Vietato eccellere

daliyhaDaliyah Marie, bibliotecaria per un giorno alla Library of Congress, con la direttrice Carla Hayden (prima donna nella storia a dirigere la gloriosa Biblioteca)

Ieri, sfogliando Repubblica: dopo avere superato i vari allarme gelo, melodrammi politici, diversi omicidi efferati tra cui due paginone pruriginose dedicate a un paio di assassini adolescenti, con giornalisti che si improvvisano psicologi (come se non avessimo già abbastanza psicologi veri), mi imbatto in due foto che mostrano una bella bambina dal sorriso simpatico.
Oh no, non sarà successo qualcosa a questa piccola?
No, fortunatamente la bimba non è stata rapita né uccisa; mi trovo di fronte a un raro caso di Bella Notizia. Leggo infatti che la piccola Daliyah Marie, quattrenne di Gainesville (Georgia), è felice poiché ha potuto visitare la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti nella quale ha anche vestito gli abiti della “bibliotecaria per un giorno”. Questo grazie alla sua passione per la lettura: Daliyah infatti ha imparato a leggere all’età di due anni e mezzo e ha già letto circa mille libri. Non è l’unica, in quanto partecipa come tanti bambini al programma “1000 Books Before Kindergarten (1000 libri entro l’inizio della prima elementare), un progetto lanciato nel 2015 per «incoraggiare le famiglie a passare più tempo assieme, promuovendo la lettura negli asili» e che invoglia i bambini a leggere mille libri prima del loro ingresso nella scuola materna (sic nell’articolo: in realtà è la scuola elementare, errore che ho corretto anche a inizio citazione)”.

Subito mi immedesimo nella gioia della piccola; anch’io sono stata una bambina lettrice (anche se non così precoce) e posso solo immaginare come mi sarei sentita contenta nel vivere una giornata come quella che è stata concessa a Daliyah. Da appassionata lettrice di Roald Dahl, poi, non può che stagliarsi nella mia mente Matilda, sorellina cartacea di Daliyah, come lei lettrice precocissima che nei libri trova anche la chiave per sopravvivere in condizioni ostili e migliorare la sua esistenza.
Eppure, più vado avanti nella lettura, più l’articolo assume toni negativi, arrivando perfino a gettare ombre sulla madre di Daliyah, accusandola di protagonismo. Sul fondo della pagina, poi, ecco la lapidaria chiosa firmata dall’intellettuale di turno che è purtroppo un insegnante: una pietra tombale sulla gioia di Daliyah e sulla nostra di ingenui lettori (e te pareva che si potesse leggere una vera bella notizia su un giornale italico? No, mi ero illusa). La punitiva e feroce chiosa si intitola così: “Non troverà la felicità tra le pagine. Mandatela a giocare in cortile”.

Quindi laddove negli USA la piccola Daliyah viene accolta come ospite d’onore nella prima biblioteca d’America, qui da noi, giustamente, nel paese dell’analfabetismo di ritorno, tra un po’ viene messa alla gogna e considerata una vittima di violenza.

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A visitare la Library of Congress con la Direttrice in persona a fare da guida? Orrore… che vada in cortile!

Fonti:
–  l’articolo italiano: qui
–  l’invettiva lodoliana: qui
– l’articolo originale del Washington Post di cui l’articolo italiano è una parafrasi approssimativa (con almeno un errore grossolano di traduzione: un conto è leggere 1.000 libri prima della scuola dell’infanzia, ben diverso è leggerli prima dell’inizio della primaria) e distorta; nell’articolo originale non sono presenti i toni giudicatori e moralistici presenti nel nostro articolo: qui
– Il progetto  1,000 Books Before Kindergarten (direi che con buona pace di Lodoli possiamo lasciare tranquillo il Telefono Azzurro):qui


Quadernini

quadernini(clicca sull’immagine e poi scorri verso il basso per leggere il seguito)

Dato che tra i miei lettori abituali vi sono anche maestre e insegnanti, vi segnalo un sito che seguo ormai da qualche anno e che avevo scoperto grazie a Facebook: http://quadernini.tumblr.com
Scorrendo la pagina ci si immerge nelle composizioni di temi (o dettati) di bambini e bambine dagli anni più recenti ai primi del ‘900. Pagine ricche di parole, disegni, strafalcioni, diverse calligrafie; e le copertine dei quaderni, tra le quali ognuno di noi riconoscerà quelle che si usavano ai suoi tempi.
È una lettura divertente, commovente, nostalgica, curiosa, appassionante, tra rispecchiamento e distanza.
Un tuffo nelle parole e nell’immaginario dei bambini ma soprattutto nella didattica scolastica con tutte le sue qualità, i suoi difetti e le sue evoluzioni. Quasi una sorta di lungo libroCuore della Scuola.

