Edison

apartments buildingEddie Adams, Apartment Building

Era una presenza abituale mentre andavo e tornavo in bici dal lavoro; nel mio cuore avevo cominciato a chiamarlo Geppetto, questo signore, per via dei baffi e della barba bianca e delle gote rosee e pronunciate, come nell’iconografia tradizionale del personaggio. Viveva su un marciapiede, all’incrocio tra la via Emilia e un altro viale, in uno slargo arioso ma trafficato. Ogni mattina lo vedevo affaccendato nel mettere ordine tra le sue cose (mi verrebbe da dire cianfrusaglie ma erano comunque i suoi averi): in due grossi carrelli della spesa teneva ammucchiata una quantità spropositata di oggetti i più vari e un’altra massa ingestibile di cose rotte e vecchie strabordava da un camper poco distante, che usava appunto come magazzino ma nel quale non abitava. Questa visione quotidiana di un senzatetto oppresso da carabattole e masserizie di ogni tipo mi suscitava mille riflessioni. In tempi di decluttering e magici poteri del riordino non potevo non sorridere nel notare come, se sei un accumulatore, lo sarai anche senza avere una casa, contrariamente a tutti gli stereotipi che vogliono il senzatetto libero e leggero sulla Terra.
Un pomeriggio, passando per quell’incrocio, mi sono trovata di fronte alla scena di un brutto incidente avvenuto da poco: un’automobile si era schiantata contro un palo e un’altra se ne stava accartocciata poco più in là. Geppetto, dalla sua postazione privilegiata, aveva assistito all’incidente e in quel momento era intento a spiegarne la dinamica a una ragazza che passava di lì e si era fermata ad ascoltarlo. Tutto eccitato, con ampi gesti delle mani disegnava nell’aria il tragico impatto. Quella è stata una delle ultime cose che Geppetto ha visto nella sua vita.
Il mattino dopo entravo al lavoro più tardi e passando al solito incrocio ho notato Geppetto ancora addormentato tra le coltri, supino, nel suo giaciglio a cielo aperto. Spuntava solo il suo viso placido, rilassato. Il sole era già alto, il traffico e la vita della città pulsavano tutto attorno; mi ero stupita nel vederlo ancora a letto a quell’ora ma ricordo che avevo pensato, con un pizzico di ammirazione: uno come lui non ha orari e se vuole dormire fino a tardi può farlo quanto gli pare.
Al mio ritorno, nel pomeriggio, Geppetto non c’era; al suo posto c’erano alcuni mazzi di fiori. Ho pensato fossero stati messi lì per l’incidente del giorno prima. Allora è morto qualcuno… però i fiori li hanno messi nel posto sbagliato, l’automobilista si è schiantato lì di fronte, dall’altra parte della strada…
Invece, come ho scoperto un paio di giorni dopo leggendo un quotidiano, i fiori erano per Geppetto, che però non si chiamava Geppetto bensì Edison, come lo chiamavano tutti in zona. Anzi, in realtà il suo nome era Oliviero, ma questo nella sua vita precedente, quella in cui aveva una casa, un lavoro e viveva in un’altra città.
Quella mattina non stava dormendo, era morto nella notte per un infarto (sembra avesse problemi cardiaci da tempo).
Edison era molto amato. È passata più di una settimana dalla sua dipartita ma nel suo angolo di marciapiede i fiori e le lettere scritte a mano si moltiplicano; amava i fiori bianchi e stamattina, tra i mazzi di fiori, è apparso un vaso con una bella pianta piena di fiori bianchi, un vaso probabilmente destinato a restare. Gli abitanti del quartiere hanno anche fatto una colletta per pagargli il funerale e la sepoltura. Al funerale la chiesa era piena.
Edison/Geppetto mi manca, perché ero abituata a vederlo, perché sembrava un tipo allegro, perché spesso quando gli passavo accanto in bici o sostavo al semaforo mi sorrideva.
Anche da morto, come da vivo, mi ha suscitato delle riflessioni.
Intanto ho pensato a come spesso quei senzatetto che, pur nel loro nomadismo, si radicano in un posto, risultano noti e ignoti al tempo stesso, e così ecco che vengono battezzati dalla comunità circostante. Io lo chiamavo Geppetto, per gli abitanti del quartiere era Edison; chissà quanti altri nomi gli saranno stati attribuiti.
Poi ho pensato alle tante persone che muoiono sole, tra le mura di casa o di un ospedale; mura che proteggono, mura che nascondono, mura che isolano. Decessi di cui nessuno o quasi si accorge, con funerali deserti. Invece un uomo come Edison, considerato in genere, per il suo status di senzatetto, solo, povero e di nessuno, era in realtà di tutti; il suo stare sempre all’aperto, sempre in vista, col suo modo di fare gentile, con l’ingombro buffo costituito da tutte quelle sue masserizie che non lo rendevano certo invisibile, ha fatto sì che una comunità lo sentisse come un proprio membro e gli si affezionasse. Tutto il contrario della solitudine, insomma.


