L’Ussaro sul rogo

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Questa mattina, passeggiando in Centro, osservo il “vecchione” che verrà bruciato in piazza allo scoccare della mezzanotte per salutare l’anno vecchio.
‒ Ma è uno dell’Isis? Ma siamo matti a provocare così? ‒, esclama l’amica che è con me.
‒ Ma no, è un russo, un cosacco! ‒, si intromette un anziano lì vicino.
‒ Veramente è un Ussaro… ‒, dico io, ma lo so solo perché lo avevo letto su internet ieri sera.
Fatto sta che, a giudicare dai commenti, i più sono convinti che quel tipo minaccioso alto 10 metri sia “un russo” e non si capacitano del fatto che stasera noi pacifici bolognesi metteremo al rogo un cittadino russo, coi tempi che corrono, poi. Mi sa che qui più della conoscenza della storia militare poté lo Zecchino d’Oro col suo Popoff.
Per quanto mi riguarda, questo Vecchione per essere bello è bello, proprio ben fatto, tuttavia mi fa un po’ impressione andare a bruciare un Ussaro in piazza anziché un classico “vecchio” o “vecchia” indistinto. Anche vedendola come provocazione, contro le chiusure delle frontiere e i nazionalismi (come è nell’intenzione dichiarata dall’autore qui), mi pare un po’ stantia.
In ogni caso, tutto finirà in fumo (fumo che non vedrò perché mi guardo bene dall’andare in piazza stasera) e domani ce ne saremo già dimenticati.

Però eccomi con gli auguri di rito… come Snoopy sono pronta ad accogliere l’anno nuovo. Saluto con gratitudine il 2016 che per quanto mi riguarda è stato davvero tanto bello e auguro a me e a chi legge di poter vivere il nuovo anno coltivando la gioia del quotidiano e gli affetti, perché qualunque cosa ci succeda saremo più forti se abbiamo in noi e attorno a noi la protezione giusta. Auguri! 🙂
capodanno


Bologna, 2 agosto 1980

autobus1Quando scoppia una bomba il mondo si rovescia. Così un autobus diventa un carro funebre. Quel giorno, per 16 infinite ore, l’autobus 4030 della linea 37, guidato da Agide Melloni, ha trasportato ininterrottamente i cadaveri delle vittime dalla stazione all’obitorio, in modo da lasciare le ambulanze libere per i feriti. In seguito alla strage tornò a ricoprire il suo ruolo di sempre, un semplice autobus col suo normale carico di persone ‒ felici, tristi, preoccupate, indaffarate ‒ finché non è stato messo a riposo per limiti di vecchiaia.

Le persone se ne vanno, le cose restano. Diventano simboli per aiutarci a non dimenticare.

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Qui la testimonianza di Agide Melloni e qui il documentario dedicato al leggendario “Trentasette” e alle testimonianze di chi quel giorno era tra i soccorritori.


Lo shock del sabato pomeriggio

Sabato pomeriggio sono salita su un “trenino” della ferrovia suburbana, gestita dalla FER-Ferrovie dell’Emilia Romagna – precisamente il Bologna-Vignola – e ne sono rimasta entusiasta. Piccolo, modernissimo e pulito, ben riscaldato e con l’altoparlante che avvisava in anticipo a ogni fermata, questo trenino fendeva con andatura rapida e silenziosa la fitta nebbia padana in quella fredda giornata di novembre, e io un po’ guardavo fuori un po’ mi guardavo nel mio specchietto per vedere una faccia sorridente. Ero infatti tutta in fibrillazione per l’evento al quale mi stavo recando.

Questo trenino mi è piaciuto così tanto che prevedo di esplorare prossimamente tutte le tratte percorribili; sì, mi ha suggerito un nuovo modo di passare il tempo libero – quando avrò del tempo libero – e cioè battere la bassa padana a bordo del suddetto trenino armata di taccuino e macchina fotografica, onde lasciarmi ispirare. C’è infatti un trenino per ogni direzione (Modena, Ferrara, Verona…) che copre tutti i paesi grandi e piccoli lungo ogni traiettoria. Puoi raggiungere ogni posto, in quel modo, e senza bisogno di dover guidare.