Chi ama i quadernini ama la scuola.

quadernini-tumblr
E cliccando qui sotto, una carrellata di copertine (io ne ho riconosciute tante “dei miei tempi”):
copertina

Carta e penna

cartapennaCirca un paio d’anni fa, mentre attorno a me fioccavano buoni propositi per il nuovo anno, tutti molto nobili ed elevati, io formulavo l’umile proposito di ricominciare a scrivere sistematicamente con carta e penna tutti i giorni almeno mezz’ora di seguito, e possibilmente di ricominciare anche a tenere metodicamente un diario, cogliendo i famigerati due piccioni con una sola fava. Mi ero infatti accorta che la mia grafia, un tempo bella e ordinata, era decisamente degenerata e, come se non bastasse, mentre in passato ero in grado di scrivere a mano per ore e ore di fila, adesso dopo tre minuti avevo già i crampi. Solitamente sono una vera frana nel mantenere i propositi ma questo mi stava troppo a cuore, anche perché nel frattempo avevo cominciato a leggere di studi specifici che attestavano un rapporto molto stretto tra scrittura a mano e funzioni cerebrali (e io tengo ai miei neuroni più che a qualsiasi altra cosa). Nonostante la grande fatica iniziale, non mi sono lasciata scoraggiare e ormai ho reintegrato tale buona abitudine nella mia routine. L’unico effetto collaterale è che ho ricominciato ad acquistare appassionatamente diari, taccuini, quaderni e moleskine (tutti comunque utilizzati), penne, pennine e pennette.
Sabato, durante un corso d’aggiornamento che sto seguendo, è stato affrontato proprio questo argomento: l’importanza della scrittura con carta e penna. È stato ribadito appunto come da tempo gli studi nell’ambito delle neuroscienze ci dicono che la scrittura tramite tastiera del pc non equivale a quella manuale su carta. Quest’ultima non solo ci permette di esercitare una competenza fondamentale acquisita in millenni di evoluzione ‒ cioè la motricità fine della mano ‒ ma soprattutto attiva zone del cervello che presiedono alla creatività e alla produzione di pensiero e di linguaggio, che la videoscrittura lascia praticamente spente e inattivate. Scrittura a mano e sviluppo cognitivo vanno di pari passo e, nonostante le nuove opportunità offerte anche a livello cognitivo dalle nuove tecnologie, la perdita del segno grafico comporterebbe il venir meno di tutta una serie di possibilità cognitive fondamentali. Non si tratta certo di demonizzare computer e tablet, che vanno benissimo, ma semplicemente di mantenere (o stimolare e incentivare, nei bambini) anche le nostre capacità grafiche. Il problema sta cominciando a diventare un’emergenza già nella scuola primaria, dove sempre più insegnanti si trovano alle prese con bambini che non sanno impugnare correttamente penna o matita. Quindi, il suggerimento è: non smettiamo di scrivere (anche) con carta e penna e se avete bambini abbiate cura delle loro abilità grafiche ossia della loro intelligenza.
Senza contare, poi, il valore che i nostri scritti autografi hanno per la nostra stessa identità. La nostra grafia ‒ anche senza fantasiose interpretazioni psicologiche ‒ parla di noi perché è unica ed è, assieme al supporto cartaceo a cui la abbiamo affidata, una di quelle cose che resteranno di noi anche quando noi non ci saremo più.


Andiamo in centro?

Avevo promesso che il mio blogghino avrebbe ricominciato a dispiegare le sue ali argentee in autunno e l’autunno è arrivato; anzi, più che autunno, sembra arrivato direttamente l’inverno. Così, eccomi qui. E non mi interessa di dover scrivere ogni volta chissà quale post elaborato, dato che non ho più il tempo di una volta; scriverò quello che mi viene, ma sempre seguendo la mia regola e cioè che, essendo questo un posto pubblico, quel che scrivo qui, anche quando nasce da spunti autobiografici, deve poter avere almeno un minimo di significato e di interesse per chi legge; per tutto il resto c’è il mio diario personale. E pazienza se non avrò il tempo di limare tutto e scrivere narrazioni mirabolanti; in fondo lo scopo (devo orgogliosamente dire perseguito con successo, nel mio piccolo, in questi anni) del blog è sempre stato quello di donare a chi legge di volta in volta – e, nel migliore dei casi, tutto insieme – un sorriso, un momento sereno, uno spunto di riflessione, una storia in cui immedesimarsi o trovare conforto (dalle statistiche del blog vedo che i miei post più “tragici” – vicissitudini ospedaliere e sentimentali in testa – sono sempre i più gettonati), tutto qui; per i capolavori c’è… Masterpiece! 😛

 Fine della premessa.

