Impotenza
Pubblicato: 9 Maggio 2017 Archiviato in: attualità, cultura di morte, morte, occasioni mancate, orrore, riflessioni 10 commenti
Georges Minne, Mother grieving over her dead child.
Fin da ragazzina mi sono sempre chiesta come sia stato possibile che, nel secolo scorso, nel cuore d’Europa, la civile colta progredita Europa, tragedie e crimini quasi inenarrabili, tra cui la persecuzione e lo sterminio di milioni di persone innocenti, siano potuti avvenire sostanzialmente sotto gli occhi di tutti, senza che le popolazioni civili, i comuni cittadini come noi, reagissero per fermare l’orrore che veniva perpetrato in mezzo a loro.
Com’è stata possibile tanta indifferenza?, mi chiedevo con angoscia e anche con sdegnato senso di superiorità.
Adesso – e già da alcuni anni, ormai – lo so.
So che si può vivere sicuri nelle nostre comode case mentre a poca distanza da noi uomini donne e bambini come noi non hanno più le loro; si possono progettare villeggiature e pregustare bagni e gite in barca nel nostro mare, incuranti del fatto che sia una immensa bara di morte; si può sedere a tavola chiacchierando in famiglia mentre sullo sfondo va in onda l’ennesimo naufragio.
Quelle persone – che conosciamo in cifre (80 morti, 200 morti, 50 dispersi…) – è come se fossero un po’ meno persone di noi.
Ma quel che ho capito – e che probabilmente valeva anche per gli europei di allora, che tanto a lungo ho duramente giudicato senza sapere quanto fossimo simili – è che a nulla o a poco valgono la sensibilità del singolo, il senso di colpa delle persone di buona quanto inerme volontà, l’empatia e la solidarietà; moti e sentimenti, questi, che infatti ci sono e si manifestano; basti pensare alle centinaia di vite salvate per esempio da un’organizzazione umanitaria per me eroica come i Medici senza frontiere, ai cittadini di Lampedusa e alle tante meravigliose iniziative di solidarietà e sostegno concreto che si manifestano in tutto il nostro Paese (e non solo) in supporto dei migranti, dei profughi e dei rifugiati anche nelle nostre città. Io stessa sono personalmente a contatto con alcune di queste iniziative concrete. Che sicuramente aiutano alcune persone in carne e ossa; che certamente favoriscono anche l’abbattimento di pregiudizi e diffidenze in altre persone in carne e ossa; e si sa che questo conta; che la persona di carne e sangue che si salva, che vive, vale più di mille princìpi decantati e non agiti.
Però non basta. E non è questione di cittadini singoli o solo di coscienza civile. È questione di volontà politica, di visione internazionale, di scelte dei governi. E non saranno i sensi di colpa individuali a cambiare le cose; perciò facciamo bene ad andare in vacanza, a vivere sereni, ad amare la vita, perché sarebbe sciocco e inutile il contrario.
Però una ragazzina del futuro un giorno si chiederà come sia stato possibile che, nei primi decenni del ventunesimo secolo, migliaia di persone siano state lasciate morire per terra e per mare sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno fermasse lo scempio, e ci giudicherà duramente, con angoscia e con uno sdegnato senso di superiorità.
Edison
Pubblicato: 12 aprile 2017 Archiviato in: morte, persone, riflessioni 13 commenti
Eddie Adams, Apartment Building
Era una presenza abituale mentre andavo e tornavo in bici dal lavoro; nel mio cuore avevo cominciato a chiamarlo Geppetto, questo signore, per via dei baffi e della barba bianca e delle gote rosee e pronunciate, come nell’iconografia tradizionale del personaggio. Viveva su un marciapiede, all’incrocio tra la via Emilia e un altro viale, in uno slargo arioso ma trafficato. Ogni mattina lo vedevo affaccendato nel mettere ordine tra le sue cose (mi verrebbe da dire cianfrusaglie ma erano comunque i suoi averi): in due grossi carrelli della spesa teneva ammucchiata una quantità spropositata di oggetti i più vari e un’altra massa ingestibile di cose rotte e vecchie strabordava da un camper poco distante, che usava appunto come magazzino ma nel quale non abitava. Questa visione quotidiana di un senzatetto oppresso da carabattole e masserizie di ogni tipo mi suscitava mille riflessioni. In tempi di decluttering e magici poteri del riordino non potevo non sorridere nel notare come, se sei un accumulatore, lo sarai anche senza avere una casa, contrariamente a tutti gli stereotipi che vogliono il senzatetto libero e leggero sulla Terra.