Ma torniamo a sabato. Cullata dal ritmo dolce e dal calduccio del treno semivuoto e quindi silenzioso, non potevo immaginare lo shock cognitivo che avrei subìto di lì a poco.
È arrivata la mia fermata: Casalecchio Palasport. Sono scesa dal treno, trovandomi tutta sola in questo binarietto immerso nella nebbia, e mi sono incamminata verso la strada. Ero diretta verso un grande centro commerciale e al telefono mi avevano detto che, uscita dal binario, lo avrei visto davanti a me. E infatti, scese le scale e giunta sul ciglio della strada Statale (classica strada da pirati della strada), oltre i fumi della nebbia ho intravisto delle luci appannate in lontananza, che delineavano in modo non troppo nitido ma percepibile un’immensa struttura scura che sembrava incombere in quel nulla: il centro commerciale.

Traversata la strada, ho cominciato a camminare in quella direzione. Seguivo un percorso in cemento, che lambisce il Palasport e conduce direttamente verso lo Shopville Gran Reno e l’Ikea. L’aria che respiravo odorava di hot dog e patatine fritte, cucinati e venduti nei numerosi baracchini con le ruote che costeggiavano lo stradino.
Ok, sono sulla strada giusta
, mi son detta.
Un ponte in cemento e ferro sovrastava un parcheggio vastissimo. Ho percorso tutto il ponte ed ecco stagliarsi davanti a me sulla destra l’insegna dell’Ikea e sulla sinistra quella del centro commerciale.

Varcato l’ingresso del centro commerciale, i miei sensi sono stati travolti da un’ondata di molteplici stimoli non del tutto gradevoli: un frastuono assordante composto da voci, suoni di giostre e marchingegni vari; l’odore unto del Mac Donald’s e della pizzeria al taglio accanto; le luci potenti, innaturali, aggressive; i colori accesi delle vetrine e un calore esagerato. Ma soprattutto: la folla. Che flashback: quando a scuola studiavo la Divina Commedia, me le immaginavo così le bolgie dell’inferno: fiumane di gente che avanzano compatte in più direzioni senza una vera meta. E lì ho realizzato che fino a quel momento ero stata una persona spensierata che non aveva idea di come fosse un centro commerciale durante il weekend. Io quando devo andare in un centro commerciale ci vado sempre solo nei giorni feriali e preferibilmente di mattina e possibilmente nella prima parte della settimana, proprio per evitare la mitologica “ressa del weekend”, ma non immaginavo che tale ressa fosse così fatta! Consideriamo anche che io vado in centri commerciali raggiungibili in bicicletta, quindi grandi ma bene o male collocati nel tessuto cittadino o poco distanti dalla zona abitata. Diciamo: a misura umana. Invece sabato sono stata in questo centro poco umano. Insomma, mi sono sentita disorientata, stordita… mi son sentita quasi male.

Ma soprattutto mi sono chiesta: ma come fa molta gente a trovare rilassante passare il fine settimana dentro un enorme centro commerciale sperduto nel nulla – all’esatta confluenza di: una pericolosa strada statale, la tangenziale e un casello autostradale –, puzzolente, assordante, caotico e dove non puoi neanche fermarti a guardare una vetrina perché rischi di essere investita dal flusso inarrestabile di corpi in movimento? Né tantomeno riesci a parlare con i tuoi amici o il tuo compagno?

Bello comunque vedere che a questo mondo siamo tutti diversi. Ogni tanto, nel caso dimenticassi questa ovvietà, la Realtà provvede a ricordarmelo in modo lampante.

