Così carina, così sequestrabile

Ieri pomeriggio camminavo tranquilla per strada, in centro, quando un uomo, col tono affabile da complimento, mi ha apostrofata così: “Stai attenta, ché così carina rischi di essere sequestrata”. Credo di averlo guardato con aria terrorizzata, poiché la mia mente aveva completamente trascurato il “carina” per concentrarsi sul “sequestrata” e – stordita dalla dissonanza cognitiva per cui capivo che mi era stato fatto (nelle intenzioni) un complimento ma che suonava malissimo – lo fissavo chiedendomi: che cavolo ha detto ‘sto qui? Mi ha augurato di venire sequestrata (e orrendamente torturata, poiché è evidente che si riferiva a questo orrore qui)? Mi sta minacciando di sequestrarmi?
Leggendo il terrore nel mio sguardo, l’uomo si è sentito in dovere di precisare: “Era solo per dire che sei bella”.
Per non fare la parte dell’altezzosa o quella della femminista rompiscatole e pedante che non sono, l’ho ringraziato ma, ridendo, a mo’ di battuta gli ho detto: “Be’, la prossima volta è meglio se si ferma alla prima parte del complimento, però, perché la seconda fa paura. Se proprio vuole fare un complimento a una sconosciuta.” Lui si è messo a ridere, mi ha dato ragione e io sono scappata ho proseguito il mio cammino.

Ma quel “complimento” mi è rimasto sul gozzo.

Mi sembra emergere da quello stesso clima violento, sessista e pervasivo al quale appartengono anche le accuse vomitevoli rivolte alla Boldrini (e attorno alle quali è emersa una polemica assurda – tra i cosiddetti difensori della libertà di parola e i suoi presunti censori; come se fosse questo il punto! – che evita accuratamente di entrare nel merito di quegli insulti); gli insulti e le battute a sfondo sessuale che capita costantemente di sentire tra adolescenti in giro, di leggere su internet o per es. alla radio; al quale appartengono le varie uscite razziste e omofobe che leggiamo quotidianamente sui giornali, a volte provenienti anche da uomini politici (vedi certi leghisti contro il ministro Kyenge); fino ad arrivare a ciò che sta dietro a veri e propri reati come gli assassinii di donne (fidanzate, mogli, amanti).

Cosa c’è nella mente di un uomo normalissimo che ascolta al tg un tremendo fatto di cronaca e lo utilizza per fare un complimento con – ne sono sicura – le migliori intenzioni?
In realtà a me sembra (magari però mi sbaglio perché ragiono da donna?) che è quasi come se mi avesse detto: sei bella e allora meriteresti di essere sequestrata (e incatenata e violentata, come le ragazze del fatto di cronaca). Per di più in quello scambio ho avuto come l’impressione che, nelle vesti e coi toni di un gentile dottor Jeckyll, in realtà un perverso Mr. Hide mi stesse comunicando le sue odiose fantasie. Mi è anche tornata in mente una battuta che la mia migliore amica pronunciava sempre quando, da adolescenti, uscivamo tra ragazze e magari qualcuna di noi, salutando le altre e dovendo tornare a casa da sola col buio, esprimeva qualche timore:
“Ma figurati… [brutta come sei] non corri nessun rischio, se incontri un violentatore è lui che scappa”. L’idea è un po’ la stessa al contrario, se ci pensate bene. Infatti, purtroppo, le prime a usare battute sessiste e denigratorie verso le donne sono, spesso, le donne stesse. A dimostrazione che è una questione di cultura in cui siamo immersi, non di genere sessuale di appartenenza. Francamente, non so come se ne esce. L’educazione, la scuola, le iniziative di vario tipo, certo; ma a volte ho l’impressione che siano gocce in mezzo a un mare di melma. E sappiate che sono in genere una tipa molto “sportiva”, abituata a battutacce di tutti i tipi, anche a causa dell’ambiente (un po’ maschilista) che frequento, e di cui rido allegramente; non sono una femminista e tantomeno una “paranoica”… Ma mi sembra che si stia un po’ passando il segno, su tante cose (penso anche al razzismo e all’omofobia dilaganti e in modo spavaldo). Se perfino una “tranquilla” come me comincia a preoccuparsi…


Le belle statuine

Ieri sera ho ceduto anch’io alla moda e ho guardato Berlu su La7, in teoria ospitato da Santoro anche se a dire il vero il conduttore e regista della trasmissione è risultato essere Berlu in persona. Non ho visto niente che non mi aspettassi di vedere, poiché da anni sostengo che Michele Santoro è più berlusconiano di Berlusconi stesso: nello stile, nel narcisismo, nella vanità, nella megalomania, nella fuffa che lo contraddistingue. La differenza è che Berlu rispetto a lui riesce a risultare più sincero, diretto e simpatico.
Dunque il programma si è rivelato un lungo monologo del nostro Berlu, più brillante che mai, intervallato da scherzi e battute tra maschi e agevolato da efficaci volate lanciate dal conduttore/spalla a Berlu, delle quali tra l’altro lui non aveva neanche bisogno.

Quello che mi ha colpita è stato altro. Mentre questi uomini se la ridevano e se la cantavano virilmente tra loro, apparivano in studio due belle statuine: bionde, ben vestite e sedute composte sulle loro sedie, con le gambe accavallate strette strette come si conviene alle donne serie in tv per distinguersi da quelle poco serie (veline & C.) che invece le gambe le possono tenere come pare a loro e sicuramente stanno più comode.
Trattavasi di Luisella Costamagna e Giulia Innocenzi (la prima l’ho riconosciuta, della seconda ho cercato il nome per metterlo in questo post perché non so chi sia ma suppongo una “giornalista”). Cosa facevano queste due signore, in mezzo ai suddetti frizzi e lazzi da bar sport? Tacevano. E si procuravano una forte tensione al collo tendendone tutti i nervi per ostentare – non potendo dimostrarla a parole – la loro intelligenza attraverso uno sguardo che fosse il più possibile determinato e ficcante. Ma il loro viso è stato inquadrato solo di sfuggita rendendo pertanto inutile il torcicollo che le starà affliggendo in queste ore.
Le due, nei pochi secondi in cui è stata loro concessa la parola, hanno mostrato di essere preparate e di avere intenzioni ben più serie e bellicose (in senso giornalistico) del conduttore gigione; ma non sono riuscite a portare avanti uno straccio di dialogo in quanto costantemente interrotte e corrette dal gatto Michele e dalla volpe Silvio. I due compari le interrompevano, è vero; ma le due non sono mai state capaci di farsi valere e prendere la parola o almeno portare a termine un discorso cominciato.