Vietato eccellere

daliyhaDaliyah Marie, bibliotecaria per un giorno alla Library of Congress, con la direttrice Carla Hayden (prima donna nella storia a dirigere la gloriosa Biblioteca)

Ieri, sfogliando Repubblica: dopo avere superato i vari allarme gelo, melodrammi politici, diversi omicidi efferati tra cui due paginone pruriginose dedicate a un paio di assassini adolescenti, con giornalisti che si improvvisano psicologi (come se non avessimo già abbastanza psicologi veri), mi imbatto in due foto che mostrano una bella bambina dal sorriso simpatico.
Oh no, non sarà successo qualcosa a questa piccola?
No, fortunatamente la bimba non è stata rapita né uccisa; mi trovo di fronte a un raro caso di Bella Notizia. Leggo infatti che la piccola Daliyah Marie, quattrenne di Gainesville (Georgia), è felice poiché ha potuto visitare la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti nella quale ha anche vestito gli abiti della “bibliotecaria per un giorno”. Questo grazie alla sua passione per la lettura: Daliyah infatti ha imparato a leggere all’età di due anni e mezzo e ha già letto circa mille libri. Non è l’unica, in quanto partecipa come tanti bambini al programma “1000 Books Before Kindergarten (1000 libri entro l’inizio della prima elementare), un progetto lanciato nel 2015 per «incoraggiare le famiglie a passare più tempo assieme, promuovendo la lettura negli asili» e che invoglia i bambini a leggere mille libri prima del loro ingresso nella scuola materna (sic nell’articolo: in realtà è la scuola elementare, errore che ho corretto anche a inizio citazione)”.

Subito mi immedesimo nella gioia della piccola; anch’io sono stata una bambina lettrice (anche se non così precoce) e posso solo immaginare come mi sarei sentita contenta nel vivere una giornata come quella che è stata concessa a Daliyah. Da appassionata lettrice di Roald Dahl, poi, non può che stagliarsi nella mia mente Matilda, sorellina cartacea di Daliyah, come lei lettrice precocissima che nei libri trova anche la chiave per sopravvivere in condizioni ostili e migliorare la sua esistenza.
Eppure, più vado avanti nella lettura, più l’articolo assume toni negativi, arrivando perfino a gettare ombre sulla madre di Daliyah, accusandola di protagonismo. Sul fondo della pagina, poi, ecco la lapidaria chiosa firmata dall’intellettuale di turno che è purtroppo un insegnante: una pietra tombale sulla gioia di Daliyah e sulla nostra di ingenui lettori (e te pareva che si potesse leggere una vera bella notizia su un giornale italico? No, mi ero illusa). La punitiva e feroce chiosa si intitola così: “Non troverà la felicità tra le pagine. Mandatela a giocare in cortile”.

Quindi laddove negli USA la piccola Daliyah viene accolta come ospite d’onore nella prima biblioteca d’America, qui da noi, giustamente, nel paese dell’analfabetismo di ritorno, tra un po’ viene messa alla gogna e considerata una vittima di violenza.

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A visitare la Library of Congress con la Direttrice in persona a fare da guida? Orrore… che vada in cortile!

Fonti:
–  l’articolo italiano: qui
–  l’invettiva lodoliana: qui
– l’articolo originale del Washington Post di cui l’articolo italiano è una parafrasi approssimativa (con almeno un errore grossolano di traduzione: un conto è leggere 1.000 libri prima della scuola dell’infanzia, ben diverso è leggerli prima dell’inizio della primaria) e distorta; nell’articolo originale non sono presenti i toni giudicatori e moralistici presenti nel nostro articolo: qui
– Il progetto  1,000 Books Before Kindergarten (direi che con buona pace di Lodoli possiamo lasciare tranquillo il Telefono Azzurro):qui


Varia umanità

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Una volta alla settimana, uscita dal lavoro, vado a lezione di letteratura e immaginario, a nutrire la mia anima. Nella fredda ma suggestiva cornice di una antica chiesa ora riconvertita in solenne biblioteca, ascolto uno degli intellettuali più significativi della mia vita spaziare per due meravigliose ore, con la sua voce un po’ impastata un po’ sorniona, dalle Ombre del Casentino di Emma Perodi ai viaggi di Sinbad, dalla Parigi di Hugo e Maupassant alle macerie di guerra fino agli orrori narrati dal gran maestro di Providence e tanto altro ancora: luoghi e storie, letterari e reali, tutti attraversati e rivisitati tramite la lente della Paura, il tema portante di questo lungo ciclo di conferenze.