P.S. ma cosa ci facevo io in quel non-luogo di perdizione per eccellenza? Qualcosa di meraviglioso. Partecipare alla presentazione di questo libro, una presentazione atipica: musicata dagli autori stessi e ballata da due ottimi ballerini. Sì, ultimamente sono diventata un’appassionata della Filuzzi e di Leonildo Marcheselli. Ma questa è un’altra, bellissima, storia.


A zonzo

Da alcuni giorni ho finalmente – sempre buona ultima, eh? – una macchina fotografica digitale. Così posso farvi vedere (giusto ogni tanto, tranquilli!) i “miei” posti. Quelli dove adoro andare a zonzo, camminare per ore, e i posti che ancora non conosco ma che vedrò. L’unico problema è che secondo me non sono ancora molto abile a fare foto, cioè non come lo sono alcuni tra voi, ecco. Ma intendo esercitarmi e diventare brava! Quindi non preoccupatevi, posso solo migliorare. Ecco tre scatti dal mio piccolo “Eden” vicino a casa.

Finalmente i ghiacci si sono sciolti e sono comparsi i primi fiori a colorare il mondo:

Mi piacerebbe molto vivere in una città attraversata da un fiume; per ora mi accontento del piccolo fiume che scorre vicino casa e dà il nome al mio quartiere (Savena):

DSC00222(1)Come Alice non posso resistere; adoro perdermi tra i sentieri più o meno conosciuti:

DSC00227(1)Be’, adesso quando scrivo che ho passeggiato nel parco sapete dove immaginarmi.


Liberi di cantare

Il mio blogghino non conta niente ma nonostante questo voglio lo stesso portare alla conoscenza dei miei tre lettori l’ennesimo episodio di intolleranza, stavolta contro persone omosessuali, e pesa molto, questo episodio, nel mio cuore; primo, perché la mia città ha un solido e storico rapporto con la cultura omosessuale, cui deve molto, perché sempre viva e attiva grazie per esempio a un circolo come questo, aperto a tutta la popolazione e spesso ricco di iniziative interessanti; poi perché sono cattolica; infine perché sono una cittadina italiana e amando il mio Paese vorrei che ogni cittadino potesse viverci ricevendo rispetto. Il fatto è questo: da qualche tempo il coro Komos, un coro maschile omosessuale, utilizzava per le sue prove una sala parrocchiale messa gentilmente a disposizione da un parroco. L’arcivescovo di Bologna, che per certe cose ha evidentemente le antenne, ha obbligato il parroco riluttante a fare sloggiare il coro per via di un documento della Congregazione per la dottrina della fede del 1986, firmato dall’allora cardinale Ratzinger. In questo episodio colpisce anche l’ormai solita contrapposizione tra alcune delle gerarchie ecclesiastiche, spesso perse in deliri di potere e autoritarismi offensivi per la dignità umana, e i semplici parroci, cioè le persone che stanno a contatto con la gente e che, per lo più, seguono l’esempio di Gesù ben più dell’arcivescovo di Bologna. Che poi non ho mai capito perché a Milano assegnano sempre i vescovi “buoni” e da noi mandano sempre dei vescovi cattivissimi. Forse per punirci in eterno del fatto che una volta eravamo una città “rossa”. E magari lo fossimo ancora.

Qui trovate il blog del coro Komos, con maggiori dettagli sul triste episodio ma anche tanto amore per la musica, e qui un bell’articolo (anche se il nome del coro è scritto sbagliato) del Centro Poggeschi.

Riguardo a me, non servirà a niente scriverlo qui, ma tacere è essere complici di un clima di intolleranza che non sento mio. Sono un’individualista socievole e penso che ognuno vada rispettato per quello che è, bello o brutto, grasso o magro, mozzarelloso o colorato, eterosessuale o fantasioso, disabile o apparentemente sano… e se a una o più persone piace cantare… e lasciateli cantare!