Perciò, cara Luisella: tu che sei una giornalista, una professionista anche di una certa età e ti senti certamente una spanna superiore a molte altre donne, perché accetti questo trattamento? Hai provato a emanciparti l’anno scorso con un programma tuo su rai 3; presumo che sia andato male dal punto di vista degli ascolti e che per questo tu sia tornata all’ovile. Ma ti posso dire che mi sembra più padrona di sé una lobotomizzata de “La pupa e il secchione” rispetto a una bella statuina intelligente ma muta nello studio di Santoro. Insomma mi dispiace per te e per tutte quelle donne intelligenti, professioniste, che in certi programmi tv politici/culturali sono usate (e si lasciano usare) solo per fare scenografia e servono come “quota rosa” ma si vede benissimo che vengono mal sopportate ed emarginate. L’unico che si salva – sia nell’atteggiamento verso le donne sia nel saper tenere testa a Berlusconi – è Gad Lerner (sempre onore a Gad). Ovviamente è appena stato silurato per lasciare spazio al più conformista Formigli.

Il fatto è che nella vita normale non vedo donne messe a tacere come accade nei talk televisivi o in certi contesti politici (anche di sinistra). Quindi la domanda che resterà senza risposta è: perché??? Perché accettate di fare le belle statuine, le brave bambine composte? E la pongo anche considerando il fatto che io in teoria sarei favorevole alle quote rosa (temporanee) ma se poi le donne in quota arrivano nei posti che contano (in parlamento, nei consigli d’amministrazione ecc.) ma non sanno farsi rispettare (a meno di non trasformarsi in uomini, e anche questo è non farsi rispettare), mi sa di fregatura.


Diritto di voto globalizzato

Se avessi potuto, lo avrei fatto volentieri, Barack!

Sulla pagina Facebook del rinnovato Presidente degli USA Barack Obama appare la foto che il Presidente ha scelto per la vittoria (foto in fondo al post), alla quale si aggiungono secondo per secondo i commenti degli utenti di fb che si congratulano con lui. Leggete questi commenti; alcuni non riuscirete neppure a decifrarli, poiché sono scritti in caratteri sconosciuti ai più tra noi: cirillico, cinese, arabo, persiano, giapponese e altri che non riesco nemmeno a contestualizzare geograficamente. Tra quelli che usano il nostro alfabeto, troviamo anche qui messaggi scritti nelle varie lingue d’Europa: francese (tantissimi), tedesco, danese ecc. Ma anche tra quelli scritti in inglese, leggiamo “congratulations from”: faccio prima a scrivere: i paesi di tutto il mondo. Se elencassi da dove provengono questi auguri e congratulazioni dovrei davvero scrivere i nomi degli Stati di tutta la Terra; infatti ho appena imparato nomi di Paesi che non sapevo neanche esistessero. E invece perfino lì ci sono sostenitori di Obama.
Non parliamo dell’ansia e del successivo entusiasmo con cui un po’ ovunque si è seguita la campagna elettorale statunitense e i risultati delle urne.

È da un bel po’ che lo dico, scherzando, certo, ma… anche no: il presidente degli Stati Uniti dovremmo poterlo votare tutti! Perché dalle sorti degli USA e soprattutto dalle scelte di politica estera dipendiamo un po’ tutti in tutto il mondo! Detto questo, godiamoci questa vittoria, che ritengo sia ancora più significativa rispetto a quella di quattro anni fa, trattandosi di una conferma e dopo anni per niente facili; e speriamo che sia un esempio anche per noi, qui nell’Italietta poco amena. Anche se personalmente sono contenta, non mi abbandono a entusiasmi, primo perché comunque noi Monti abbiamo e Monti ci teniamo (e chi verrà dopo – chiunque sia – mi fa più paura di Monti; non abbiamo un Obama, noi, purtroppo), secondo perché la situazione mondiale è quella che è e i miracoli non li fa neanche Obama. Tuttavia… porgo anch’io le mie sincere congratulazioni a Mr. President e tiro un bel sospirone di sollievo.

…four more years! 🙂


Primo marzo 2010: sciopero degli stranieri

Forse avrete notato il banner che da un po’ campeggia su questo blog e magari qualcuno ci avrà cliccato sopra, scoprendo a cosa allude. Circa un mese fa ho letto sul giornale di un’iniziativa che stava nascendo e che ha subito colpito la mia attenzione: lo “sciopero degli stranieri”, indetto il primo marzo 2010, ispirato a un’analoga iniziativa francese. In quell’articolo, oltre a spiegare obiettivi e senso dell’iniziativa (che potete trovare qui), si diceva che diversi comitati locali stavano cominciando a formarsi nelle varie città, e che chiunque avesse voluto avrebbe potuto inserirsi nel comitato della propria città o fondarne uno se ancora non c’era. Come disse Martin Luther King nel famoso discorso del 28 agosto 1963, Now is the moment, mi sono detta. Ora è il momento di passare dal passivo e un po’ lagnoso scontento per l’ingiusta situazione in cui versano tanti migranti nel nostro Paese (e quindi in cui versa il nostro Paese stesso) all’azione concreta, piccola quanto si vuole, ma comunque azione. Ho contattato la referente dell’allora costituendo comitato bolognese – un medico congolese – e sono entrata a far parte del comitato organizzativo. Sono cominciate le prime riunioni, i primi confronti, le prime difficoltà nel riuscire ad allacciare e integrare le esperienze di realtà associative diverse, ma soprattutto è cominciato un bel percorso che non vuole concludersi il primo marzo, ma proseguire finché ce ne sarà bisogno, e in modo molto concreto, dato che in realtà non si sta creando – almeno qui – niente di completamente nuovo, semplicemente si sta creando una rete efficace tra le tante esperienze già presenti sul territorio. Infatti quello che mi entusiasma non è tanto la manifestazione in sé – cui pure tengo molto e che spero riesca bene nelle sue varie sfaccettature, che non riguardano solo lo “sciopero” inteso nel senso tradizionale del termine – quanto il percorso che si sta creando. È bello e dà speranza anche solo trovarsi e mettere in comune le esperienze che si stanno portando avanti (che sia il doposcuola per ragazzi stranieri – è il mio caso – o i medici che offrono assistenza sanitaria indipendentemente dal possesso del permesso di soggiorno, o chi insegna l’italiano, gli avvocati di strada eccetera), progettare, trovarsi insieme seduti in cerchio: siamo italiani (di diverse regioni, essendo Bologna città universitaria), europei dell’Est, sudamericani, africani; semplici persone unite da valori comuni, nell’attesa che non ci sia più bisogno di dover lottare per il rispetto dei diritti umani in un Paese come il nostro. Chiunque fosse interessato, può contattare il comitato della propria città (tramite il blog che vi ho segnalato o tramite facebook), partecipare allo sciopero nelle forme che preferisce (una buona idea mi sembra quella lanciata da Emergency; i soldi delle ore o della giornata di sciopero potete devolverli a Emergency o a qualunque altra realtà che conosciate e che sia magari vicina alle realtà migranti) o far conoscere l’iniziativa a chi non ne è al corrente. Io mi sento finalmente in una dimensione che sento mia; di fronte alle paludi che la nostra politica e i nostri partiti (tutti!) ci presentano ogni giorno, per me ormai la vera politica è quella costituita dall’associazionismo civile e dalle buone pratiche portate avanti attorno a valori condivisi da parte di normali cittadini, senza bandiere, senza ideologie, con ideali sì, ma realistici e non dogmatici, con la non violenza e anche con la gioia e la felicità di fare le cose insieme.