Voglio cominciare questa nuova stagione con un ricordo tra i più dolci e cari che ho; mi è capitato di rievocarlo un paio di sere fa, durante una specie di cena di lavoro in cui si parlava di letture obbligatorie, imposte ai bambini da insegnanti o genitori; quelle che ti fanno passare la voglia di leggere. E il mio pensiero va al mio meraviglioso padre, a lui che ogni tanto, fin da quando ero molto piccola, prima ancora che sapessi leggere bene da sola, mi diceva: “Andiamo in centro?”. Andare in centro era allora praticamente il Paradiso; significava che io e lui da soli uscivamo mano nella mano e andavamo a prendere un meraviglioso autobus; durante il viaggio – in realtà breve ma che a me sembrava sempre lunghissimo ed emozionante – ci saremmo seduti o collocati accanto al finestrino e avremmo chiacchierato di tante cose nostre mentre il paesaggio noto del quartiere lasciava spazio a quello meno noto che conduceva verso il centro. Ma, soprattutto, andare in centro significava scendere sotto le due torri e tuffarci in libreria, spesso in più di una libreria. Qui, come per la verità sempre e ovunque quando c’era/c’è di mezzo mio padre, venivo educata a diventare una persona libera, col diritto-dovere di sviluppare gusti personali assumendomene le conseguenze: venivo lasciata libera di girovagare da sola tra gli scaffali del settore bambini per scegliere un libro da acquistare, mentre mio padre andava da tutt’altra parte, in genere nel reparto filosofia e teologia, a scegliere i suoi libri. Ecco. Anche se ormai sono passati parecchi anni, ricordo perfettamente com’era liberatoria e inebriante quella sensazione di potenza che provavo: ero una bambina piccola ed ero lasciata completamente sola a sfogliare libri, leggerne la quarta di copertina, perdermi tra tutti quei colori e con la responsabilità di dover scegliere tra tutti un libro che mi sarei portata a casa. Insomma, ci si fidava di me! A volte mi divertivo a esplorare la libreria col rischio di perdermi tra stanze e scaffali. Di altri bambini soli così piccoli non ce n’erano quasi mai; tutti avevano il loro bravo adulto a controllarli.
Quando mio padre tornava, coi suoi libri sotto braccio, mi chiedeva quale libro avessi scelto. A volte avevo scelto, senza saperlo, un libro di valore; altre volte avevo scelto qualche stupidaggine; papà non giudicava. Mi chiedeva se ero sicura, magari lo sfogliava con me, mi invitava a confrontarlo con qualche altro libro; ma quando mi decidevo, la mia scelta veniva rispettata. Lui in più sceglieva per me anche un libro di testa sua, di solito un classico per l’infanzia che ancora non conoscevo; in questo modo, indirizzava comunque le mie letture proponendomi, dall’alto della sua esperienza, libri importanti che io da sola non potevo conoscere.

La soddisfazione di uscire dalla libreria con i nostri sacchetti, ardenti dal desiderio che arrivasse la sera per tuffarci subito nella lettura, era grande. Ma prima di tornare a casa c’era un’altra tappa irrinunciabile: andavamo in un bel bar, ci sedevamo a un tavolino come due gran signori e ordinavamo due calde cioccolate in tazza con panna. Fuori, come ora mentre scrivo, calava la sera, il freddo si faceva sentire. Noi due, i volti allegri illuminati dalla luce elettrica del bar, gustavamo la nostra cioccolata; usciti da lì, se era la stagione, compravamo un sacchetto di caldarroste in uno di quei baracchini per strada, poi tornavamo a casa. Papà, libri, libertà, evasione e cioccolata calda: con associazioni di tal fatta è abbastanza ovvio che la lettura per me abbia sempre rappresentato un momento caldo ed emotivamente ricco, oltre che intellettualmente stimolante. Senza contare il fatto che mio padre, da quando ero neonata fino più o meno ai miei dieci anni (ma, grazie a mia sorella più piccola che stava in camera con me, ho approfittato delle sue letture serali anche ben oltre quell’età), ha passato ogni benedetta sera seduto sul mio letto a raccontarmi fiabe prima e a leggermi – a puntate – romanzi poi… ma questa è un’altra storia.