Qui si sale

1899-47257Cari lettori, questo blog giace temporaneamente abbandonato perché la sua autrice è impegnata a scrivere giorno e notte la sua tesi di laurea e ne avrà per un’altra settimana.
Vi dico solo che mi trovo in un tale stato di stress e adrenalina che a colazione, invece del solito tè o caffè, bevo camomilla (sul serio)! Comunque, se reggo a questo ritmo, tra poco sarà tutto finito.

Qui a Bologna c’è un famoso santuario dedicato alla madonna, famoso perché si trova su un colle ed è collegato alla città da un portico lungo tre chilometri. Si tratta di un percorso molto bello perché, arrivati in cima, si gode di un ottimo panorama. Religiosi o meno, tutti i bolognesi sono soliti frequentare tale portico, anche solo per fare jogging. Tra gli studenti di ogni ordine e grado il portico è spesso citato in espressioni del tipo: “Se prendo la sufficienza in mate vado a san Luca in ginocchio”. Io non ho mai visto nessuno realizzare tale promessa ma ammetto che qualche viaggetto propiziatorio a san Luca, ai tempi del liceo, l’ho fatto anch’io con le mie amiche.
Senza contare il pellegrinaggio annuale con la parrocchia, capeggiato da vecchiette oranti che, in condizioni normali fanno fatica anche solo ad attraversare la strada, ma se si deve fare sei km (tre dei quali in salita) recitando il rosarioimprovvisamente diventano agili come giovincelle (della serie: la fede non smuove solo le montagne ma anche le vene varicose).
E anche in un mio primo appuntamento romantico il baldo giovane con cui uscivo mi portò su a san Luca (in una trattoria/bar e poi ad ammirare per ore il panorama notturno: un freddo che me lo ricordo ancora adesso).
Una volta, durante la discesa, io e la mia amica Laura incontrammo due turiste giapponesi, armate di macchina fotografica, le quali ci fecero capire che desideravano scattare una fotografia; io credevo che chiedessero a me o alla mia amica di riprendere loro; invece no, volevano che il soggetto della foto fossimo proprio io e la Laura; a volte sorrido pensando che tuttora (forse) in un album di fotografie in Giappone c’è una foto che ritrae me e lei in quanto esemplari di giovani bolognesi nel proprio habitat natural/culturale.

Ma cosa c’entra il portico di san Luca con la mia tesi? Be’, dovete sapere che l’ultimo tratto del portico si fa più ripido rispetto al percorso precedente e si conclude con una scalinata che, dopo tre km di salita a piedi, risulta davvero faticosa: quest’ultimo tratto è chiamato comunemente inferno, proprio per la fatica che comporta. Ma si sale comunque con buona volontà, perché è un inferno temporaneo, oltre il quale appare finalmente lo spiazzo del santuario e il termine della salita. È un bellissimo contrasto: dal portico stretto, scuro e ripido si approda a uno spazio luminoso e aperto, il cielo è la prima cosa che ti accoglie (perché i portici in generale, bisogna dire che son simpatici e comodi, ma anche stretti e sempre un po’ in ombra). Allora io in questo momento sono, diciamo pure, all’inferno. Ma il cielo è proprio a pochi metri, ci sto arrivando.

Tutto ciò giusto per dire che se in questi giorni latito, sapete dove sono…

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Questo è appunto l’arrivo, quando sei lì che arranchi mezzo strozzato dal fiatone e giustamente davanti a te vedi solo una grossa croce, ma ormai sei quasi arrivato…


