuni veramente strepitosi!


Davanti alla legge

«Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessuno ha chiesto di entrare?». Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».


Mi ricordo che un tempo ero solita, d’inverno, ammalarmi della classica influenza stagionale, il che mi permetteva di stare felicemente a casa da scuola almeno quattro/cinque giorni, di restare beata tra le coltri a farmi servire e riverire, mentre approfittavo di tanto tempo libero per divorare libri o guardare la tv. Tra un brodino caldo e una bistecchina di pollo con patate lesse (il cibo del malato, a casa mia), mia nonna si premurava di cucinarmi la sua famosa torta Mantovana (una torta giallissima per tutte le uova che ci metteva), utile, secondo lei, a “rimettermi in forze”. Insomma, per una settimana all’anno ero autorizzata a poltrire beata e senza rimorsi. Cosa si poteva desiderare di più? Certo, avevo febbre e raffreddore, ma pazienza, non morivo mica. Ma a spezzare tale beatitudine, è arrivato il Vaccino stagionale. A un certo punto, il mio dottore ha preteso di vaccinarmi ogni novembre onde impedirmi di ammalarmi. Inutili le mie proteste pro-influenza. E siccome ‘sto benedetto vaccino funziona, io è da credo dieci o undici anni che non prendo più l’influenza.

Quest’anno, oltre al solito vaccino antinfluenzale normale, essendo classificata come “soggetto a rischio” dovrei fare anche il vaccino suino. E qui casca il maiale, ehm, no, l’asino. A fronte dell’allarmismo televisivo propinatoci quotidianamente, il vaccino – almeno nella mia regione, che di solito in queste cose è sempre ben preparata – manca. Non manca solo il vaccino, manca proprio l’organizzazione, cioè pare che all’asl non abbiano le idee chiare sulle procedure, oltre a non avere le scorte. Poi, dato che in Italia si vede che i medici hanno la coscienza ipertrofica, c’è il problema dei medici obiettori, quelli cioè che non vogliono somministrare il vaccino A/H1N1 ai loro pazienti perché non lo ritengono sicuro. Il mio medico di famiglia è tra questi, pur non opponendosi a che io lo faccia alla asl, mentre il mio gastroenterologo vuole che io lo faccia, in quanto immunosoppressa.
Io per farlo devo comunque aspettare di ricevere una lettera di convocazione dalla mia asl, come tutti i soggetti a rischio. Solo che, mentre l’epidemia è già in pieno corso (più di ventimila bolognesi ammalati), le lettere non arrivano.

Stamattina ho telefonato di nuovo alla asl, chiedendo informazioni:

– Eh, signorina, deve aspettare la lettera! –

– Sì, ma intanto che aspetto la lettera l’influenza galoppa. Andrà a finire che la lettera arriverà quando sarò già malata o forse deceduta… –

– Eeeehhh… ha ragione, infatti, lo dico anch’io. Ma non ci si può fare niente, qui siamo in alto mare, sa? –.

Allora, premesso che secondo me questa è una normalissima influenza e che mi sta bene non fare il vaccino perché non mi sento per niente fragile e sarò anche immunosoppressa ma è da tre anni che non prendo neanche un raffreddore (adesso che l’ho detto immagino che domani sarò a letto col raffreddore del secolo), un comune mortale si chiede: se i soggetti a rischio devono assolutamente vaccinarsi, perché non ci sono i vaccini? Se c’è questo lassismo allora significa che non c’è poi tutta questa necessità di vaccinarsi anche se si è a rischio? Io penso che sia valida la seconda ipotesi, perché in caso contrario avremmo uno Stato che mette gravemente a rischio la salute di migliaia di suoi cittadini. Dunque perché ci ingannano? Cioè se non è affatto indispensabile, perché ce lo vogliono far fare e non ci lasciano in pace? (mio padre dice che non ci sono abbastanza scorte e non hanno il coraggio di dirlo…).

Inoltre, perché solo un medico su quattro ha deciso di vaccinarsi? Perché solo a Bologna ben il 40% dei medici di base non vuole assumersi la responsabilità di vaccinare i propri pazienti? E perché bisogna firmare un consenso informato per il vaccino A/H1N1, mentre per il vaccino stagionale no? Sinceramente io mi fido molto del mio medico di famiglia, non è certo un complottista o un dietrologo, quindi se lui considera il vaccino più un rischio che un beneficio, un motivo ci sarà.

Perciò, a questo punto, io mi auguro che questa mitica lettera non mi arrivi, così evito il vaccino senza sentirmi responsabile della scelta di non farlo. Invece domani andrò a fare il solito, caro, vecchio vaccino stagionale.

Che poi, sarebbe seccante morire per una roba dal nome così poco nobile (suina…).

Però, per via di questa lettera di cui tutti siamo in attesa e che ancora nessuno ha visto e che forse arriverà ormai troppo tardi, ho avuto il brivido di sentirmi come il protagonista di Davanti alla legge, il racconto di Kafka che descrive l’eterna attesa di un uomo che vuole entrare nella porta che conduce alla Legge ma la cui attesa si rivelerà inutile ed eterna.