Un pomeriggio, passando per quell’incrocio, mi sono trovata di fronte alla scena di un brutto incidente avvenuto da poco: un’automobile si era schiantata contro un palo e un’altra se ne stava accartocciata poco più in là. Geppetto, dalla sua postazione privilegiata, aveva assistito all’incidente e in quel momento era intento a spiegarne la dinamica a una ragazza che passava di lì e si era fermata ad ascoltarlo. Tutto eccitato, con ampi gesti delle mani disegnava nell’aria il tragico impatto. Quella è stata una delle ultime cose che Geppetto ha visto nella sua vita.
Il mattino dopo entravo al lavoro più tardi e passando al solito incrocio ho notato Geppetto ancora addormentato tra le coltri, supino, nel suo giaciglio a cielo aperto. Spuntava solo il suo viso placido, rilassato. Il sole era già alto, il traffico e la vita della città pulsavano tutto attorno; mi ero stupita nel vederlo ancora a letto a quell’ora ma ricordo che avevo pensato, con un pizzico di ammirazione: uno come lui non ha orari e se vuole dormire fino a tardi può farlo quanto gli pare.
Al mio ritorno, nel pomeriggio, Geppetto non c’era; al suo posto c’erano alcuni mazzi di fiori. Ho pensato fossero stati messi lì per l’incidente del giorno prima. Allora è morto qualcuno… però i fiori li hanno messi nel posto sbagliato, l’automobilista si è schiantato lì di fronte, dall’altra parte della strada…
Invece, come ho scoperto un paio di giorni dopo leggendo un quotidiano, i fiori erano per Geppetto, che però non si chiamava Geppetto bensì Edison, come lo chiamavano tutti in zona. Anzi, in realtà il suo nome era Oliviero, ma questo nella sua vita precedente, quella in cui aveva una casa, un lavoro e viveva in un’altra città.
Quella mattina non stava dormendo, era morto nella notte per un infarto (sembra avesse problemi cardiaci da tempo).
Edison era molto amato. È passata più di una settimana dalla sua dipartita ma nel suo angolo di marciapiede i fiori e le lettere scritte a mano si moltiplicano; amava i fiori bianchi e stamattina, tra i mazzi di fiori, è apparso un vaso con una bella pianta piena di fiori bianchi, un vaso probabilmente destinato a restare. Gli abitanti del quartiere hanno anche fatto una colletta per pagargli il funerale e la sepoltura. Al funerale la chiesa era piena.
Edison/Geppetto mi manca, perché ero abituata a vederlo, perché sembrava un tipo allegro, perché spesso quando gli passavo accanto in bici o sostavo al semaforo mi sorrideva.
Anche da morto, come da vivo, mi ha suscitato delle riflessioni.
Intanto ho pensato a come spesso quei senzatetto che, pur nel loro nomadismo, si radicano in un posto, risultano noti e ignoti al tempo stesso, e così ecco che vengono battezzati dalla comunità circostante. Io lo chiamavo Geppetto, per gli abitanti del quartiere era Edison; chissà quanti altri nomi gli saranno stati attribuiti.
Poi ho pensato alle tante persone che muoiono sole, tra le mura di casa o di un ospedale; mura che proteggono, mura che nascondono, mura che isolano. Decessi di cui nessuno o quasi si accorge, con funerali deserti. Invece un uomo come Edison, considerato in genere, per il suo status di senzatetto, solo, povero e di nessuno, era in realtà di tutti; il suo stare sempre all’aperto, sempre in vista, col suo modo di fare gentile, con l’ingombro buffo costituito da tutte quelle sue masserizie che non lo rendevano certo invisibile, ha fatto sì che una comunità lo sentisse come un proprio membro e gli si affezionasse. Tutto il contrario della solitudine, insomma.
Una frusta da cucina
Pubblicato: 19 marzo 2017 Archiviato in: esercizi spirituali, morte, nonna, prozia, riflessioni, storie di famiglia | Tags: cimeli di famiglia, il magico potere del riordino, marie kondo 14 commentiQuando qualcuna mi trilla entusiasta su Il magico potere del riordino, quel manuale che insegna a fare ordine in casa desertificandola, io penso sempre che, per chi ha problemi di accumulo, ben più terapeutico di qualsiasi manuale è svuotare la casa di un parente morto. Non lo penso in modo cinico; lo penso in modo dispiaciuto e infatti ovviamente non lo auguro nessuno, anche se purtroppo è una di quelle cose che prima o poi possono capitare.