Dal notaio

Oggi, per la prima volta in vita mia, sono andata dal notaio. Questo notaio da un lato ha proprio l’aspetto e i modi di fare di un notaio serio e impeccabile, ma dall’altro lato è anche molto simpatico e cordiale. Poi a un certo punto, mentre leggeva ad alta voce il contratto che avrei dovuto firmare, ho notato che indossava una cravatta color ocra con disegnate sopra tante piccole farfalline e libellule, alternate tra loro e tutte colorate: di rosso, di verde, di arancione. La tinta di fondo della cravatta s’intonava perfettamente col colore della giacca e con quello della sua barba e dei capelli. Un particolare, questo delle farfalle e di come s’intonavano tutte bene con la sua persona, che mi ha fatto quasi un po’ innamorare. Alle pareti erano appesi degli acquerelli con belle illustrazioni, semplici; poi c’era una libreria tutta piena di grossi volumi rossi tutti uguali – saranno stati decine e decine – con su scritte sicuramente delle cose da notaio. Ma cosa conterranno esattamente quei volumoni? Di fronte a me c’era la finestra, che affacciava su piazza Malpighi (nel centro di Bologna). Stando seduta vedevo la Cupola della basilica di San Francesco, e poi il cielo (grigio). Poi il notaio ha finito di leggere il contratto e io e la controparte (o come si dice) abbiamo firmato. E qui è finita l’operazione. Allora perché siamo stati dentro per circa un’ora, se la cosa in sé sarebbe durata cinque minuti?

Per chiacchierare. Pura, gratuita, irresistibile chiacchiera.
Sul tempo, ché ormai – ha detto il notaio – qui a Bologna abbiamo da qualche anno il clima tropicale, roba che nella stessa giornata la temperatura si abbassa di dieci gradi come se niente fosse.
Sul Motorshow, ché quando c’è il Motorshow  – ha detto il notaio – innanzitutto viene sempre a piovere (proprio come quando scende la Madonna di San Luca, che anche in quell’occasione piove sempre) e poi la città si intasa tutta per via del traffico e per noi bolognesi è proprio un dramma.
E poi che il notaio ha una moglie e un gatto, e mantenerli costa (più il gatto che la moglie, ha detto).
E che ormai Bologna è degradata, non è mica più la Bologna d’un tempo, che il notaio s’è laureato nel 1978 e allora sì che era una baldoria tutto il giorno e tutta la notte, e la controparte invece, lui s’è laureato nel ’98, e anche allora – ha assicurato – era ancora tutta una baldoria. Allora io ho detto che quella Bologna lì, un po’ mitica, un po’ gucciniana, era appunto una Bologna un po’ inventata, che fa piacere ricordarla così, più che altro. Ma mi hanno guardata storto, il notaio e la controparte, e son stata subito zitta.
Siamo andati avanti ancora mezzora con queste chiacchiere e poi siamo usciti.

A me fa piacere chiacchierare, ma ho notato che sul lavoro si chiacchiera sempre tantissimo e invece io nella mia ingenuità son sempre stata convinta che al lavoro si lavora e altrove si fa altro. Eppure anche in tutti i lavori che ho fatto io, ho sempre visto che c’è la tendenza a chiacchierare proprio tantissimo (non da parte mia, che infatti purtroppo passo per asociale) oppure a girare per blog o su Facebook, che è un po’ come chiacchierare. Gran parte del tempo viene speso in chiacchiere e diversivi. E può anche andar bene, io poi sono contraria per principio al lavorare troppo. Solo che poi la sera tutti dicono che sono stanchissimi per il lavoro. E io qui non ci credo più tanto (tranne che per certi lavori davvero stancanti). Per esempio, nei mesi scorsi, quando lavoravo per il festival, arrivavamo a sera e le mie colleghe cominciavano a dire – con quel filino di voce che si usa per segnalare che si è esausti – che erano stanchissime e distrutte dalla giornata. E io, che avevo fatto esattamente le stesse cose che avevano fatto loro, mi mettevo a pensare alla giornata e calcolavo che tra chiacchierare tra noi, tra scherzare con qualche cliente o con l’assessore o il barista o il rappresentante, tra telefonare al fidanzato o metterci d’accordo per andare al cinema dopo cena, almeno metà del tempo l’avevamo trascorso in conversazioni amene. Anche adesso, quando facciamo le riunioni, si parla un po’ di cose serie poi ci si racconta cosa si è fatto la sera prima. Perciò io tanta stanchezza non la capisco mica tanto.