Seduta tra il pubblico, ascolto, prendo appunti e mi guardo anche intorno: osservo i miei compagni di viaggio.
Sorridendo rilevo come anche il nostro erudito consesso non sia esente dal noto fenomeno chiamato La Forza dell’Abitudine per il quale, in simili circostanze, dopo i primi due o tre incontri nei quali il pubblico si dispone in ordine sparso, ben presto i più tendono a riposizionarsi sempre allo stesso posto e a rispettare come per un tacito accordo la collocazione altrui. Così, ecco per esempio il ragazzo dai vaporosi capelli a caschetto seduto sulla sedia più esterna a destra, la libraia per ragazzi nell’ultima fila al centro che dondola ininterrottamente la gamba accavallata, le due signore anziane in pelliccia della prima fila e, al tavolo in fondo, la coppietta innamorata che passa buona parte della conferenza a bisbigliare occhi negli occhi e a visionare lo schermo dello smartphone, sussurrandosi commenti e sghignazzi per chissà quali battute.
E poi c’è lui, dietro al quale già per la terza volta siedo io: il mangiatore seriale di barrette di cioccolato Kinder. Di mezza età, capelli corti arruffati, maglione a righe larghe, pelle del viso morbida e liscia come quella di un bambino; prende rari appunti con una calligrafia minuta e aggrovigliata da uomo e intanto, con regolarità, scarta una dopo l’altra le barrette di cioccolato al latte. Lavora con metodo: dalla confezione da quattro posata sulla sedia accanto estrae una barretta, la scarta lentamente con una sola mano e poi la ripone dov’era lasciandola un po’ lì così, nuda sulla carta, a disposizione. Dopo poco allunga di nuovo la mano, prende la barretta, ne morde metà e riappoggia la metà restante nella carta sulla sedia. Dopo un altro poco la finisce e riparte allo stesso modo con le altre tre barrette della confezione. Il tutto avviene senza un fruscio né altro suono di alcun tipo. Chissà se questo rito è riservato solo a quell’ora della giornata o si ripete più volte. Chissà se si svolge ogni giorno o è dedicato solo a certe occasioni.

Così mentre il mio mentore, laggiù, parla, legge, spiega e ci incanta, si svolge sotto i miei occhi il parallelo spettacolo delle nostre singole umanità e il tutto si fonde in un piacere speciale.


A tutta birra

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A colpirmi è stato il suo sorriso: gioioso, compiaciuto e un pizzico impertinente. E poi l’automobile che guidava con tanta soddisfazione: una fiat 500 vecchio modello, ancora più minuscola a vedersi, ormai, rispetto ai macchinoni cui siamo abituati e che infatti le incombevano addosso; col suo colore rosso si stagliava nel grigio umido del mattino piovoso. Lei avrà avuto un’ottantina d’anni e anche per questo, mentre con la sua auto sfrecciava via e ancora, poi, ritrovandola poco più in là, ferma al semaforo e scalpitante, lo sguardo teso in avanti e il sorriso sempre fresco in volto, mi tornava in mente mia nonna: stesso spirito gagliardo ma dolce, stesso compiacimento nel fare ciò che le piaceva. Al pensiero di mia nonna mi s’è allargato il cuore e la simpatia verso l’allegra guidatrice è ulteriormente aumentata.
“Buona corsa”, ho augurato dentro me. Per poi ritrovarmi, dopo trecento metri, presso una rotonda, di fronte alla seguente scena: la piccola vettura ferma, affiancata da due vigili, uno dei quali redarguiva l’anziana mentre l’altro compilava un verbale: e la detentrice del sorriso, dell’automobile e dell’impertinenza era ancora lì, ritta in piedi, sempre col sorriso, solo un po’ dispiaciuto; minuta e sottile guardava dal sotto in su i due vigili, sorridenti anch’essi e chiaramente più dispiaciuti di lei.