Questo collegamento mi scatta automaticamente in mente a causa di una delle esperienze più choccanti (probabilmente perché non mi aspettavo proprio, prima di viverla, di restarne così turbata) sostenute negli ultimi anni e cioè liberare la casa di mia nonna e mia zia – le mie amatissime nonna e (pro)zia – dopo la loro morte. Nella mia mente ingenua, pensavo che si trattasse di un’operazione pratica e che comunque non sarebbe stata più dolorosa della perdita delle persone care. Mi sbagliavo. Gli oggetti parlano delle persone che li hanno utilizzati, accumulati, amati. Gli oggetti stanno lì, fermi, solidi, impertinenti, mentre i loro proprietari non ci sono più. In quel vuoto gli oggetti piantano un urlo nel tuo cuore: Non è giusto! Con disperazione li guardi e ti accorgi che è proprio finita.
La cosa peggiore fu ritrovare in un cassetto tutti i biglietti e le cartoline che fin da piccole io e mia sorella avevamo scritto e inviato alla nonna e alla zia; da quelli in cui le nostre calligrafie infantili risultavano ancora buffe e tremolanti a quelli in cui eravamo ormai ragazze e scrivevamo pensieri più adulti ma sempre scherzosi e strabordanti d’amore. Ritrovarmeli in mano – come se tutto quello scrivere fosse stato perfettamente inutile e vano, come fossero tornati alla casella di partenza e in mezzo non ci fosse stato niente – è stato semplicemente orribile.
Non ho voluto condividere con nessuno dei miei familiari quello stato d’animo e quell’angoscia (e la prima volta che sono riuscita a parlarne con qualcuno è stata una settimana fa, perché sapevo che quel qualcuno stava per affrontare un’esperienza analoga) ma il risultato è stato che per parecchio tempo ho smesso di comprare oggetti che non fossero strettamente indispensabili e se qualcuno mi regalava un soprammobile o un souvenir, appoggiandolo su un ripiano il mio pensiero andava a tutti i ninnoli accumulati dalla nonna (ognuno aveva una storia che conoscevo) e alla fatica di chi resta e deve sgombrare la casa. In un attimo di follia ho perfino avuto la tentazione di buttare via tutti i miei preziosi diari ma per fortuna non l’ho fatto. Poi col tempo me ne sono fatta una ragione e ho capito che è un po’ stupido e anche inutile privarsi di quelle cose belle e magari anche superflue (con buona pace di Marie Kondo) che possono impreziosire la nostra casa e la nostra vita. Se dopo la mia morte a qualcuno toccherà trovarcisi in mezzo, be’, mi dispiace per lui ma c’est la vie.
Tuttavia, quando morì anche la mia seconda nonna e i miei genitori e mia sorella mi annunciarono che quella tal domenica sarebbero andati assieme agli altri zii e cugini a svuotare la casa, io decisi serenamente di non andare e me ne restai a casa mia.
Quel pomeriggio mia sorella mi telefonò:
“Sono a casa di nonna. Ci stiamo dividendo le sue cose… C’è qualcosa in particolare che vuoi prenda per te?”.
Sì, una cosa c’era; mi balzò subito alla mente. Non gioielli, abiti o argenteria. Una frusta da cucina. Quella frusta che, quando ero piccola, usavo come fosse un microfono quando giocavo dalla nonna con mia cugina. Ero una presentatrice televisiva, ero una cantante, ero un’astronauta intervistata al ritorno da un viaggio nello Spazio: il microfono era sempre quello.
Sì, avrei voluto quella frusta ed ero stata lì lì per dirlo a mia sorella. Ma poi, no. L’idea di ritrovarmela in mano e il timore di risentire lo sgomento provato tra gli oggetti dell’altra nonna mi fecero subito desistere dalla tentazione e risposi a mia sorella che no, grazie, non desideravo niente. In cuor mio però ero molto combattuta e anche un po’ pentita.
Il giorno dopo, il campanello di casa mia ha suonato. Era mia sorella. Strano, pensavo mentre aprivo la porta, di solito non viene mai senza prima avvisare.
Mi sono trovata di fronte mia sorella, sorridente, con la frusta di mia nonna in mano.