(R)onda su (r)onda

tricolore

Che bello vivere in un Paese libero e democratico! Spesso, presi da vis polemica e scetticismo, ce lo dimentichiamo.
Grazie a chi ha combattuto per questo e auguri a tutti noi perché sappiamo sempre amare concretamente il nostro paese.

E ora, una nota curiosa. Probabilmente qualcuno troverà un lato drammatico in questa notizia ma a me sinceramente fa più ridere che altro. Vi copio le prime righe di un articolo di cronaca locale (tratto da “La Repubblica” di oggi) che si riferisce, appunto, a Bologna:

A maggio partono le ronde targate Alleanza Nazionale, a giugno arriveranno le Guardie Padane della Lega Nord.

A settembre, dopo il bando pubblico, comincerà il pattugliamento delle ronde arruolate dalla giunta Cofferati.

Intanto continuerà il consueto “controllo” degli Assistenti Civici già reclutati dalla giunta Guazzaloca [la giunta precedente a quella attuale, nota mia]. E si prepara la controffensiva dei centri sociali, già pronti a fare “le ronde alle ronde”.

 Ehm… come dire… si salvi chi può! 😉

Intanto, BUON 25 APRILE A TUTTI!


D’ora in poi non saremo più di questa terra, mendace, condominiale, illogica, giovanilista*

È successo che nel post precedente ho scritto che mi è piaciuto un libro e però leggendo il post sembra che il libro non mi sia piaciuto. Cose che capitano. Che poi, in realtà, la prima cosa che ho pensato dopo aver finito il romanzo di Nori è stata questa: sì, devo proprio andarmene da Bologna (e lo farò). È già da un po’ che lo penso, e poi ho letto questo romanzo e mi son detta: Vedi? Anche lui…

Io amo la mia città – ci sono nata – ma non la sopporto più. Troppo grande, caotica, inquinata, sporca e anche degradata.
Sono stanca di spostarmi nel traffico e avere continuamente dei flash nella mente in cui mi vedo spappolata contro l’automobile davanti o falciata da uno scooter in corsa.
Sono stanca di dover scegliere il parcheggio per la bici in base a dove ci sono meno probabilità che me la rubino e non sopporto di dovere usare – per andare in centro – la bici detta Scassona anziché la mia bici sportiva nuova e agile, proprio per evitare che me la rubino (come già accaduto).
Sono stanca di essere sempre assordata dal rumore dei motori quando sono per strada e di respirare il mio gas quotidiano.
Poi sono stanchissima di dover scavalcare punk-a-bestia stravaccati in piazza o sotto il portico davanti a dove lavoro, mezzi nudi e perennemente alienati da droghe, alcool e vita grama (grama dal mio punto di vista ma non dal loro, ché ne vanno fieri. Non sto parlando di poveri ma di sbandati), di dover sopportare le loro molestie fisiche e verbali (alle quali non posso reagire), i loro cani e i loro bisogni. Di dover rispondere No, grazie con un sorriso gentile quando mi offrono droga o bici rubate (perché se no si offendono e rischio le botte, come già capitato, non direttamente a me fortunatamente, che sono sempre comunque gentile).
Sono anche stanca del divertimento coatto “perché gli studenti si devono divertire”, alimentato dal falso ma resistente mito di una Bologna – Paese di Cuccagna e Mecca del comunismo (magari lo fosse ancora, ma non come lo intende la maggior parte di loro, cioè una sorta di anarco-libertarismo senza regole. Purtroppo, a sentire certi discorsi che sento o leggo io anche solo girando per l’università non mi stupisco degli attuali rigurgiti terroristici che partono proprio da qui).
Sono stanca di una città i cui abitanti si sentono infinitamente buoni (abbiamo la bontà nel DNA) e tolleranti e invece non è vero, siam come tutti gli altri.