Tra Weimar e il ’43

Per una qualche coincidenza, tutte le volte che ci sono le Primarie del Pd, dopo avere votato incontro la mia professoressa di lettere delle medie, anche lei di ritorno dal voto. Votiamo in due seggi differenti e non ogni volta allo stesso orario ma ci incontriamo sempre. Anche stamattina è successo così. Dopo la mia mezzoretta di fila tra anziani (o, più che altro, anziane; tant’è che la signora dietro di me se n’è uscita con un: «Ma siam tutte donne! E gli uomini dove sono? Tutti a casa a cucinare?». In realtà stavano di sotto a giocare a bocce e a briscola) me ne sono uscita dal seggio con l’intenzione di godermi una passeggiata nel mio quartiere che in questa stagione dell’anno dà il meglio di sé (è tutto oro, rosso e arancione, grazie alla vegetazione che lo abita) ed ecco che, in fondo al sentiero, vedo da lontano avanzare verso me appunto la mia prof. di lettere delle medie. Rapida occhiata alla mia destra e alla mia sinistra: no way out. E non potevo più tornare indietro perché lei nel frattempo aveva cominciato a salutarmi; incredibile la vista di questa donna ormai anziana; io non ci vedo così neanche con gli occhiali!

Alle medie adoravo questa donna; era il mio modello, la Donna a cui crescendo avrei voluto somigliare, la mamma che non avevo, l’intellettuale che avrei potuto essere, l’integrità e la Virtù fatta persona, insomma sapete come si può idealizzare una persona a 13 anni. Facevo pazzie per farmi notare da lei, ne studiavo i movimenti e durante gli allenamenti di atletica, quando correvo i 100 m, immaginavo che al traguardo ci fosse lei in pericolo e che io l’avrei salvata guadagnandomi la sua eterna ammirazione e gratitudine e anche qualche titolo di giornale. Non so, arrivo a dire che forse in vita mia non ho mai più raggiunto livelli simili di innamoramento per nessun’altra persona. Livelli imbarazzanti, a ripensarci ora.

Be’, il fatto è che – come è normale – man mano che io crescevo lei si è rimpicciolita ai miei occhi. E ciò è cosa buona e giusta. Il fatto è che, però, si è rimpicciolita troppo. Già da alcuni anni, ogni volta che la incontro – e accade abbastanza spesso – mentre, come convenevoli iniziali, la ascolto elencare gli acciacchi suoi e dei suoi familiari per poi ascoltare tutte le lamentazioni sulla degenerazione della società e sull’epoca di decadenza in cui ci tocca vivere, io la scruto chiedendomi dove sia finita – e se ci sia mai stata – tutta quella intelligenza, cultura e saggezza che ammiravo in lei. Perché davvero non può essere solo la vecchiaia ad averla ridotta così: una donnetta tutta casa, supermercato e luoghi comuni (che poi, non è vecchissima; ha sui 70 anni e a vederla gliene si dà anche di meno. Nonostante le sue lamentele, è in forma, sempre in giro, attiva; non immaginatevi una vecchietta coi capelli bianchi, tutt’altro). Forse ci ho visto male fin dall’inizio? Ho dedicato tante energie emotive a una mia fantasia, a una proiezione?

Fatto sta che oggi il nostro inizio di dialogo è stato il seguente:

– Buongiorno, Prof.! Ogni volta che si vota ci incontriamo, eh? Come sta? –

– Eeeehhh… cosa vuoi, alla mia età [elenco di lamentele che vi risparmio]… mio marito [elenco di acciacchi del marito]… Mio nipote [elenco delle traversìe universitarie del nipote in questo mondo ingiusto]… E tu cara come stai? –

– Ah, io sto benissimo, grazie! Pensi che… –

– Insomma, ti difendi. –

– No, non è che mi difendo, Prof., sto proprio BENE! E come le dicevo… –

– Vuoi dire che insomma, sai sopportare gli acciacchi… –

– [Grrrr!!!] Ma quali acciacchi, Prof.! IO GODO DI OTTIMA SALUTE!

Dopo questa mia dichiarazione di guerra di salute, il discorso si è spostato sulla politica. E anche qui, lei, che ricordavo come colei che ci spronava all’impegno, a essere “potenti ma non prepotenti“, a crederci, a lottare, se ne è partita coi soliti sproloqui che da un po’ di tempo fa sull’argomento: che poveri giovani, e che sistema schifoso, e come se ne esce, e qua distruggono tutto ciò che è istruzione e cultura… cose anche condivisibili ma che espresse coi suoi toni disperati e definitivi non portano da nessuna parte se non alla depressione irreversibile. E il peggio è che non ascolta le riposte.

– Sai, cara, attualmente siamo tra Weimar e il ’43… –

– Confidiamo di saltare al ’45, Prof. –, ho ribattuto rassegnata.

Così ci siamo salutate. E l’autunno attorno a me sembrava avere perso improvvisamente quel meraviglioso oro, vedevo solo il grigio.

Cara Prof., continuo a rispettarti e ti voglio bene; ti sono grata perché mi hai dato tanto – compreso l’amore per lo studio (anche se questo non lo devo solo a te) – sono felice di incontrarti e dell’affetto che provi per me. Ma non voglio più diventare come te. Ora sei un modello, sì, ma da evitare.