Non dimentico l’esplosione che in quel momento ha allargato il mio cuore: un botto di sorpresa perché mia sorella all’epoca era piccola e mai avrei pensato mi osservasse e ricordasse questi miei giochi; di gratitudine perché non solo si era ricordata ma, nonostante io le avessi detto che non volevo niente, ha preso proprio quella frusta e me l’ha portata; di amore, per lei, per mia nonna, per me, per tutti i momenti belli vissuti insieme. Quell’oggetto mi parlava sì di una persona amata che non c’era più ma attraverso una persona amata che capiva e sapeva.
Quella frusta ha trovato subito posto nella mia cucina. E il mio animo ha ritrovato la pace perché ha capito che il regalo più bello che le persone amate ci fanno sono i bei momenti vissuti insieme, che poi diventano nel futuro bellissimi ricordi, di cui anche gli oggetti possono parlarci; e che se hai anche qualcuno con cui condividerli, la gioia per le relazioni che hai vissuto è più forte del dolore per ciò che hai perso. Davvero, “forte come la morte è l’amore”, e anche di più.
La morte delle persone care continua a farmi paura ma gli oggetti e i ricordi non più.
Commento dunque sono
Pubblicato: 2 marzo 2017 Archiviato in: cultura di morte, riflessioni | Tags: narcisismo 12 commentiAlcuni anni fa, quando i miei genitori avevano appena scoperto che internet non serviva solo per fare ricerche ma era anche interattivo, mi capitò di ascoltare il seguente dialogo, svoltosi in cucina (io ero in sala), in quel sereno momento di felicità familiare nel quale mio padre lava i piatti e mia mamma finisce di sparecchiare:
“Ma non trovi buffo che ci siano tutte queste persone che commentano tutto? – diceva mia mamma ridacchiando divertita – Ma perché lo fanno? Mi fa tanto ridere!”
“Col narcisismo che c’è in giro c’è poco da stupirsi e tantomeno da ridere”, rispose severamente mio padre che, nonostante indossasse il suo sbrindellato grembiule da cucina a fiorellini con finiture di pizzo bianco – o anzi, proprio per quello – non era intenzionato a smettere le vesti di filosofo morale qual è; ma sotto sotto sorrideva anche lui.
“Ieri cercavo informazioni su quale lavatrice comprare e sotto ogni modello di lavatrice c’erano persone che commentavano, ma con veri e propri dibattiti, tenendoci a ostentare tutti grande competenza. Per una lavatrice!”, e giù un’altra risatina, per poi lanciarsi divertita in altri esempi.
In quei giorni di esplorazione nel web a mia mamma si era rivelato un mondo insospettato, un mondo pieno di persone sconosciute che passavano un sacco di tempo a commentare – a volte finendo per litigare – cose dalle più rilevanti alle più futili, sentendosi comunque molto importanti e indispensabili. La cosa la stupiva e divertiva. Soprattutto, non ne comprendeva il perché.
Ascoltare i miei divertirsi tanto per qualcosa a cui io ero già assuefatta, oltre a provocare in me un moto di tenerezza, mi fece riflettere. Quello che io trovavo normale (passare parecchio tempo a esprimere le proprie idee tramite post, commenti, interventi su forum – ricordate i forum di discussione? Che nostalgia! – risposte su google answer, recensioni di ogni cosa; accanirsi con perfetti sconosciuti per spuntarla in discussioni interminabili a suon di commenti ecc.), a loro sembrava sostanzialmente assurdo.
Questo punteruolo (così chiamo io i pensieri critici che ti accompagnano nella vita) da allora è rimasto con me. Benché come blogger io non possa che essere pienamente a favore dei “commenti”, è vero però che ormai è diventata quasi naturale una sorta di compulsione al commento-di-qualunque-cosa, che personalmente trovo insopportabile.
Da facebook ai quotidiani online, solo perché ci si trova davanti l’apposito rettangolino bianco, ci si sente quasi obbligati a dire la propria su tutto, dal goal nella tal partita di calcio al vestito osé della tale modella alle sentenze su fatti di cronaca anche molto delicati, come accade in questi giorni, in cui anche la morte viene commentata e perfino “recensita”.
Non credo mi abituerò mai a questo doversi esprimere su tutto, come se tutto fosse ugualmente commentabile al bancone di un bar (perché questo virtualmente facebook e i vari media sono), come se il nostro “commento” fosse utile o indispensabile. Ma non è un’attitudine che riguarda solo un certo uso del web, al contrario: basti trovare il coraggio di accendere la tv durante il pomeriggio e si avrà un’idea di come il commento – il giudizio – continuo e costante su qualunque cosa e persona e senza soluzione di continuità, come se il nuovo amore del tal divo e la scelta di suicidarsi di una giovane fossero sullo stesso piano, sia onnipresente.