P.S.: rileggendo questo post, mi è tornato in mente quest’altro episodio raccontato qui. È davvero bello notare come i libri abbiano accompagnato tappe importanti della mia conquista dell’autonomia personale… persino quella degli spostamenti (trasloco compreso)!


Un modo semplice di reagire a un complimento

Questo è un post di protesta contro la “falsa modestia”. In particolare mi riferisco a quella falsa modestia per cui, di fronte a un complimento sincero, molte persone, invece di accettarlo serenamente e farsene una ragione, cominciano a fare di tutto per rifiutarlo. Questo genere di situazione mi indispettisce parecchio. Perché io, per carattere, elogio spesso le persone (solo elogi sinceri, niente complimenti ipocriti o tanto per dire). Ognuno di noi possiede delle qualità, delle capacità, delle caratteristiche sue personali per le quali essere elogiato. E trovo che sia bello per noi vedere che un altro si accorge di tali qualità. Infatti, così come mi piace sottolineare i pregi altrui, amo anch’io essere elogiata. E quando ricevo un complimento – qualunque tipo di complimento: che riguardi il mio aspetto fisico, qualcosa che so fare/ho fatto bene o una mia dote caratteriale – faccio una semplice cosa: sorrido e dico grazie. Magari a volte non sono proprio d’accordo col complimento perché lo trovo esagerato? Embe’? Se quello la pensa così su di me, è il suo giudizio e ci saranno dei motivi per cui se lo è formato. Ha senso che io mi metta lì a schermirmi, contestare e precisare che no, non sono poi così bella/brava/dotata? NO.

Perciò, cari lettori o viandanti che passate di qui, le prossime volte che qualcuno vi farà un complimento sincero (e si capisce subito se il complimento è sincero o no), non sminuite l’opinione che il poveretto vi ha appena espresso negandola e iniziando a elencare tutti i motivi per cui non meritate quel tale complimento: così non sembrate educati, pudichi o modesti, ma solo dei rompiscatole maleducati. Dite grazie senza stare a contestare, fate un bel sorriso e portatevi a casa l’elogio, ché tanto di critiche ne raccogliamo più dei complimenti, non c’è pericolo di riceverne troppi!


In tendopoli

Mercoledì sono andata in uno dei paesi colpiti dal terremoto, che chiamerò Paesino, per rispetto delle persone di cui descriverò la condizioni in questo o in altri post.
L’intero paese è attualmente zona rossa, non ci si può entrare.
In periferia – fuori dunque dalla zona rossa – vi sono le classiche villette monofamiliari, ognuna col suo giardino; e in ogni giardino, o quasi, vi è una tenda. Anche se queste case sono agibili, i loro abitanti si sentono più sicuri a dormire in giardino.
Dopo la periferia, c’è la tendopoli.

Una tendopoli, un conto è vederla al tg, ben diverso è starci dentro, respirare la calura umida della bassa tra le tende, l’erba e il cemento; osservare bambini piccoli e di ogni età vagare da soli o a gruppetti in spazi non pensati per essere abitati e trovarsi a toccare con mano la precarietà pressoché assoluta di una vita del genere. La maggior parte degli abitanti di quel campo (i 2/3) sono persone immigrate, di diverse nazionalità. Infatti una delle cose che saltano subito all’occhio sono i cartelli scritti in arabo. Questo perché, come ci ha spiegato la neuropsichiatra, la maggior parte degli italiani ha parenti che può ospitarli o seconde case al mare o in montagna, mentre chi finisce in tendopoli (soprattutto se per restarci a lungo), italiani o stranieri che siano sono i veri “diseredati”, quelli che non hanno qui niente e nessuno, se non appunto una piccola tenda offerta dallo stato in mezzo al nulla.

La neuropsichiatra con la quale avevamo appuntamento ha approntato lì, dal primo momento, un piccolo “punto di ascolto” (cioè un piccolo gazebo bianco), poiché tra bambini e adulti sono davvero tante le persone rimaste traumatizzate dal terremoto, quindi con ansia, depressione e difficoltà a dormire. Come attività per bambini, al momento non c’è quasi niente: nel pomeriggio arriva il prete dell’oratorio del paese (giovanissimo, simpatico e si chiama don Matteo…) con qualche ragazzo della parrocchia e fanno giocare un po’ i bambini. I bambini sono tanti e in molti di loro si sono spontaneamente avvicinati a noi: chi facendo domande, chi volendo giocare, chi cercando coccole. Abbiamo proposto (io ero in rappresentanza dell’università ma anche assieme alla cooperativa culturale con cui collaboro) un’idea di progetto rivolto soprattutto ai bambini del campo, che prevede letture partecipate, drammatizzazioni, musica in coro e giochi di orientamento (con mappa del territorio e bussola) per aiutarli a prendere possesso di quello spazio a loro estraneo – attualmente un vero e proprio non luogo – in modo divertente e giocoso, accompagnati da noi educatori (volontari).
Il progetto deve ora essere valutato e approvato da una commissione composta da: ASL, Protezione civile e sindaci del territorio. Ma alla neuropsichiatra (che rappresenta la ASL) è piaciuto molto, quindi direi che vi sono buone possibilità che venga approvato.
Lo spero con tutto il cuore, perché ho visto bambini bisognosi di cure educative e di giocare, sognare e sperare, e vedo che c’è bisogno di educatori e di affetto.