Amica neve

Sono felice perché è arrivata, puntuale, la prima neve di stagione: è da ieri sera che nevica ininterrottamente ed è stato bellissimo al risveglio vedere attraverso la finestra il mondo di sempre tutto bianco. Poi, col proseguire della stagione, al vedere la neve di solito non si sarà molto contenti, perché in città rallenta il traffico, è difficile spostarsi e, dopo le nevicate, ti ritrovi per giorni e giorni cumuli di ghiaccio sporco ai bordi delle strade. Ma non puoi essere seccato il giorno della prima neve di stagione, quella che cominci ad attendere tra fine novembre e inizio dicembre, e che ti dà l’idea che il signor Inverno sta arrivando e con lui il Natale e le giornate sempre più corte, le dolci serate passate nel calduccio di casa. Evviva! Benvenuta, amica Neve!

Ragazzi/e, non c’entra niente con la poesia della neve, però sapete, sono rimasta turbata dal fatto che in Italia (e sicuramente nel mondo, perché queste cose non succederanno solo da noi) esistano queste migliaia di frustrati, questo esercito di sfigati – diciamolo pure – che, non appena succede un fatto, magari esecrabile tipo quello di ieri contro Berlu, cosa fa? Crea un gruppo su Facebook! Migliaia di persone (che vorrei definire imbecilli, ma non vorrei sembrare troppo violenta), non dieci o dodici, che inneggiano pro o contro questo o quello. È la cifra, che mi manda in tilt. E non è con facebook che me la prendo; è che magari prima questi cretinetti non avevano visibilità, ora ce l’hanno, lì chiusi nelle loro stanzette a pigiare vaneggiamenti sulle loro inutili tastiere.


Brontolo un po’ ma alla fine son contenta…

E così mi sono fatta una lunga fila di un’ora e un quarto per votare, tempo impiegato utilmente a decidere quale candidato scegliere e a orecchiare poi i discorsi dei miei compagni di fila. Inutile dire che trattavasi di anziani, alcuni di un’anzianità sconcertante, come un paio di signore arrivate in carrozzina e parecchi altri che si reggevano a bastoni o stampelle. Il che da un lato ha suscitato sì in me la consueta ammirazione (Che bravi i nostri vecchi, sempre presenti, che senso civico, che esempio!), ma dall’altro anche un’insofferenza. Sono i vecchi che mandano avanti tutto, qui. Anche la politica; guardiamo alle elezioni, alle assemblee politiche e a occasioni come le primarie: vecchi a perdita d’occhio. Chi mette su ogni anno il baraccone delle Feste dell’Unità, chi cucina a tutto spiano negli stand, chi monta tutto? Loro. Non ce l’ho con gli anziani; tra l’altro, se loro spadroneggiano è perché noi giovani dormiamo, o ci disinteressiamo, o stiamo davanti a un computer. Però mi è salita una tristezza. Sarà anche che per mezzora ho ascoltato un gruppetto di vecchi dietro me parlare di pressione, di punture, di malanni vari e stilare un elenco dei compagni morti di recente. E sarà che questi vecchi provengono perlopiù dalle fila dell’ex pci e sono abituati a votare tutti diligentemente come gli è stato detto. Quindi se in sezione si dice che bisogna votare Pinco Pallino, tutti votano Pinco Pallino (in questo caso Bersani) perché è da una vita che sono abituati a seguire le direttive di partito e non riescono ad abituarsi molto bene al fatto che i tempi sono cambiati e non ci sono più direttive (se no a cosa servono le primarie?).

Però come non sorridere di fronte a una coppia di anziani, ognuno arrancante sulla sua stampella, con lei che tutta orgogliosa e con un sorriso dolcissimo, esclamava a ogni piè sospinto, rivolta a noi ancora in fila:

– Siamo stati proprio bravi, proprio bravi, nè? Pur con tre gambe, siam venuti a votare! –.

Un’altra cosa che mi ha colpito è che il tenore dei commenti, in fila, era il seguente:

– Eeh, stavolta proprio non volevo venire, ma poi, insomma, mi sarebbe venuto il rimorso–

– Eh già, se non voti, ti senti in colpa, son qui per questo, se no restavo a casa –

– Almeno così noi abbiamo fatto il nostro dovere, adesso tocca a lorsignori fare il loro, io ho la coscienza a posto! –.

Ecco, siccome anch’io ero lì con le stesse motivazioni, ho avuto come l’impressione di un popolo di votanti spinti dal timore del senso di colpa più che dall’entusiasmo (com’era invece agli inizi). Speriamo che ai vertici capiscano tutto ciò.