Happy Birthday, Clint!

Oggi Clint Eastwood, uno dei miei attori e registi preferiti in assoluto, compie 82 anni. Sta girando un nuovo film, auguriamoci di invecchiare come lui! Questo è lo spot per la Chrysler che il nostro Clint girò a febbraio scorso per la finale del Super Bowl. Fu chiacchierato ma a me già allora piacque moltissimo. E ora… lo posto come incoraggiamento per noi:

It’s our second half, Emilia Romagna (sì perché il terremoto ha colpito le province dell’Emilia ma ricordo al resto d’Italia che noi ci chiamiamo Emilia Romagna tutto insieme!!!) 🙂

Auguri Clint e GRAZIE per le emozioni, per la profondità, per come sei e per quella pistola che magari bastasse a difenderci da questo “sudicio mondo che ci sta crollando addosso”. *

* citazione da Sudden impact (“Coraggio… fatti ammazzare” in versione italiana).


Camminare in una nuvola

Ieri ho scoperto che qualche tempo fa è morta suor Erminia, la mia suora dell’asilo, una donna stupenda ed esuberante, una forza della natura, che ci portava a fare le capriole giù dalla collinetta vicino alla scuola, incurante delle proteste delle mamme per i nostri grembiulini bianchi che diventavano verdi per l’erba; si rotolava con noi anche lei, a gambe e velo all’aria, quindi diventava verde come noi. Quando le presentavo i miei disegni con tutto il colore che fuoriusciva dai bordi non solo non mi rimproverava, come faceva la terribile suor Anna Maria, ma lodava il mio spirito ribelle dicendomi: diventerai un’artista!

Ci fu un periodo nel quale mi era venuta la fissazione di strappare via il velo alle suore; sapete come possono essere fastidiosi i bambini quando s’impuntano ossessivamente su una cosa: puntavo una suora; mi acquattavo alle spalle della ignara preda; afferravo il velo con le dita e zack!, davo un rapido strattone; poi scappavo prima che la poveretta riuscisse ad acciuffarmi. Be’, le altre suore (giustamente) perdevano le staffe emettendo urli belluini o facendomi una sfuriata dopo avermi inseguita per tutta la scuola; lei mi sgridava, sì, ma faticando a trattenere una risata.

Era l’unica persona adulta, oltre a mio padre e alla mia dada, capace di sopportare la mia vivacità e, quando proprio esageravo e non poteva non punirmi, il massimo che faceva era mettermi a sedere su un mobiletto alto senza una scarpa: cosa che a me piaceva moltissimo perché in vita mia non mi trovavo mai così in alto come quand’ero in punizione sull’armadietto; inoltre stare senza una scarpa era particolarmente eccitante perché avevo un piede al caldo e uno all’aria e non so perché questa sensazione di “piede esposto” mi piaceva; infine adoravo essere al centro dell’attenzione per qualche “crimine” commesso e lì lo ero, eroina di tutti i bambini.

Io ero una che scappava sempre; ma certe volte mi veniva voglia di coccole e lei lo capiva; perciò quando stanca dopo ore di corse, salti, scherzi e lotte con i maschi mi avvicinavo a lei con una certa espressione, lei si metteva a sedere, lasciava che mi arrampicassi sul suo grembo e mi teneva lì accoccolata accarezzandomi i capelli dicendomi che in fondo ero proprio una brava bambina (eh eh, cuore di suora…).

Come un po’ tutte le suore era dotata di una memoria formidabile: anche a distanza di anni si ricordava di me e di ogni suo alunno; e quando, dopo essere stata trasferita, passava da Bologna, benché fossimo ormai cresciuti (adolescenti brufolosi o universitari ricoperti di finti stracci), lei ci riconosceva e, per quanto potessimo ribellarci, ci stritolava in un caldo abbraccio. Con quel suo sorriso felice.

Fu lei a dirmi che la nebbia è come una nuvola bassa e questa cosa che quando c’è la nebbia è come camminare in una nuvola del cielo mi è rimasta così impressa che, per tutti gli anni del liceo, quando al mattino uscivo di casa alle 7,15 per prendere l’autobus, e d’inverno non vedevo neanche l’altro lato della strada causa nebbia, che me la sentivo anche penetrare tutta dentro i vestiti ‒ nonostante cappuccio, sciarpa e cappotto ‒ a disturbare il mio corpo ancora caldo di letto, ero nonostante tutto felice, perché pensavo che a me piace moltissimo guardare le nuvole nel cielo; e stare nella nebbia è come stare dentro una nuvola; lo ha detto suor Erminia.