Siamo umani… siamo sempre stati così. I vari media, tradizionali e non, amplificano e pubblicizzano semplicemente questa nostra inveterata tendenza. Internet poi è uno strumento meraviglioso per unire le persone, per scambiare opinioni, per imparare o anche solo sorridere attraverso gli altri (non vorrei che questo post venisse preso come la classica lamentela anti-internet, della serie si stava meglio quando ci si rimbecilliva davanti a certa tv).
Solo, in certi casi mi torna in mente quel dialogo tra i miei genitori… e magari decido io come usare quel rettangolino bianco. A volte lasciandolo vuoto o, in caso di conversazioni vis à vis, stando zitta.
Visioni
Pubblicato: 8 febbraio 2017 Archiviato in: calamità ilariesche, esercizi spirituali, figuracce, riflessioni | Tags: l'arte di dubitare, lucciole per lanterne 5 commenti
(illustrazione di Edward Gorey)
China sulla bici mentre la sto parcheggiando, vedo un ragno sul manubrio e mi allontano d’istinto. Un uomo che sta passando di lì si avvicina e mi chiede se c’è qualcosa che non va.
– No, niente… – rispondo ostentando nonchalance – Be’, c’è un grosso ragno sul manubrio.-
– Un grosso ragno sul manubrio? Vediamo un po’! – esclama lui divertito.
Lo osservo chinarsi sul manubrio della mia bici ed ecco, prende il ragno in mano e me lo mostra.
Il “ragno” era un misto di fili leggeri lasciati sul manubrio dai miei guanti nuovi.
Mentre ringraziavo il mio gentile soccorritore pensavo a tutte le volte che siamo proprio convinti di avere visto, sentito o capito qualcosa quando invece era tutt’altro. E non sempre passa un buon Samaritano a illuminarci. Quanto è importante tenere le porte aperte al dubbio, perché anche quando siamo convinti di avere ragione potremmo avere torto (il che non toglie che invece magari abbiamo proprio ragione!).
Regole elementari
Pubblicato: 29 dicembre 2016 Archiviato in: guerra civile familiare, riflessioni, umorismo 6 commentiQuando uno è nervoso per i fatti suoi, va bene mostrargli qualche sollecitudine ma se costui non risponde bene neanche a queste è buona norma lasciarlo cuocere in santa pace nel suo brodo senza preoccuparsi o rimanerci male. La cosa peggiore da dirgli, poi, è di stare tranquillo, a meno che non lo si voglia proprio esasperare costringendolo a un aperto litigio.
Consultazioni
Pubblicato: 27 dicembre 2016 Archiviato in: felicità, riflessioni 9 commentiIn questo periodo devo prendere una decisione importante nella sfera lavorativa; devo scegliere tra una strada comoda e conosciuta e una più dinamica e impegnativa. Niente di drammatico perché resto comunque nell’alveo sicuro di un lavoro dipendente e non credo neanche che la decisione finale spetterà a me; tuttavia io mi attivo per la mia parte e, non temendo di lasciare il comodo ma essendo anche un tipo prudente, ecco che ho dato il via a un giro di consultazioni che neanche il Presidente della Repubblica durante le crisi di governo più nere.
Alla fine, nel momento della scelta si è sempre soli; tuttavia è bello vedere che se si chiede un consiglio si trovano persone disposte – in questo periodo festivo poi! – a prestare ascolto e impegnare del tempo per dare un’opinione pensata.
Mi chiedo come fanno quelle persone che vanno fiere di non chiedere mai aiuto a nessuno.
Così, come sempre avviene, la gioia non sta tanto nel risultato, quanto nel percorso.
Il senso di questo post è: non bisogna avere paura di chiedere.
Deformazioni professionali
Pubblicato: 21 dicembre 2016 Archiviato in: riflessioni, uomini al lavoro | Tags: psicanalisi, teorie bislacche 7 commentiAccade che un giorno la signora Ansiolina decide di recarsi da uno psichiatra per farsi prescrivere di sua iniziativa un calmante. Poiché non le va di prendere l’autobus, si fa accompagnare dal marito – abituato a fungere anche da autista – il quale, già che c’è, la aspetta in sala d’attesa. Lo psichiatra le prescrive il farmaco ma assieme a qualche colloquio – benché Ansiolina trovi questa precauzione del tutto superflua; lei non ha problemi interiori ma solo un po’ di fastidiosa tachicardia – e quando, avendole il medico chiesto il suo numero di cellulare, la signora gli dà il numero del marito, il luminare compiaciuto sentenzia:
«Cara Signora, ecco, vede che lei ha un problema, su cui possiamo lavorare? Lei ha un chiaro problema di dipendenza da suo marito, altrimenti non mi avrebbe dato il numero di telefono di lui e non si farebbe accompagnare da lui».