E infine, come non ridere di fronte al gadget lasciato ai votanti? Una molletta da bucato verde-Lega con su scritto: “Ci tengo”. Ma non sarebbe stata meglio una spillina, così te la attacchi alla borsa e ci vai in giro, per esempio? Che andare con una molletta per i panni, io l’ho fatto, ma perché ho poco senso del pudore…
Vi prego, voglio conoscere l’autore di tale genialata! Cosa mi significa un ciappino per stendere i panni? A me ha solo fatto venire in mente la fatica di stendere un bucato (odio i lavori di casa). E poi, quel colore… se non vuoi metterci un po’ di rosso, almeno scegli un’altra tonalità di verde. Quasi quasi mi propongo come curatrice della comunicazione del PD, perché come comunicazione non ci siamo mica tanto. Ciò non toglie che mi sono attaccata quel ciappo alla tracolla della borsa e ci sono andata in giro, sperando di non essere scambiata per una fan di Calderoli & C.

E anche questa è andata. Il candidato l’ho scelto; domani vado a scegliere la cucina.


Il voto utile

Sabato pomeriggio: indegnamente stravaccata sul divano guardo fuori dalla finestra il cielo azzurro e le fronde agitate da un vento tiepido e mi dico: Quasi quasi potrei andare a votare adesso, così me la sbrigo subito. Detto fatto, mi alzo, mi do un’occhiata allo specchio e penso: A quest’ora non ci sarà nessuno, la gente ci andrà domani, non sto a cambiarmi. E così esco da casa con indosso pantaloncini dei tempi delle medie più magliettazza da combattimento e scarpe da tennis.
Avrei già dovuto insospettirmi quando, passando davanti al circolo Arci, ho visto la pista di bocce insolitamente deserta (di solito è affollata di umarells infervorati nel gioco, tra giocatori e spettatori), come anche avrebbero dovuto mettermi sull’avviso gli orti stranamente spopolati (qui a Bologna il comune, se un/a vecchio/a lo vuole, gli dà un orto da coltivare… e mooolti vecchi lo vogliono). Invece imperterrita ho proseguito fino alla mia ex scuola elementare, dov’era la mia sezione di voto. Ecco. Bene. Sono entrata e ci ho trovato mezzo quartiere. Essendo stata adocchiata contemporaneamente da almeno tre persone che mi salutavano da lontano, non ho potuto battere in ritirata. Così ho salito le scale, scambiato cenni di saluto e raggiunto la mia sezione: e qui, una coda di gente, tra cui la Rosa, la Rosy (mia dada di quand’ero piccola), la Giulia (una compagna di scuola che ha sempre sognato di diventare stilista e che forse, mentre mi squadra dall’alto in basso, riconosce perfino i miei pantaloncini delle medie), tre Luca (tra cui un mio cugino), i genitori della mia migliore amica, la mia maestra delle elementari con suo marito… insomma tutti. Tutti venuti con la convinzione di non trovare nessuno e fare in fretta (e tutti comunque vestiti meglio di me).
L’attesa si preannuncia particolarmente lunga anche perché arrivano vecchi in carrozzina, vecchi pencolanti su bastoni o stampelle, un vecchio con una specie di sondino infilato nel naso… a tutti costoro, ovviamente, viene data la precedenza, come arrivano entrano. Intanto in coda si comincia a chiacchierare, e dopo un po’ scopriamo che voteremo tutti allo stesso modo; anche chi aveva fatto un pensierino sul votare una qualche minima variante rispetto all’ortodossia conclamata si riallinea al pensiero del voto utile. A questo punto, accertata una tale unità d’intenti ed esauriti i vari convenevoli, il leitmotiv della conversazione diventa: “Speriamo di vincere al primo turno”. Credo di avere sentito pronunciare, in quella mezzora di attesa, questa frase in tutte le possibili sfumature e declinazioni.

Finalmente arriva il mio turno, do tessera e carta d’identità e mi ritrovo in mano quattro schede di cui una – quella del comune – sembra un lenzuolo matrimoniale. Mi ritiro per votare, estraggo dalla tasca il mio foglietto su cui ho scritto i vari cognomi per le preferenze, e comincio a compilare: scheda per il presidente di quartiere, scheda per il comune, per la provincia e per il parlamento europeo.
Non so perché al momento del voto vengo sempre presa da un’ansia da competizione per cui devo essere velocissima, ho questa sindrome da Voto più veloce del nord-est, quindi segno, scrivo, controllo di aver comunque segnato il simbolo giusto, piego ogni lenzuolo con grande destrezza, esco e con immenso orgoglio (per l’avere votato, non per la velocità) infilo personalmente le quattro schede nelle rispettive urne.
La signora anziana che mi restituisce i documenti esclama compiaciuta: “Soccia*, che velocità!”, al che io rispondo: “Eh, mi ero preparata a casa!”. E un’altra vecchia, di rimando: “Eeeeehhh, quando c’è la giovinezza…”. Esco compiaciuta; intanto perché realizzo che finché circoleranno anziani di quell’età io anche tra dieci anni sarò ancora definita una giovincella; ma soprattutto mi si estende un gran sorriso sul viso perché anche stavolta, come sempre, ho dato il mio voto; è solo un piccolo voto tra altri milioni (o centinaia di migliaia, nel caso delle amministrative), ma è comunque la mia opinione. Votare è il mio antidepressivo preferito, è una delle cose che mi riempie il cuore di gioia. Di sicuro, almeno in questo senso, mi è utile, eccome.

Mi spiace solo che la mia circoscrizione sia il nord-est; al nord-ovest si è candidata, per il parlamento europeo, una delle mie scrittrici preferite: Bianca Pitzorno, nelle liste di Sinistra e libertà. Per lei avrei davvero trasgredito alla regola del voto utile, non avrei esitato a votarla. Spero che ce la faccia, perché fa parte di quelle persone serie e preziose che non si fanno eleggere per “entrare in politica”, ma perché hanno degli ideali da portare avanti. Buon voto a tutti, scoraggiati compresi, e speriamo in bene…

 

*Colorita espressione bolognese decisamente poco raffinata ma molto usata e da pronunciarsi con la S più grassa e pastosa che si possa immaginare.