È in occasioni come queste che, incrociando lo sguardo altrui, capisci cosa significa quello strano concetto che va sotto la dicitura “il prossimo tuo”. Oh, lo capisci benissimo. Non ci vogliono tante parole o teorie. Basta uno scambio di sguardi in mezzo a una fila di squallide tende. E tra zanzare, umidità e solleone, sai che passerai una delle estati più significative della tua vita, perché dove la terra distrugge, l’uomo (e la donna) ricostruisce.


Non calpestateci

Stamattina la qui presente Ilaria si trovava alla cassa del suo bar di fiducia, coi suoi due euro e 20 centesimi in mano per pagarsi il bignè alla crema e il caffè appena gustati, quando, benché fosse il suo turno, ha visto apparire al di sopra della sua testolina una mano maschile e poi il susseguente braccio, il quale allungandosi giungeva a depositare sul bancone davanti a lei una banconota verde da 100 euro.

No, non si trattava di un milionario che, folgorato dalla mia beltà, desiderava offrirmi la colazione e magari rapirmi con i suoi 720 cavalli vapore; si trattava bensì di un maleducato che, forte della sua altezza e del suo lungo braccio, pretendeva letteralmente di scavalcarmi e passarmi davanti; e non perché avesse fretta o avesse appena saputo che la mamma si era rotta il femore e giaceva abbandonata a se stessa in un pronto soccorso; poiché il suo fare era tranquillissimo e pochi istanti prima, passandogli accanto, lo avevo osservato mentre, appoggiato tranquillamente con un gomito a un bancone, dava una sbirciatina distratta al quotidiano.

Io, non sapendo cosa dire, sono stata zitta. Sì, l’ho guardato con uno sguardo che nelle mie intenzioni doveva essere il classico ed eloquente sguardo inceneritore e può anche darsi che il mio sguardo fosse davvero tale; il problema è che lui non mi ha guardata né si è accorto che lo stavo fissando intenta a incenerirlo; quindi il mio corrugamento è stato del tutto inutile e forse mi procurerà pure qualche ruga permanente. Io, in questi casi, non so farmi valere a parole; invece la mia barista sì. Lei, sì. E così, esordendo con un «Certo che la cavalleria l’è morta!», esclamato con un tono di disprezzo degno della miglior Mariangela Melato, si è poi lanciata in un ardito predicozzo su quanto gli uomini di oggi siano maleducati e cafoni e «Non dico di dare la precedenza, ma almeno di rispettare il proprio turno! Siete proprio senza vergogna!». Il tipo non ha ribattuto nulla, io ho pagato ed è finita lì.

Ebbene, la barista ha detto quel che penso sempre anch’io di questi maleducati (quindi non tutti gli uomini, ma quelli maleducati, che sono una minoranza ma “rumorosa”) e cioè in poche parole: non pretendiamo cortesie particolari, ma semplicemente: non calpestateci!
Quando si sale sull’autobus e il tipo con le spalle da rugbista ti spinge di lato per entrare prima, solo perché tu sei leggera e lui è grosso; quando sei in coda da qualche parte e l’arrogante ti scavalca; quando si arriva casualmente nello stesso momento a dover passare da una porta e l’altro, pur di passare prima, anziché arretrare di quel millimetro, ti schiaccia contro lo stipite pur di entrare lui; quello che se ti cade una cosa per strada non solo non si ferma per aiutarti ma ci passa sopra (e tu ti vedi migliaia di scene romantiche di film – in cui a lei cadono i fogli, lui si china a raccoglierli e scocca l’amore – passarti davanti e farti Ciao!). E, per favore, sempre voi maleducati, non rispondete, se qualcuna osa risentirsi un attimo, che abbiamo voluto la parità. Perché, a parte che questa parità ancora non è che si veda proprio tantissimo, qui non si tratta di cavalleria bensì di educazione: non si calpesta la gente solo perché si è più grossi o più “arrivati”.