La signora Ansiolina soffoca a fatica una risata, se no – visto l’andazzo – rischierebbe una diagnosi anche peggiore. Poi uscita dallo studio del medico, si lascia andare.
Il luminare non sa che lei, un po’ per pigrizia un po’ per tirchieria, non usa mai il suo cellulare ma trova molto più comodo deviare tutte le beghe sullo smartphone del marito che, magari nel bel mezzo di decisive riunioni di lavoro, riceve le telefonate dell’idraulico, del fabbro che deve sistemare la porta del garage o dell’ospedale che annuncia che è pronto il referto… della moglie. Né per dipendenza né per patologia ma solo per comodità. Ma chi glielo spiega al prestigioso psichiatra che spesso la realtà è più semplice delle teorie con cui pretende di leggerla?
Veementi saluti
Pubblicato: 9 dicembre 2016 Archiviato in: libri, riflessioni, umorismo, uomini al lavoro | Tags: buona educazione, buzzati, grosz, il segreto del bosco vecchio 2 commentiStasera, durante un aperitivo, si commentava un certo comportamento (il non voler salutare una collega che va in pensione, solo perché non ci vai d’accordo).
E allora mi è venuto in mente questo passo:
“Quando egli diede le dimissioni dall’esercito, i soldati del suo reggimento trassero un sospirone, poiché difficilmente si poteva immaginare un comandante più rigido e meticoloso. L’ultima volta che egli varcò, uscendo, il portone della caserma, lo schieramento della guardia ebbe luogo con speciale celerità e precisione, come da alcuni anni non avveniva; il trombettiere, che pure era il migliore del reggimento, superò veramente se stesso con tre squilli di attenti che divennero proverbiali, per il loro splendore, in tutto il presidio. E il colonnello, con un leggero inarcamento delle labbra che poteva sembrare un sorriso, mostrò d’interpretare come un segno di commosso ossequio quella che in sostanza era una manifestazione di intimo giubilo per la sua partenza.”
Il brano è tratto da “Il segreto del bosco vecchio” ed è un esempio di come Dino Buzzati fosse anche un fine umorista, come d’altronde non può non essere chi scruta la realtà attraverso la lente del mistero, dell’assurdo e del disincanto.
Punti di vista
Pubblicato: 22 Maggio 2012 Archiviato in: paura, riflessioni | Tags: kenya, terremoto 5 commentiE comunque, cercando di sorridere un po’, i tragici fatti di questi giorni hanno offerto alla mia famiglia un notevole ribaltamento di punti di vista. Dovete sapere che una decina di giorni fa mia sorella, dopo avere trascorso ben sette mesi qui a Bologna, si è trasferita a Nairobi, dove suo marito si trovava già dallo scorso settembre. Ovviamente, non appena ha prenotato il viaggio, a Nairobi c’è stato un attentato con morti e feriti a una chiesa durante una messa, con approfonditi articoli su quotidiani e tg che ci informavano che in questo periodo grandi quantità di esplosivo dalla Libia stanno raggiungendo Kenya e Nigeria per finire nelle mani dei gruppi integralisti e così via. A quel punto mia sorella è stata subissata di cori e suppliche di non partire da parte di tutta la famiglia, ma lei, testona dura, al grido di: “Se uno deve morire muore anche nel letto di casa mentre se non è il tuo momento possono anche spararti addosso ma sopravviverai!” si è involata decisa verso Nairobi. Bene. Da quando è partita, qui in Italia si sono susseguiti: una gambizzazione a Genova più vari segnali di rinascita del terrorismo sparsi qua e là; un attentato (di qualunque matrice sia) orribile e inaudito a una scuola a Brindisi; la nostra regione squassata dal terremoto. Quando domenica, ancora sconvolti dalla notte insonne, io e i miei genitori ci siamo ritrovati insieme per pranzo, abbiamo scoperto che tutti e tre, durante le scosse notturne, ci eravamo ritrovati a pensare: “Meno male che almeno Linda è al sicuro in Kenya!”. Come cambiano le prospettive…