I nostri litigiosi 25 aprile

Rattazzi

[Nella foto: una giovane staffetta partigiana fotografata con la sua fedele bicicletta: sarei stata capace di essere al suo posto, se fossi vissuta allora?]

Fin da quando ero piccola, le storie relative alle due guerre mondiali, alla vita sotto la dittatura fascista e alla resistenza contro l’orrore nazifascista, mi hanno sempre appassionata. Soprattutto quelle raccontatemi a voce dai parenti anziani e dai vecchi del quartiere, uomini e donne che avevano vissuto in prima persona, giovani adulti o ancora ragazzini/e, quegli anni tremendi. Mi è sempre piaciuto anche studiare le stesse vicende sui libri, e Le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea è uno dei libri che mi hanno molto segnata, nel corso della mia formazione come cittadina, oltre che come persona. Ci aggiungo sicuramente anche le testimonianze raccolte da Nuto Revelli, altre pietre miliari per me. Tutte queste vicende non sembrano poi così lontane, in realtà sono inscritte nella memoria visiva, oltre che in quella orale, del territorio in cui vivo, per certi versi ci sono cresciuta dentro. Vicino a casa mia c’è da un lato il cimitero dei polacchi e degli inglesi (cioè i soldati alleati che entrarono a Bologna per liberarla, morirono per noi e sono sepolti qui; questa cosa fin da piccola mi ha sempre fatto molta impressione, perché sono soldati morti per noi e restano sepolti in una terra straniera), dall’altro ogni due passi c’è un cippo con su scritti i nomi dei partigiani caduti per la libertà in quel punto esatto. Quando andavo a scuola ne incontravo due, oggi per andare in casa editrice ne incontro un altro. E quante sono le lapidi che nelle strade del centro rimandano ad analoghi elenchi o ricordano che in quel punto avvenne la tal battaglia o il tale eccidio!

Mi sono sempre chiesta se, se fossi vissuta allora, sarei stata capace di fare la scelta giusta. Non un dissenso silenzioso, ma una resistenza attiva, a rischio della mia vita. Conoscendomi per come sono ora direi di sì perché per me la vita ha senso solo se hai dei valori grandi per cui potresti anche sacrificarla, però è anche facile dirlo stando davanti a un pc. Tra i miei parenti da parte di padre, diversi ne furono capaci e divennero partigiani. Invece i miei parenti da parte di madre erano in parte fascisti, in parte disinteressati, che era come dire fascisti ma “passivi” (sto parlando ormai di nonni/e e bisnonni, prozii/e, molti dei quali ormai morti).

Per questo, il 25 aprile a casa mia è uno stress. Mia mamma quando era piccola sentì dire da suo nonno che i partigiani erano i responsabili indiretti delle rappresaglie contro i civili (nella nostra regione, come in buona parte del Nord Italia, ci furono eccidi atroci da parte dei tedeschi, che ancora oggi restano una ferita aperta, e stragi spropositate). Da allora questa cosa le è rimasta incisa nella testa. Sapete come accade da piccoli: si orecchiano discorsi e si prende per oro colato tutto quello che esce dalla bocca degli adulti. Certe cose, è vero, ti restano più impresse di altre e sono davvero difficili da abbandonare, anche di fronte all’evidenza. Ammettere che anche i propri genitori possono avere torto è un passo così grande che compierlo è davvero complicato. Ciò non toglie che ormai, alla sua età, mia madre dovrebbe essere in grado di distinguere tra quella che era pura propaganda ideologica (cioè una balla fascista) e quella che è la verità storica. Tanto più che ormai sono passati più di 60 anni. Lei, nata negli anni ’50, era ben lungi dal venire al mondo quando succedevano quelle cose, non ha neanche la scusa di essere stata emotivamente coinvolta, come poteva averla suo nonno, che dopo la guerra ha perso tutto. E così, morale della favola, anche oggi ho dovuto sopportare l’annuale litigio tra mio padre e mia madre sul senso del 25 aprile (gli altri anni partecipavo attivamente anch’io, rovinandomi la digestione, ma quest’anno sono stata capace di tenermene fuori, mettendo su un po’ di buona musica rock e alzando il volume onde coprire le urla dei genitori in guerra, tanto ormai le posizioni sono chiare e nessuno cambierà idea). Il litigio non verte ovviamente sul fascismo – mia madre non è fascista e concorda sul fatto che sia giusto festeggiare la liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista – ma sulla bontà o meno dei partigiani: per mia madre dobbiamo ringraziare solo gli americani (e i loro alleati) per la liberazione del nostro paese, invece per mio padre, oltre agli americani, anche quei cittadini e quei militari italiani che si sono opposti ai fascisti e hanno lottato per il loro paese, anche ricorrendo a mezzi offensivi logicamente. Io sono d’accordo con mio padre anche se questi litigi mi sembrano una cosa da pazzi. Io non le capisco queste polemiche, quindi lasciamo perdere i miei genitori (che all’epoca dei fatti in questione non erano neanche nati) e le loro famiglie e parlo per me.

Io sono forse una povera pivella che, quando in quinta elementare la maestra spiegò il Risorgimento e le lotte per l’unità d’Italia, ho provato un’emozione e sono diventata patriota, patriota infervorata di Garibaldi e Mazzini e Cavour e di tutte le problematiche connesse all’unità d’Italia. Io che avevo la fissa dei romanzi d’avventura e delle grandi epopee, mi sembrava un po’ il nostro West.  Ho avuto questo imprinting, l’idea che uno deve amare il suo paese (ero, sempre in quinta elementare, una fanatica del libro Cuore, c’è stato un periodo in cui parlavo come Bottini e De Rossi e mi sentivo molto Garrone). Allora poi la Resistenza per me è stata la continuazione del voler bene al proprio paese al punto da esporsi, lottare e morire, ma non solo per un patriottismo stracco, ma in nome di un’idea di giustizia e di valori che dovrebbero fare parte proprio del nostro DNA e della nostra storia comune. Quindi non solo sono grata ai resistenti ma sono anche fiera che il nostro paese, pur dopo venti anni di dittatura, ne abbia prodotti. Sono i padri della nostra democrazia, cosa possiamo dire di male? Il fatto che ci siano stati talvolta degli eccessi non inficia l’importanza di un fenomeno così importante.
Per me il significato del 25 aprile sta nel chiedersi sempre se anche oggi siamo disposti a esporci e se saremmo pronti a pagare in prima persona per difendere dei valori forti e comuni, nel caso ce ne fosse bisogno. È l’importanza del saper “prendere parte” anziché restare a guardare il corso degli eventi; la lucidità e l’onestà di riconoscere che di fronte a certi scenari, esistono scelte giuste e scelte sbagliate; l’una non vale l’altra, anche se è importante capire le motivazioni di entrambe le scelte. Perché anche se situazioni così tragiche come quelle di allora non ci capiteranno (speriamo) più, è sempre importante stare allerta e pronti a difendere quei valori che, grazie al sacrificio di uomini e donne giusti, hanno poi potuto essere scritti nero su bianco sulla nostra bella Costituzione. Mi sembrano banalità, ma siccome in giro c’è gente (soprattutto giovani) che non sa neanche cosa si festeggia oggi, meglio una banalità in più che una reticenza. Meglio anche i litigi in casa mia: se non altro fin da piccola ho avuto ben chiaro cosa si festeggiasse in questa data!