Le ragioni della speranza

Cari amici, è ora anche per me di rientrare nei ranghi e tornare a scrivere… non che ne abbia molta voglia, perché questa credo sia stata l’estate più svogliata della mia vita e sono tuttora vittima della peggiore pigrizia. Sì, chiamatemi miss Pigrizia, mi si confà. Naturalmente avrei qualche avventura riccionese da raccontare e lo farò, ma oggi voglio parlare di qualcos’altro di ben più importante.

Ogni volta che delle persone vengono minacciate, perseguitate o uccise a causa delle proprie convinzioni personali, politiche o religiose, provo una grande indignazione. Io credo profondamente nella libertà personale, questo per me è un valore sacro, il primo tra i valori in cui credo.

Questo post vuole essere un omaggio (purtroppo insignificante) verso quelle persone giuste che sanno affermare la propria libertà a rischio della propria vita. In questi giorni in cui nella regione dell’Orissa essere cristiano può essere causa di morte, molti cristiani hanno avuto salva la vita grazie a persone di religione hindu che non hanno esitato ad aiutarli mettendosi così in grave pericolo esse stesse. Cristiani in fuga che bussavano disperatamente alle porte delle abitazioni hanno trovato in alcuni casi famiglie che hanno aperto la loro porta e li hanno accolti. Provo solo a immaginare cosa hanno dovuto provare quelle persone mentre i gruppi di estremisti perlustravano la loro casa alla ricerca di cristiani nascosti.

Il signor Dasaratha Pradhan era un dalit, un “intoccabile”, e – al contrario di molti fuori casta come lui, per i quali convertirsi è anche un modo per uscire dalla propria miserevole condizione – non si era convertito alla religione cristiana, era rimasto fedele alle sue divinità hindu. Quando un gruppo di estremisti assassini ha irrotto nel suo villaggio alla caccia di cristiani da uccidere, lui non ha esitato a urlargli contro:
– Fermatevi! Un vero hindu non uccide neanche gli animali! –
È stato ucciso a bastonate e il suo corpo – intoccabile – è rimasto insepolto.

Da registrare anche la solidarietà espressa ai cristiani dai musulmani indiani, a loro volta massacrati a migliaia nel 2002 nello stato del Gujarat (sempre da estremisti hindu).

Ora, casi come questo mi fanno pensare a quella frase (un po’ abusata) con cui Calvino concluse il suo romanzo Le città invisibili:

Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Quando vediamo il male che avanza (qualunque faccia esso abbia, e sappiamo che nella storia questo male ha assunto spesse volte anche sembianze sedicenti “cristiane”), vediamo anche dei giusti che, anziché restare inerti e indifferenti vivendo la propria vita quieta, si oppongono. Vediamo che alla radice di questa opposizione c’è la capacità di affermare la propria libertà e la propria intelligenza individuali di fronte a una massa folle e irragionevole. È una scelta razionale, anche quando viene da un moto del cuore. E non importa la tua religione, la tua nazionalità, il tuo status sociale. Importa essere umani o disumani. E finché esisteranno persone giuste come il signor Pradhan possiamo continuare ad anteporre le ragioni della speranza a quelle della disperazione, io credo.

Resta l’amarezza di vedere quanto spesso le religioni vengano strumentalizzate per finalità politiche e economiche che con le fedi hanno ben poco a che fare: così manipoli di estremisti si convincono di uccidere per il proprio dio mentre stanno in realtà servendo gli interessi materiali dei loro astuti capi.

L’articolo in cui si parla di Dasaratha Pradhan è qui.

Qui trovate altre notizie interessanti.

E, a proposito di dalit, consiglio la lettura di un romanzo che ho molto amato: Il Dio delle piccole cose, di cui ho parlato qui (quando non mi leggeva nessuno!).