Poi ci sono anche un sacco di cose belle, bellissime, che potrei dire sulla mia città. Sanità funzionante, per esempio, sperimentata sulla mia pelle. Servizi, biblioteche (tra cui una delle biblioteche pubbliche più belle e fornite d’Italia). Tutte cose a cui non rinuncerò neanche andandomene da qui, dato che sono un essere rigorosamente stanziale e radicato, non riesco a concepirmi a vivere fuori dalla mia regione. A me basta andarmene in provincia, anche solo a Ferrara, o a Reggio Emilia o in Romagna, che amo e conosco bene. Non sarà il paradiso ma un po’ meglio sarà (il mio ideale a dire il vero sarebbe trasferirmi in campagna ma per ora, da sola, non ce la posso fare).

Io ho capito che a me di Bologna ormai piace solo il mio quartiere, tranquillo, verdeggiante e dove ci si conosce un po’ tutti; un piccolo paese, insomma. La mia dimensione è questa. Non sono fatta per la grande città.

Voi siete contenti di dove vivete? O avete il sogno di trasferirvi – un giorno – altrove? Ed è solo un sogno o lo farete? Io aspetto solo di laurearmi. Dopodiché cercherò direttamente lavoro fuori di qui, lascerò quello che ho ora e me ne andrò; così, poi, sarà bello tornare a Bologna per vedere gli amici o i genitori, o per fare un giro non sentendola più così mia. Mio cugino lo ha appena fatto – si è trasferito a Ferrara per gli stessi miei motivi – ed è contentissimo.

 

*Il titolo è una frase tratta da Storia naturale dei giganti, di Ermanno Cavazzoni. Dato che, come avrete notato dal tono insolitamente lugubre e disperato del post, mi sento un attimo soffocare, mi sento giusto un tantino stretta, questo libro fantastico, surreale, erudito e leggero insieme, spero mi aiuti a scalfire un po’ quel macigno che porto sulla testa. E, a scanso di equivoci, dico: mi sta piacendo tantissimo!


Problemi di megalomania

In questi giorni sono molto impegnata nello studio e come avrete notato non riesco ad aggiornare spesso il blog, ma oggi dopo lunghe ore china sui libri ho fatto una passeggiata liberatoria nei dintorni e mi sono accorta di vivere in un quartiere affetto da megalomania acuta, almeno per quanto riguarda i suoi commercianti. Soltanto nella stessa via si susseguono:

un normalissimo e piccolo negozio di ottica dall’altisonante insegna: Istituto ottico;

un altrettanto piccolo negozio che vende materassi (ha un’unica vetrina), boriosamente denominato: Centro bedding – Tecnologia del riposo;

una semplice profumeria spacciata per Istituto di bellezza.

Nella via a lato leggo: Lo stilista dei capelli (e si tratta di un parrucchiere che non mi pare si differenzi dagli altri in nulla di particolare) e da qualche parte c’è pure una Boutique del salume (strana associazione e non molto invitante, a mio parere). Per non parlare di un mini-raggruppamento di negozietti che si definisce Centro Commerciale. Insomma, la modestia non è una virtù molto contemplata da queste parti… oppure si tratta di seguaci della filosofia di mia madre sul “sapere vendere la propria merce” (cioè presentarla al meglio nonostante in effetti sia scadente o meno importante di quel che sembra).

Alla fine mi sono rifugiata in un’onesta edicola e ne sono uscita con un discreto numero di fumetti che non so quando riuscirò a leggere. È abbastanza impressionante la quantità di cose da leggere che si sta accumulando senza alcuna possibilità di essere smaltita al momento e per chissà quanto ancora, ma non posso farne a meno. Ecco, forse questo è un vizio che ho (a proposito del post di prima): l’acquisto compulsivo di libri e fumetti (e, in misura un po’ minore, di cd e dvd)! Trovato!

E con questa brutta o bella notizia auguro almeno a voi un buono e felice e riposante weekend.