Buon 25 aprile!

Chi può e chi non può [The Change We Need]

Sono davvero felice per la vittoria del democratico Barack Obama, nuovo presidente degli USA (e un po’ anche del Mondo), ma voglio rendere onore al vecchio John McCain, presentando qui uno stralcio significativo tratto da Forza, Simba, un reportage che David Foster Wallace scrisse nel 1999, quando seguì, in veste di giornalista, McCain nella sua corsa per le primarie repubblicane, poi vinte da George W. Bush. Ecco, di mio posso dire una cosa: se nel 2000 doveva proprio vincere un repubblicano, avrei preferito mille volte che si trattasse di John McCain anziché di quell’ignorante di Bush. Credo che la reazione all’11 settembre, per esempio, sarebbe stata molto meno sconsiderata, per quanto pur sempre patriottica. Forse anche perché, mentre durante la guerra in Vietnam Bush si era imboscato, John McCain conobbe sulla propria pelle quel che leggerete (se avete tempo e voglia) in questo stralcio, un po’ lungo ma avvincente.

Nell’ottobre del ’67 McCain stava compiendo la sua ventiseiesima missione di combattimento in Vietnam quando il suo aereo A-4 Skyhawk fu abbattuto sopra Hanoi, e lui dovette usare il sistema di espulsione. Il che in pratica consiste nell’innescare una carica esplosiva che spara il sedile fuori dall’aereo, e l’espulsione gli spezzò entrambe le braccia e una gamba, e gli provocò una commozione cerebrale, e McCain  cominciò a precipitare dal cielo di Hanoi. Cercate di immaginare per un secondo quanto male può fare una cosa del genere, e quanta paura, avete tre arti spezzati e state cadendo sulla capitale nemica che avete appena tentato di bombardare. Il suo paracadute si aprì in ritardo e atterrò violentemente nel laghetto di un parco in pieno centro di Hanoi. (Ancora oggi accanto a questo laghetto c’è una statua nordvietnamita di McCain, che lo ritrae in ginocchio, con le mani alzate e gli occhi impauriti, e sul piedistallo c’è una scritta: «McCan – famoso pirata dell’aria» [sic]). Immaginate di guadare un lago con le braccia rotte, cercando di tirare il cordino del giubbotto di salvataggio coi denti, mentre una folla di nordvietnamiti nuota verso di voi (esiste un filmato di questo momento, qualcuno aveva una cinepresa casalinga, e il governo nordvietnamita lo ha reso pubblico, ma è sgranato e la faccia di McCain si vede male). La folla prima lo tirò fuori, poi per poco non lo uccise. I piloti di cacciabombardieri erano particolarmente odiati, per ovvie ragioni. McCain fu infilzato nell’inguine con una baionetta; un soldato gli ruppe una spalla con il calcio del fucile. Nel frattempo, il ginocchio destro gli si era piegato lateralmente a novanta gradi, con l’osso che spuntava. È tutto documentato. Provate a immaginare. Alla fine lo caricarono su una jeep e lo trasportarono a soli cinque isolati da lì, nel famigerato carcere di Hoa Lo, dove gli fanno implorare un medico per una settimana, quindi gli ricompongono un paio di fratture senza anestesia, lasciandogli le altre due fratture e la ferita all’inguine (immaginate: ferita all’inguine) così come sono. Infine lo buttano in una cella. Provate per un momento a sentire tutto quanto. La totalità degli articoli e i servizi televisivi su McCain citano il fatto che ancora oggi non riesce ad alzare le braccia sopra la testa per pettinarsi, ed è vero. Voi però cercate di figurarvelo all’epoca, immaginate di trovarvi nei suoi panni, perché è importante. Pensate a quanto diametralmente opposto al vostro interesse personale sarebbe beccarsi una coltellata nelle palle e farsi ricomporre delle fratture senza anestesia generale, poi essere gettati in una cella a non fare altro che stare lì e soffrire, perché fu esattamente quello che successe.

McCain trascorse diverse settimane perlopiù a delirare per il dolore, e il suo peso scese a quarantacinque chili, e gli altri prigionieri di guerra erano sicuri che sarebbe morto; poi, dopo avere resistito così per vari mesi e dopo che le sue ossa si erano rinsaldate alla bell’e meglio e riusciva più o meno a stare in piedi, lo andarono a prendere, lo portarono nell’ufficio del comandante, chiusero la porta e di punto in bianco si offrirono di liberarlo. Dissero che poteva semplicemente… andarsene. Venne fuori che l’ammiraglio della Marina statunitense John S. McCain II era appena stato nominato capo di tutte le forze navali nel Pacifico, Vietnam incluso, e i nordvietnamiti volevano realizzare un colpaccio diplomatico liberando generosamente suo figlio, il piccolo assassino.