Incontrarsi

Quando, ormai undici mesi fa, ho iniziato a scrivere regolarmente sul blog, non credevo che a qualcuno sarebbe piaciuto leggere i miei piccoli tentativi di esprimermi, e neanche m’interessava. Ero reduce dal periodo peggiore della mia vita e volevo solo riconquistare me stessa (sarebbe troppo lungo e personale spiegare perché mi ero persa) e scrivere qui era solo uno dei mezzi per ricominciare. Poi piano piano ho cominciato a ricevere qualche commento e ad affezionarmi molto ai miei lettori. Moltissimo! Non capita raramente che, durante la mia giornata, qualcosa che vedo, leggo o vivo mi ricordi qualche blogger – amico cui la tal cosa è collegata. Però dentro me ho sempre considerato – e considero – il mondo dei blog come un qualcosa a sé, abitato da persone in carne e ossa, sì, dietro nickname e avatar – questo non lo dimentico mai – ma ognuno inglobato in un suo mondo personale e separato. Quando mi connetto a splinder e vedo per es. i miei amici online mi vien sempre alla mente l’immagine strana di persone sospese in una specie di vuoto e appese a un computer da un piccolo filo, tutte collegate contemporaneamente ma ognuna da sola (sembra un’immagine un po’ fredda e triste, vero?). Per questo, ho sempre avuto molti dubbi sull’incontrarsi nella realtà… forse ragiono un po’ per compartimenti stagni ma sono sempre stata molto diffidente su questo tipo di incontri, anche se non li rifiuto mai. Mi sembra che le cose dovrebbero restare divise e che ognuno dovrebbe restarsene dietro la propria tastiera.

Venerdì, però, ho passato un bellissimo pomeriggio con l’amica Lory e con suo marito Alessandro, che sono venuti a Bologna per una piccola gita. Non voglio raccontare troppi dettagli perché è una cosa nostra, ma volevo lo stesso scriverne un po’ perché mi sono sentita molto felice. Dapprima, da un lato non vedevo l’ora di conoscere Lory (perché è da tanto tempo che ci leggiamo/commentiamo sui blog), dall’altro ero un po’ preoccupata e spaventata (sono molto timida, all’inizio, quando conosco persone nuove). Per farvi capire il mio disastroso livello di timidezza vi dico solo che mentre sulla mia bici (la Scassona, che poi ho presentato a Lory) pedalavo verso il luogo dell’incontro, osservavo i passanti dicendomi cose tipo: Vedi queste persone? Ti fanno paura? No, sono normalissime, come te, cara Ilaria. Anche Lory e suo marito non saranno diversi, no? (lo so, è pietoso, ma son fatta così).
Quando poi ci siamo incontrati, riconoscendoci subito, è stato tutto molto bello (be’, grazie al loro carattere molto affettuoso e simpatico). Mi sono improvvisata guida (un po’ scarsa, credo) della mia città, cercando di recuperare tutte le nozioni di Storia di Bologna studiate per anni a scuola. Abbiamo chiacchierato e ho potuto parlare al telefono anche con Laura, rimasta a Roma a lavorare. Ho anche ricevuto due regali: una marmellata di prugne fatta da Lory e La guerra dei sordi, il romanzo di Laura e Lory recentemente pubblicato (di cui potete trovare informazioni
qui).
Man mano che parlavamo mi sembrava naturale essere insieme, come se ci conoscessimo da tempo. Forse non è poi una forzatura passare dal blog alla realtà, ma credo dipenda dalla persona, nel senso che Lory non mi è apparsa diversa dalla Lory che conosco tramite blog, e al tempo stesso era una persona concreta e luminosa, quella che avevo davanti, molto più ricca, e vera e piena di cose da dire, non certo un semplice blog materializzatosi davanti a me! Un arricchimento, dunque, l’incontro reale, quando si parte da buoni presupposti.
Alla fine, tornando a casa sulla mia bici, mi sono sentita molto felice e riconoscente per questo bel pomeriggio passato insieme.

Vi è capitato di conoscere dal vivo amici di blog? Cosa ne pensate di questi incontri? Favorevoli? Contrari?  


Bolognese con bufala [Una vita]

Quando, alcuni anni fa, li abbiamo visti arrivare, impossessarsi del locale (allora molto piccolo) e iniziare a lavorarci in modo indefesso, la curiosità era grande in tutta la zona.
– Vedremo quanto dureranno questi – aveva sentenziato il perfido Marmocchi mentre lucidava la sua macchina in garage.
Era da anni che quel locale veniva preso in gestione, tramutato di volta in volta in bar, pasticceria, pub infine, e dopo poco regolarmente falliva. Una volta fu anche incendiato; si parlò di racket. A Bologna? Sì.
Poi arrivarono loro, “i calabresi”, un vero clan familiare (nel senso migliore del termine), e lo aprirono come bar – pizzeria. Fu davvero difficile ingranare, un po’ per la brutta fama di cui quel locale aveva sempre goduto, un po’ per la concorrenza impietosa di un  ristorante – pizzeria storico, e molto famoso a Bologna, situato nella stessa via. Che bisogno c’era di un’altra pizzeria?