Sono così abituata a questo andazzo che sono arrivata al punto che l’altro giorno, in Salaborsa (biblioteca di Bologna), dovendo io uscire da una porta e trovandomi di fronte un uomo che doveva invece entrare, è venuto spontaneo a me farmi da parte e dirgli sorridente: «Prego» indicandogli anche col braccio di passare lui; ma lui si è tutto sconcertato e mi ha detto: «Ma ci mancherebbe altro! Ma signorina! Ma cosa fa?» e mentre io mi chiedevo: Oddio, cos’ho sbagliato stavolta?, lui mi spiegava che forse io sono giovane (eeh, magari!) e non conosco l’educazione, ma che a questo mondo le donne devono sempre avere la precedenza. Guai il contrario! E sapete qual è il colmo? Che io stavo per rispondergli: «Ma guardi che abbiamo voluto la parità!». Insomma, non se ne esce. L’unica regola valida per tutti a questo punto è: non calpestiamoci!


Il dono

Camminavamo lentamente, affiancati, sotto al portico, diretti verso le nostre fermate d’autobus, scambiando qualche parola sulla fine della scuola e l’esame di maturità alle porte.
A un certo punto, sempre camminando, lui mi passò un braccio attorno alle spalle e mi tenne così, stringendomi con delicatezza. Io voltai il viso verso di lui, guardandolo incuriosita; anche lui mi guardava negli occhi e a un tratto si commosse; vedendolo commuoversi, il mio cuore cominciò a battere forte. Non camminavamo più, ora, mi teneva entrambe le mani sulle spalle. Sorridendo si schiarì la voce e mi disse:
«Ilaria, per tutti questi tre anni, quando entravo in classe e vedevo il tuo sorriso e il tuo entusiasmo, poteva anche essere stata fino allora una giornataccia, ma improvvisamente ritornavo sereno. Anche solo pensarti mi fa stare bene; e poi sei un’allieva fantastica». Tacque un momento e, siccome io lo fissavo già con gli occhi lucidi (un’allieva fantastica!), mi diede una carezza sul viso, cosa che mi spezzò ulteriormente il cuore. Poi fece un sospiro e riprese:
«Tu hai una qualità meravigliosa: la tua gioia e la tua spontaneità. Mi prometti che, qualunque cosa succeda, non permetterai mai alla vita di toglierti il tuo sorriso così puro? Ti prego, non lasciare mai che si spenga, non lasciare che questo brutto mondo ti rovini il carattere!».
Nel dirlo, mi guardava con un misto di tenerezza e preoccupazione. Solo ora capisco quella sua paura; allora avevo diciottanni e non capivo cosa ci fosse da preoccuparsi e rattristarsi tanto: il mondo mi sembrava bellissimo. Mi diede un bacio sulla fronte tenendomi il viso con entrambe le mani; profumava di tabacco e dopobarba, come sempre, un odore buono che non dimenticherò mai. Non resistetti all’emozione e lo abbracciai stretto, non volevo che mi vedesse piangere, così schiacciai il viso contro il suo petto; ero parecchio sconvolta da tutto quel melodramma improvviso in un uomo solitamente riservato e poco incline agli scambi fisici. Ma ero felice. Capivo che mi aveva aperto il cuore, che teneva a me e che ero importante per lui. Mi faceva piacere soprattutto avere saputo di produrre quell’effetto rasserenante su di lui, perché lui mi aveva dato tanto e ora sapevo di avergli dato qualcosa anch’io. Saremo rimasti abbracciati mezzo minuto, ma a me sembrò la classica eternità; tremavo e mi piaceva sentirmi avvolta in quell’abbraccio protettivo, mentre gli promettevo che niente e nessuno mi avrebbe tolto il mio sorriso. Poi ci sciogliemmo dall’abbraccio e allora ritornammo in noi; la magia era finita e sorridendo imbarazzati riprendemmo a camminare. Arrivati in fondo al portico ci salutammo e ognuno si diresse verso la sua fermata; io in realtà ero troppo agitata e così mi misi a correre a perdifiato fino a due fermate dopo, ero la personificazione vivente di quanto la gioia possa essere violenta e sconvolgente.