E John S. McCain III, quarantacinque chili e in grado a malapena di stare in piedi, declinò l’offerta. A quanto pare il Codice di condotta per i prigionieri di guerra diceva che i prigionieri andavano liberati nell’ordine in cui erano stati catturati, e c’erano altri che si trovavano a Hoa Lo da molto più tempo, e McCain si rifiutò di violare il Codice. Il comandante della prigione, per nulla soddisfatto, gli fece rompere le costole, ri-rompere il braccio e buttare giù i denti dai secondini, il tutto lì nel suo ufficio. Ma anche così, McCain si rifiutò di andarsene senza gli altri prigionieri. Lasciate perdere i film in cui succedono cose del genere e provate a immaginarlo come qualcosa di reale: un uomo senza denti che rifiuta di farsi liberare. McCain a Hoa Lo ci passò altri quattro anni, quasi sempre da solo, al buio, in una speciale scatola grande quanto un armadio chiamata «cella punitiva». […] Cercate di immaginare se al suo posto ci foste stati voi. Immaginate con quanta forza il vostro più basilare, primordiale interesse personale avrebbe gridato in quel momento, e tutti i modi in cui avreste potuto razionalizzare il fatto di accettare l’offerta: che differenza poteva fare un prigioniero di guerra in più o in meno? Poi forse accettando avreste dato agli altri prigionieri una speranza e li avreste aiutati ad andare avanti, e insomma, pesate quarantacinque chili, tutti pensano che morirete da un momento all’altro, e di sicuro il Codice di condotta non si applica quando uno ha bisogno di un medico o altrimenti rischia di morire, e se riuscite a sopravvivere, uscendo di lì potreste promettere a Dio che d’ora in poi non farete altro che il Bene più assoluto, e renderete il mondo un posto migliore, perciò per il bene del mondo è meglio accettare che rifiutare, e forse se papà non dovesse preoccuparsi delle ripercussioni su di voi qui in prigione potrebbe portare avanti la guerra in modo più aggressivo e concluderla prima e quindi risparmiare vite perciò sì forse potreste effettivamente salvare delle vite se accettate l’offerta e uscite vs. a che scopo stare qui in una scatola a farsi picchiare a morte e a proposito oddio immaginatevelo un dottore vero e una vera operazione con gli antidolorifici e le lenzuola pulite e la possibilità di guarire e finire quest’agonia e rivedere i vostri figli, vostra moglie, sentire il profumo dei capelli di vostra moglie… Riuscite a sentirlo? Cosa succederebbe nella vostra testa? Avreste rifiutato l’offerta, voi? Ci sareste riusciti? Non potete averne la certezza. Nessuno di noi può averla. È difficile persino immaginare il livello di dolore e paura e desiderio in quel momento, figuriamoci sapere come avremmo reagito. Nessuno di noi può saperlo.

Eppure, vedete, noi come reagì quell’uomo lo sappiamo. Sappiamo che scelse di passare altri quattro anni in quel posto, quasi sempre in una scatola buia, da solo, battendo sui muri per mandare messaggi agli altri, piuttosto che violare un Codice. Forse era pazzo. Il punto però è che, nel caso di McCain, uno ha la sensazione di sapere, come fatto dimostrato, che lui è capace di consacrarsi a qualcosa di diverso, qualcosa di più del suo interesse personale. Tanto che oggi, quando pronuncia quella frase, uno ha la sensazione che forse non si tratta solo dell’ennesima fuffa da candidato, che detta da questo tizio forse è la verità. […]

John McCain è un eroe autentico, dell’unico genere che il Vietnam può forse offrire, un eroe che è tale non per ciò che ha fatto, ma per ciò che ha sofferto, volontariamente, in nome di un Codice.*

 

*in D.F.Wallace, Considera l’aragosta (trad. di Matteo Colombo), Einaudi, Torino 2006


Le brave ragazze restano minorenni sempre

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Lunedì, ore 15: terminato l’ultimo giorno di laboratori a San Marino. Tutto molto bello ma anche terribilmente stancante; l’unico desiderio che al momento la mia mente riusciva a visualizzare riguardava il treno che mi avrebbe riportata a Bologna; la mia camera, il mio letto, una cena vera – dopo giorni passati pendolando avanti-indietro – mi sembravano più che abbastanza.
Il problema era arrivare alla stazione di Rimini, senza macchina, perché l’unica disponibile, usata nei giorni precedenti, non l’avevamo. Confidando fiduciose nella corriera, io e la mia collega Simona abbiamo raggiunto l’apposita fermata solo per scoprire che la corriera sarebbe passata alle 17,30 (due ore dopo: troppe).
Primo pensiero, dopo avere appurato che nessuno poteva venire a prenderci da Rimini: autostop. Certo, non l’avevo mai fatto in vita mia e proprio due giorni prima ero rimasta colpita dalla notizia della sventurata ragazza uccisa da un automobilista in Turchia ma, insomma, osservando tutte quelle automobili che sfrecciavano luccicanti in pieno sole verso la meta a cui agognavo, non mi sembrava un’eventualità particolarmente pericolosa.

Solo che sono troppo timida. Insomma, come faccio a mettermi sul bordo della strada col pollice alzato quando gran parte della mia vita viene quotidianamente spesa nell’evitare di attirare l’attenzione altrui o – orrore – di creare disturbo?

Per Simona valeva lo stesso. Eppure, quando abbiamo visto un automobilista accostare a pochi metri da noi per telefonare col cellulare, ci è sembrato quasi un segno del destino. Un po’ tentennanti ci siamo avvicinate ma proprio quando eravamo a portata di voce lui svelto ha rimesso in moto ed è ripartito rapido.

Che umiliazione! Voglio sperare che lo abbia fatto solo perché aveva finito di telefonare e non perché si fosse accorto delle nostre intenzioni.
Comunque, questo smacco – vero o presunto che sia – ha messo fine, ancor prima che iniziasse, alla mia potenziale carriera di autostoppista.

In mancanza di ruote, ci restavano pur sempre le gambe, e così eccoci camminare sul margine della superstrada che collega San Marino all’Italia, una strada ovviamente priva di marciapiedi e trafficatissima. Mi era venuto in mente che la sera prima, a casa di Simona, guardando il televideo avevamo proprio commentato con sdegno le notizie ormai ricorrenti sui pedoni uccisi dai pirati della strada anche quando camminano sul marciapiede o attraversano sulle strisce. Figuriamoci su una strada come quella che stavamo percorrendo.
– Ce la siamo proprio tirata! –, ha esclamato Simona.
Io ero troppo concentrata a pregare che non ci piombasse addosso un automobilista ubriaco, un camionista cocainomane o un raver inacidito e in ritardo; bah, alla fine sono tutti luoghi comuni, sai come sono i giornalisti!, mi sono detta, e questa affermazione stranamente è bastata a rassicurarmi un po’. In più morire per dei laboratori, per quanto belli, mi sembrava un po’ eccessivo.