Morale della favola: Kafka vs SSN*: 1-0.

 

*Sistema Sanitario Nazionale


En passant

A forza di pensare a idraulici e cucine non ho avuto tempo di pensare a chi votare domani. Non ne ho la più pallida idea e devo pure sganciare ben due euro. Spero che la notte mi porti consiglio, perché comunque mi sento davvero una pirla ad andare ancora a votare. Possibile che ormai, tra locali e nazionali, facciamo una primaria all’anno e non serve mai a niente? Non so a chi dare ‘sta benedetta croce


Il voto utile

Sabato pomeriggio: indegnamente stravaccata sul divano guardo fuori dalla finestra il cielo azzurro e le fronde agitate da un vento tiepido e mi dico: Quasi quasi potrei andare a votare adesso, così me la sbrigo subito. Detto fatto, mi alzo, mi do un’occhiata allo specchio e penso: A quest’ora non ci sarà nessuno, la gente ci andrà domani, non sto a cambiarmi. E così esco da casa con indosso pantaloncini dei tempi delle medie più magliettazza da combattimento e scarpe da tennis.
Avrei già dovuto insospettirmi quando, passando davanti al circolo Arci, ho visto la pista di bocce insolitamente deserta (di solito è affollata di umarells infervorati nel gioco, tra giocatori e spettatori), come anche avrebbero dovuto mettermi sull’avviso gli orti stranamente spopolati (qui a Bologna il comune, se un/a vecchio/a lo vuole, gli dà un orto da coltivare… e mooolti vecchi lo vogliono). Invece imperterrita ho proseguito fino alla mia ex scuola elementare, dov’era la mia sezione di voto. Ecco. Bene. Sono entrata e ci ho trovato mezzo quartiere. Essendo stata adocchiata contemporaneamente da almeno tre persone che mi salutavano da lontano, non ho potuto battere in ritirata. Così ho salito le scale, scambiato cenni di saluto e raggiunto la mia sezione: e qui, una coda di gente, tra cui la Rosa, la Rosy (mia dada di quand’ero piccola), la Giulia (una compagna di scuola che ha sempre sognato di diventare stilista e che forse, mentre mi squadra dall’alto in basso, riconosce perfino i miei pantaloncini delle medie), tre Luca (tra cui un mio cugino), i genitori della mia migliore amica, la mia maestra delle elementari con suo marito… insomma tutti. Tutti venuti con la convinzione di non trovare nessuno e fare in fretta (e tutti comunque vestiti meglio di me).
L’attesa si preannuncia particolarmente lunga anche perché arrivano vecchi in carrozzina, vecchi pencolanti su bastoni o stampelle, un vecchio con una specie di sondino infilato nel naso… a tutti costoro, ovviamente, viene data la precedenza, come arrivano entrano. Intanto in coda si comincia a chiacchierare, e dopo un po’ scopriamo che voteremo tutti allo stesso modo; anche chi aveva fatto un pensierino sul votare una qualche minima variante rispetto all’ortodossia conclamata si riallinea al pensiero del voto utile. A questo punto, accertata una tale unità d’intenti ed esauriti i vari convenevoli, il leitmotiv della conversazione diventa: “Speriamo di vincere al primo turno”. Credo di avere sentito pronunciare, in quella mezzora di attesa, questa frase in tutte le possibili sfumature e declinazioni.

Finalmente arriva il mio turno, do tessera e carta d’identità e mi ritrovo in mano quattro schede di cui una – quella del comune – sembra un lenzuolo matrimoniale. Mi ritiro per votare, estraggo dalla tasca il mio foglietto su cui ho scritto i vari cognomi per le preferenze, e comincio a compilare: scheda per il presidente di quartiere, scheda per il comune, per la provincia e per il parlamento europeo.
Non so perché al momento del voto vengo sempre presa da un’ansia da competizione per cui devo essere velocissima, ho questa sindrome da Voto più veloce del nord-est, quindi segno, scrivo, controllo di aver comunque segnato il simbolo giusto, piego ogni lenzuolo con grande destrezza, esco e con immenso orgoglio (per l’avere votato, non per la velocità) infilo personalmente le quattro schede nelle rispettive urne.
La signora anziana che mi restituisce i documenti esclama compiaciuta: “Soccia*, che velocità!”, al che io rispondo: “Eh, mi ero preparata a casa!”. E un’altra vecchia, di rimando: “Eeeeehhh, quando c’è la giovinezza…”. Esco compiaciuta; intanto perché realizzo che finché circoleranno anziani di quell’età io anche tra dieci anni sarò ancora definita una giovincella; ma soprattutto mi si estende un gran sorriso sul viso perché anche stavolta, come sempre, ho dato il mio voto; è solo un piccolo voto tra altri milioni (o centinaia di migliaia, nel caso delle amministrative), ma è comunque la mia opinione. Votare è il mio antidepressivo preferito, è una delle cose che mi riempie il cuore di gioia. Di sicuro, almeno in questo senso, mi è utile, eccome.