Ora, passati più di dieci anni, mi chiedo: ho mantenuto la promessa? Sì! Mi rispondo veramente con fierezza di sì. La qui presente Ilaria, pur essendosi accorta che in effetti il mondo non è poi proprio sempre bellissimo e pur essendosi già imbattuta in alcune delle varie prove, patimenti, ingiustizie e fatiche che costellano la vita di un tipico essere umano, ormai si sente fuori pericolo: magari resterò un po’ ingenua, ma non diventerò una cinica. Il mio sorriso me lo tengo stretto e niente me lo cancellerà. E sapete perché? Sì, forse in parte grazie al carattere con cui sono nata, ma perlopiù – ne sono convinta – grazie all’immagine di me che alcune persone preziose, tra cui appunto il mio amato prof. di filosofia del liceo, mi hanno regalato. Nei momenti tristi, nella depressione che mi ha colta a vent’anni, nell’angoscia che ho potuto talvolta provare, a soccorrermi sono sempre state e saranno le parole affettuose e magnanime di qualche persona incontrata lungo il cammino; come posso credere di sentirmi infelice se il mio prof. ha detto che io sono l’immagine della felicità?

Ricordo le parole di un altro uomo molto importante per me; si chiamava don Giuliano. Un giorno, in un periodo in cui ero veramente allo sbando, ho sentito per caso una conversazione tra lui e mio padre (lui era venuto a casa per la benedizione pasquale): mio padre gli diceva, con un tono sofferente e rassegnato che non dimenticherò mai, che io ormai ero «un’egoista e una squinternata» e che non ero più l’Ilaria che don Giuliano ricordava. Lui lo contraddisse con vigore, dicendo che forse attraversavo un periodo difficile data l’età, ma era convinto che io non sarei mai potuta diventare un’egoista e una squinternata, e ricordò con tenerezza di quando lui era stato male e io ero andata a trovarlo tutti i giorni in ospedale, anche se all’epoca ero già atea. Io avevo origliato questo dialogo dal pianerottolo della porta di casa; dopodiché, anziché entrare, anche allora mi sono messa a correre come il vento; disperata perché mio padre, il mio modello e mito, era così deluso e indurito nei miei confronti; grata perché al mondo esisteva una persona che, contro ogni evidenza, credeva in me perfino più del mio stesso padre e di me stessa. E lì ho deciso che io volevo dare ragione a questa persona; così queste parole di fiducia («Ilaria ha un cuore buono, non diventerà mai un’egoista») mi hanno salvata; io in quel periodo stavo veramente male, e solo aggrapparmi a quell’immagine positiva di me ascoltata di nascosto (e poi dicono che non si deve origliare!) mi ha aiutata a riprendere in mano la mia vita e uscire dalla palude. Quando ho cominciato a stare meglio, la prima persona da cui sono andata è stato lui, don Giuliano; anche lui mi ha abbracciata, e mi ha detto: “Io non ho mai dubitato di te”.

Cosa sarei io senza i tanti episodi di amore gratuito di questo tipo che ho ricevuto? Senza persone che, quando io ero la prima a non vedere il bello in me stessa, mi presentavano un’immagine di me bella, buona e luminosa? È una lezione che non ho mai dimenticato e che pratico anche verso gli altri; tutti noi abbiamo grosse responsabilità verso chi entra in relazione con noi: sottolineare gli aspetti positivi di una persona, restituirle un’immagine positiva di sé, non lesinare elogi e gratificazioni quando è il caso, non sottovalutare le qualità altrui, ascoltare quello che dice, sorridere quando la si guarda, è uno dei doni più grandi, più duraturi e più preziosi che si possano fare.


Per una ecologia della parola

Oggi mio padre mi ha letto, tutto contento, alcuni passi del discorso tenuto pochi giorni fa dal nuovo rettore dell’università di Bologna, Ivano Dionigi, in occasione dell’inaugurazione del 922° anno accademico della nostra università. I passi che papi mi ha segnalato sono piaciuti molto anche a me (la fonte è il quotidiano “Avvenire”). Eccoli:

«All’università bisogna parlare bene. Noi dobbiamo recuperare una vera e propria ecologia della parola. Parlare bene, come diceva Platone, oltre a essere una bella cosa in sé, fa bene anche all’anima. […] L’università deve essere antidoto al videoanalfabetismo imperante, contraltare a una certa modernità frettolosa e affannosa.»

Il rettore ha poi richiamato la «responsabilità formativa dei docenti» – qualcosa di più, cioè, del mero “ripetere pappardelle riscaldate” a lezione – e ha proposto «tre stili e percorsi vincolanti: la parola nel suo rigore contro il rischio di una “babele linguistica”; la memoria contro il provincialismo per cui crediamo solo a ciò che vediamo; infine il ritorno al reale per spiegare ai giovani la bellezza e la durezza della realtà, dello studio, del lavoro e della vita».