Ma poi, a poco a poco, i primi curiosi assaggiarono le pizze dei “calabresi” e le trovarono molto buone. Venne aperta la nuova biblioteca di quartiere a due passi dal bar e costruiti nuovi palazzi nei dintorni; nuovi clienti affluirono nel locale.
Si sparse la voce che la pizza era buona, che il posto era semplice ma simpatico.
Quando mia madre trovò uno scarafaggio arrostito in una pizza alle verdure comprata nel glorioso e antico ristorante all’angolo, anche noi ci convertimmo al nuovo locale, così comodo, poi, sottocasa.

Tutta la famiglia ci lavorava: fratelli, mogli; perfino i bambini, nel tempo libero, dopo aver fatto i compiti, davano una mano, in un clima di grande allegria benché nessuno battesse la fiacca.
Gli affari cominciarono ad andare a gonfie vele e recentemente è stato fatto il grande salto: l’ampliamento del negozio tramite l’acquisto dei locali a lato e la sua trasformazione in vero e proprio ristorante (pur restando sempre anche bar e pizzeria). Finalmente, nonostante il lavoro fosse aumentato, si poteva tirare un respiro di sollievo: ormai era fatta.

Chi non tirò alcun respiro fu il principale artefice di questo grosso successo, il motore di tutto, colui che ci aveva sempre gioiosamente creduto: il signor Alfonso, sua maestà il Pizzaiolo, nonché il più “anziano” della famiglia, con i suoi 49 anni. Era lui il capo ed era quello che lavorava di più e più faticosamente: sempre a preparare pizze, infornarle e sfornarle meravigliosamente appetitose, e sempre col sorriso, nonostante soprattutto d’estate il sudore lo facesse soffrire. Essere parecchio sovrappeso non lo aiutava.

Quando entravo nel locale col mio sorriso pavloviano (mi affiorava sul viso al solo aprire la porta della pizzeria, pregustando già la bontà che di lì a poco avrei assaporato) e lui mi vedeva, sorrideva osservandomi ed esclamava cose come: Ecco la mia stellina! o Ciao piccola! (nonostante io abbia la mia ragguardevole età e non sia neanche bassa di statura. Ma anche il fornaio e il meccanico e molte altre persone mi apostrofano così quindi ho qualcosa di strano sicuramente che richiama il vezzeggiativo); se segnava lui la mia ordinazione mi prendeva in giro ridendo come un matto perché chiedevo quasi sempre la stessa pizza: Bolognese con bufala (cioè: pomodoro, mozzarella di bufala, prosciutto cotto, wurstel, olive e funghi). Se ero a portata di mano mi dava un buffetto sulla guancia (io sono a favore dell’abbattimento o almeno dell’assottigliamento delle barriere tra gli individui e pertanto gradisco i buffetti e simili espressioni fisiche di simpatia e anche questo devo averlo scritto in faccia perché ne ricevo molti dalle persone più disparate). Mentre cucinava le pizze mi piazzavo davanti a lui e osservavo curiosa il procedimento; lui ogni tanto sollevava lo sguardo e mi sorrideva divertito; a volte, ammiccando, mi faceva vedere che mi metteva un po’ di condimento in più. Chiacchieravamo di calcio e dei suoi figli (a uno di loro avevo insegnato le moltiplicazioni a due cifre una sera che stava facendo i compiti seduto poco distante da me e per molto tempo, prima che ci conoscessimo meglio, per lui fui Quella delle moltiplicazioni!).

Mentre preparava le pizze, il signor Alfonso riusciva anche a tenere tutto il resto sotto controllo: gridava ordini a destra e a manca perché nessun cliente venisse trascurato e i familiari eseguivano. Era sempre sorridente e bonario, nonostante tanto affanno.
Di sicuro andava fiero della sua famiglia, del suo lavoro e del locale che dopo tanti sforzi finalmente consentiva loro di vivere una vita serena.

Sabato mattina, mentre era al lavoro come sempre, si è accasciato dietro la cassa; l’ambulanza è stata chiamata immediatamente ed è giunta subito ma lo stesso troppo tardi: era già morto. Un infarto.

I miei amici che erano nella biblioteca hanno sentito delle urla e dei pianti fortissimi; sono usciti di corsa e hanno visto i familiari del signor Alfonso che si disperavano.  

Il locale è chiuso per lutto. Sono partiti tutti per la Calabria, dove verrà sepolto.

Si dice che siano una famiglia di cardiopatici e che lui infatti soffrisse di cuore. Aveva solo 49 anni ed era un pizzaiolo e, da quel che ho potuto vedere, un uomo e un padre di famiglia eccellente.

Io mi sento triste come mi fosse mancato un parente, una persona amica. E volevo almeno che anche voi sapeste che è esistito questo pizzaiolo che adorava il suo mestiere e che sapeva preparare ridendo una meravigliosa Bolognese con bufala e chissà quante altre meravigliose pizze.

Uffi!