Ovviamente, non pretendevamo di raggiungere Rimini a piedi; sapevamo che, una volta superata la dogana e giunte in territorio italiano, avremmo trovato il capolinea dell’autobus italiano che – ci auguravamo – sarebbe passato più frequentemente rispetto alla corriera.

Lungo il cammino cominciavano ad arrivarmi sul cellulare vari messaggi che mi comunicavano con toni più o meno drammatici, a seconda del mittente, i primi exit-poll delle elezioni. Be’, vi assicuro che in quel momento, tra camion che mi sfrecciavano accanto e una lunga strada davanti a me, se anche mi avessero annunciato che era scoppiata la terza guerra mondiale non l’avrei considerato un argomento prioritario; figuriamoci Berlusconi o Veltroni.

Giunte finalmente al confine abbiamo chiesto ai doganieri dove fosse questo benedetto capolinea ma non abbiamo ricevuto un grande aiuto, se non un vago “più avanti”. Chi ci ha dato l‘informazione giusta è stato, non a caso, un ragazzo straniero poco oltre (tra “poveri” fruitori di mezzi pubblici ci s’intende).
Finalmente, dopo pochi minuti d’attesa, è apparso dietro l’angolo il caro, desiderato autobus arancione. Ma non era ancora finita: una volta salite, abbiamo scoperto che non si potevano acquistare i biglietti a bordo (e neanche fuori, dato che eravamo in una landa desolata priva di tabaccherie).

Come forse potete immaginare, non sono di quelli che salgono sugli autobus senza biglietto. Sono di quelli che lo timbrano sempre e che passano il viaggio desiderando ardentemente che salga un controllore e faccia la multa a chi lo merita (cioè alla maggioranza), cosa che non capita quasi mai (sono un po’ cattiva, lo so).

Be’, ragazzi, scendere era fuori discussione. Ho fatto un viaggio da abusiva e m’è andata bene (se fosse salito il controllore l’unica volta che non avevo il biglietto credo che sarei svenuta).

Ora, questo autobus sembrava uno scuola-bus ma in versione terza età. Quando, dopo aver discusso con l’autista a proposito dei biglietti, mi sono voltata per andare a sedere, mi sono trovata davanti a queste file di posti da due, in gran parte occupati da anziani uomini che chiacchieravano ad alta voce tra loro e prima ancora che potessi afferrare esattamente le loro parole (metà delle quali in dialetto), ancora da prima, quando stavo parlando con l’autista e sentivo solo un vago frastuono alle mie spalle, avevo già comunque capito che l’argomento non era esattamente casto.
Quando io e Simona ci siamo sedute di fronte a un vecchio esagitato e l’amico alle sue spalle gli ha detto ridendo:
– Ehi, Armando, zitto che hai davanti a te due minorenni! – ho capito che avevo intuito giusto.
Armando naturalmente non aveva nessuna intenzione di zittirsi, anzi, affermando che, su quelle cose, le minorenni di oggi ne sanno più di lui e di tutti i suoi amici messi insieme, ha proseguito nella narrazione delle sue avventure giovanili nei bordelli. Simona ha pensato bene di introdursi nel discorso per spiegare le nostre vicissitudini in modo che, se fosse salito il controllore, avremmo avuto tutti i passeggeri dalla nostra parte. Si sono dichiarati in effetti tutti pronti a difenderci, nel caso. Dopodiché, venuti a sapere che io dovevo raggiungere la stazione per tornare a Bologna, Attilio (quello che prima si era preoccupato di non turbare due “minorenni”) mi ha chiesto se sapevo cosa c’era un tempo in via delle oche a Bologna. Sì, lo sapevo (c’era – indovinate cosa? – una serie di postriboli).

– Ma come? Una ragazzina così giovane? –, mi ha chiesto lui, stupito ma anche soddisfatto.

– Be’, non sono minorenne da poco più di dieci anni (ma grazie per averlo pensato!); conosco bene la mia città e la sua storia; Lucarelli ci ha pure scritto un romanzo, intitolato appunto Via delle oche –.

A questo punto, Attilio, incalzato dagli amici, stava per lanciarsi anche lui nella descrizione delle sue avventure in via delle oche (ci andava quando era militare), ma a un tratto ha guardato verso me e Simona e gli è venuta un’espressione un po’ contegnosa e ha detto:

– Be’, non sarete minorenni ma le ragazze serie è come se fossero sempre minorenni per tutta la vita –.

E così ha lasciato perdere le nostalgie di gioventù e si è messo a parlare di Berlusconi che stava vincendo, trascinando ben presto nella discussione l’intero autobus.

Questa frase me la segno!, ho pensato tra me e me. Non so, mi fa ridere, suona strana, tipica di una  mentalità vecchia, ipocrita e sorpassata… Comunque, quella delicatezza mi ha fatto piacere.

Per il resto, mentre attorno a me si alzavano discussioni e soprattutto invettive contro chi stava vincendo le elezioni (e Simona, che è di Verona, rideva, dicendo che se fossimo state su un autobus del suo paese probabilmente avremmo ascoltato discorsi egualmente accesi ma in salsa leghista), io mi sono accorta che fuori dal finestrino scorreva un paesaggio bellissimo. L’autobus si era inoltrato su per le colline e sotto ai miei occhi si stendeva la vivace, ondulata e colorata campagna romagnola, esaltata, quel giorno, dalla limpidezza dell’aria, del cielo e del sole. Uno spettacolo così – pensavo – valeva anche i 40 euro della eventuale multa.

Tra il paesaggio fuori, il periglioso cammino di prima e l’animato caos nel quale stavo viaggiando e al quale ogni tanto mi univo, mi sono sentita come in un film. Non ho rimpianto le comodità dell’automobile, che mi avrebbe portata dritta alla meta ma impedendomi di vivere quei momenti. Però è stato bello, la sera, potermi finalmente riposare, con un ultimo pensiero ad Attilio e al modo caloroso con cui mi ha salutato arrivati in stazione a Rimini.