Mi sento in totale sintonia con queste parole, e credo che non valgano solo per il mondo universitario ma per ognuno di noi, anche nelle nostre relazioni con gli altri. Tanto più valgono per chi svolge un ruolo educativo, di qualunque tipo. Ma devo dire che leggendo questo intervento mi è venuto in mente lo stile del professor Melchisedec, a cui dedico questo post!

P.S.: ci tengo a dire che quando qualche giorno fa ho dato il benvenuto all’amica neve… non credevo che mi avrebbe preso tanto sul serio!!! Siamo in tilt!!! 


La legge del più forte

Stamattina ero al parco vicino a casa. Avevo trovato una panchina collocata in posizione strategica: le fronde degli alberi intorno, arrivando fino a terra, creavano una cupola verde che proteggeva la panchina dal caldo e dagli sguardi altrui. Potevo respirare l’aria fresca e profumata e dedicarmi in pace alla lettura del libro che avevo portato con me. Ma a un tratto, mentre i miei pensieri si intonavano con l’armonia della natura che mi circondava, involandosi eterei, sono stata richiamata alla dura realtà dal pianto di un bambino e dagli improperi di un padre. Non riuscendo a ignorarli ed essendo comunque ora di tornare a casa, mi sono alzata e uscendo da quell’oasi di pace mi sono trovata davanti una scena alquanto inconsueta, tanto che, non essendoci abituata, ci ho messo un po’ per capire che non si trattava di un gioco o di uno scherzo: un omaccione sculacciava il figlioletto (che avrà avuto a malapena tre anni), ma non una o due volte (come può anche capitare), no, più e più volte; anche quando il bambino ormai gli camminava arrendevole al fianco quello continuava con gli scapaccioni. Non forti da fare troppo male, no, ma violenti; erano un chiaro sfogo: qualunque capriccio il bambino avesse potuto fare (probabilmente non voleva tornare a casa per restare sull’altalena), la reazione del padre andava molto oltre quel capriccio, sembrava uno al quale fosse saltato il tappo della rabbia repressa e questa scorresse tutta fuori senza freno.

Ma il peggio doveva ancora venire: un altro padre non molto distante gli ha gridato:

“Ehi, adesso basta picchiarlo, calmati!”.

Il picchiatore si è girato come una belva e si è messo a urlare degli insulti irripetibili verso l’altro; altre voci lo hanno invitato con pacatezza a calmarsi e ragionare, facendogli notare che aveva perso lucidità, ma quello era ormai fuori di sé, addirittura si è messo a correre verso il primo che gli aveva rivolto la parola, per picchiarlo. La gente lo ha bloccato e fatto ragionare. Tutto questo davanti al bambino, rimasto solo in mezzo al prato mentre il padre dava brutta mostra di sé. Mentre tornava verso il figlio, sempre imprecando contro gli altri, ma a bassa voce, tutti gli sguardi delle persone presenti (me compresa) lo hanno squadrato con disapprovazione. Aveva gli occhi di tutti addosso e li ha avuti finché non è scomparso dalla vista.

Questo piccolo episodio mi ha lasciato un senso come di spavento, sul momento. Mi sono resa conto che da anni e anni non vedevo un bambino preso a sculacciate. Io stessa sono caduta vittima di scapaccioni solo due volte in vita mia, e perché avevo portato mio padre a un punto di esasperazione obiettivamente esagerato. Ma dopo mi ha chiesto scusa e si è messo a piangere, più disperato di me. E dopo ancora, abbiamo parlato e ci siamo spiegati. Lui mi ha spiegato che anche se ero una bambina piccola lui non aveva nessun diritto di alzare le mani su di me, neanche a fin di bene, neanche se mi ero comportata molto male. E questa lezione (che bisogna sempre spiegarsi a parole e mai con la violenza) mi si è incisa nella testa come poche altre. Ero fiera che mio padre avesse riconosciuto un suo errore, anche se aveva ragione a essere arrabbiato con me.

Vedendo quell’uomo picchiare quello scricciolino in quel modo mi sono resa conto che picchiare un bambino non serve a niente. Gli mostri solo che sei fuori controllo, che non sai gestire le tue emozioni, che non hai la situazione in pugno, che sei uno sconfitto. Non gli dai una lezione, gli instilli a tua volta rabbia repressa. Rabbia che prima o poi esploderà. Poi con tristezza ho pensato che quando queste cose avvengono in pubblico, come oggi, c’è un forte controllo sociale che interviene prontamente; ma nel chiuso delle quattro mura domestiche, purtroppo, questo controllo non c’è. In certe famiglie vige la legge del più forte (fisicamente) sul più debole. Che amarezza.