Mi spiace solo che la mia circoscrizione sia il nord-est; al nord-ovest si è candidata, per il parlamento europeo, una delle mie scrittrici preferite: Bianca Pitzorno, nelle liste di Sinistra e libertà. Per lei avrei davvero trasgredito alla regola del voto utile, non avrei esitato a votarla. Spero che ce la faccia, perché fa parte di quelle persone serie e preziose che non si fanno eleggere per “entrare in politica”, ma perché hanno degli ideali da portare avanti. Buon voto a tutti, scoraggiati compresi, e speriamo in bene…

 

*Colorita espressione bolognese decisamente poco raffinata ma molto usata e da pronunciarsi con la S più grassa e pastosa che si possa immaginare.


Passioni

Avevo appena ricominciato a scrivere sul blog, ma il terremoto mi ha tolto le parole. Scrivere dei post come se non fosse successo niente, non ci riesco. Voglio almeno lasciare passare la Pasqua.

Intanto segnalo le parole forse più belle che ho letto in questi giorni, scritte qui da un amico che la settimana prossima si recherà in Abruzzo come volontario (richiamato dalla Protezione civile) e che, mentre scalpita per partire, non lascia che l’attesa passi invano. Quello che mi piace delle sue parole è che vanno a toccare delle corde sensibili, credo, in ognuno di noi: tutti, di fronte a certe immagini, avremo provato il desiderio di potere andare lì ad aiutare. Ma non ci si improvvisa volontari, quindi se la prossima volta vorremo essere pronti, la cosa migliore che possiamo fare è iniziare adesso, iscrivendoci per esempio a un’associazione di soccorso, venendo formati e cominciando a dare una mano nella nostra città, come fa appunto Massimo che lavora come volontario sulle ambulanze.

Oggi è anche Venerdì santo, un giorno (l’unico, forse) in cui disperare è lecito; viene ricordata l’atroce sofferenza e la morte di Gesù. Pensate che stasera, in Chiesa, assisterò, come ogni anno, a questa scena: nel silenzio dei presenti, il prete (aiutato dai diaconi) prenderà tra le mani un crocefisso grandissimo (a grandezza umana) e innalzandolo, attraverserà tutta la chiesa cantando: “Ecco il legno della croce, da cui pende il salvatore del mondo”. Il contrasto tra questa frase e quello che vedo (un Gesù sanguinante e impotente inchiodato a una croce) mi manda sempre in tilt il cervello, ogni volta, è proprio una sensazione fisica quella che provo, difficile da sopportare! Come fa uno a salvare il mondo se è lì nudo su una croce? Vi assicuro che “vederla”, questa contraddizione, è diverso rispetto al pensarla. Mi sembra davvero una beffa crudele e cui è stupido credere, come mi sembra crudele un terremoto che uccide a caso (meno incomprensibile, purtroppo, e da punire, mi pare invece l’incuria di chi costruisce case di sabbia in una zona altamente sismica).

Ieri, infine, ricorreva l’anniversario della morte di Dietrich Bonhoeffer, che considero uno dei miei “padri ispiratori”, ucciso dai nazisti il 9 aprile 1945 nel lager di Flossenburg. Bonhoeffer era un uomo che amava tantissimo la vita, in tutte le sue dimensioni, amava il mondo anche nei suoi aspetti materiali, amava la cultura e la buona musica, amava la sua fidanzata, si immaginava marito e padre, conosceva la pienezza della vita e vi aspirava; era un uomo giusto che avrebbe potuto “starsene tranquillo” mentre il mondo cadeva a rotoli (apparteneva alla buona borghesia tedesca e nessuno gli avrebbe torto un capello se si fosse fatto i fatti suoi) e invece ha deciso di resistere, portando avanti le sue idee opposte a quelle del Terzo Reich nel quale gli è toccato di vivere, arruolandosi poi nel gruppo che il 20 luglio 1944 cercò, fallendo, di abbattere il tiranno. Chiuso in carcere per due anni e poi umiliato e ucciso, ha lasciato la sua testimonianza di uomo libero nelle lettere che scrisse a parenti e amici, raccolte nel libro intitolato Resistenza e resa, edito dalla casa editrice San Paolo, la cui lettura consiglio caldamente (lo troverete sicuramente anche in biblioteca), da cui copio questo stralcio significativo in un giorno triste come questo:

“Essere pessimisti è più saggio: si dimenticano le delusioni e non si viene ridicolizzati davanti a tutti. Perciò presso le persone sagge l’ottimismo è bandito. L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé“.

Con queste parole vi auguro di trascorrere una Pasqua felice! AUGURI a tutti, e a presto con i miei soliti post stupidini!