“Stoner”: un capolavoro

stoner

Nei giorni scorsi ho letto un capolavoro, la cui lettura sono qui a consigliare a chiunque, senza cautele e senza distinguo.
È un romanzo che ha per protagonista una persona comune di cui racconta la vita dalla giovinezza alla vecchiaia.
– E perché dovrebbe interessarmi leggere la vita di una persona qualunque? – ha chiesto mia sorella mentre a tavola io e mio padre ci esaltavamo rievocando questo o quel passo.

Perché ogni vita, se osservata con attenzione, è degna di essere raccontata?
Perché la scrittura, quando è buona, rende degna di essere raccontata anche la vita più banale?
Ognuno trovi la propria risposta.

Personalmente ho divorato questo romanzo non riuscendo a smettere e vivendo come in apnea quelle ore di lavoro che mi separavano dalla ripresa della lettura; poi dopo averlo così divorato ho deciso di rileggerlo, stavolta per poterlo gustare con lentezza. Entrambe le letture mi hanno portato a sentirmi vicina al protagonista, a comprendere i suoi sentimenti, infine a commuovermi fino alle lacrime. Un po’ perché Stoner mi ricorda mio padre, che è anche la persona che mi ha suggerito di leggere questo libro.
Stoner è un agricoltore di Booneville, in Missouri, che a diciannove anni si iscrive all’università di agraria e all’università resterà per il resto della sua vita, grazie a una vera e propria epifania (già solo il modo in cui è raccontata vale la lettura del romanzo) che lo porterà a scoprire la potenza della letteratura inducendolo a diventare docente universitario di letteratura inglese. Il microcosmo dell’Università è descritto con a volte divertente a volte dolorosa precisione, sempre con partecipazione. Chiunque conosca quel mondo ne converrà. Nella vita di Stoner però ci sono anche la famiglia, l’amicizia, le tappe di una vita comune che si susseguono mentre lui resta saldo. Nonostante tutto. E da fuori, da lontano, giungono a intermittenza gli echi del mondo, della Storia che passa e arriva a lambire quel microcosmo (con le guerre mondiali, la crisi del ’29) ma senza stravolgerlo.
Non voglio raccontare troppo perché “guai allo spoiler”, dico solo che al di là della storia raccontata è anche la qualità della scrittura (pur letta in traduzione) a colpire, a esaltare. Una scrittura nitida, pulita, ma non fredda, una scrittura che segue il suo personaggio con amore. Quell’amore che lo stesso Stoner, forse inaspettatamente per il lettore, scopre in sé quando si trova a riflettere sulla propria vita. Quell’amore che descrive in un modo delicato, sereno ma anche struggente, lo sguardo di chi tramonta. E che fa bene al cuore, perché quello sguardo, in noi stessi e in chi amiamo, dobbiamo e dovremo affrontarlo volenti o nolenti.

Concludo con una considerazione perplessa. Dopo avere letto un romanzo che mi è piaciuto molto, lo ripercorro con la mente, medito e butto giù qualche considerazione personale. Poi cerco il confronto con altri lettori e se nessuno tra quelli che conosco personalmente lo ha letto, cerco qualche recensione o impressione su internet. In diverse di queste mi è capitato di vedere descritto Stoner come un personaggio arrendevole, debole, che si limita a subire il suo destino. A me pare invece lampante che Stoner sia un personaggio stoico, solido (come suggerisce il suo stesso cognome), che non si tira indietro. Mi pare anche che alcuni passi del romanzo vadano proprio nella direzione di suffragare questa mia impressione e lo facciano in modo anche parecchio esplicito.
Si tratta della stessa contraddizione che avevo notato a proposito dell’interpretazione del comportamento di un altro personaggio, il protagonista del film Manchester by the Sea, giudicato da me un uomo solido e amorevole e dai più freddo e indifferente.
Possibile che oggi lo stoicismo temperato dalla carità, un tempo atteggiamento quanto mai virtuoso e ammirevole, non venga più riconosciuto ma sia addirittura scambiato da molti per debolezza e freddezza, la tenacia e la saldezza morale confuse con la passività e la mediocrità di spirito?

 

[J. Williams, Stoner, Fazi, Roma 2012. Traduzione di Stefano Tummolini.
Il romanzo è stato pubblicato negli USA nel 1965 ma senza riscuotere particolare attenzione fino a che non è stato ristampato nel 2003, venendo riconosciuto negli USA e altrove come il gioiello letterario che è]


Altre dimensioni

magris

“Comunque lui forse aveva ragione, l’infinito bene c’è, da sempre. Ci avvolge – sì, forse anche me, seduta in mezzo a questo disordine – una soffice nuvola azzurro indaco che accoglie un palloncino sfuggito di mano a un bambino. È la felicità, ma le creature bidimensionali che strisciano sulla sfera di quel palloncino non possono alzare la testa e capire che esiste quell’altra dimensione, quella nuvola che le avvolge, e continuano a strisciare disperate. […] Lui in qualche modo doveva essere riuscito ad alzare la testa, a sentire il vento di spazi, di altezze inimmaginabili per chi ha solo larghezza e lunghezza; aveva aspirato a pieni polmoni quell’aria ignota agli umani, un gas esilarante che dava allegria.”

Da Claudio Magris, Non luogo a procedere, Garzanti

Un romanzo che non ha uno “stile scorrevole”, non “si legge tutto d’un fiato”, come va di moda oggi, porta il peso della Storia ma sa anche aprirsi a squarci di leggerezza e bellezza, insomma un po’ com’è la vita.


Vietato eccellere

daliyhaDaliyah Marie, bibliotecaria per un giorno alla Library of Congress, con la direttrice Carla Hayden (prima donna nella storia a dirigere la gloriosa Biblioteca)

Ieri, sfogliando Repubblica: dopo avere superato i vari allarme gelo, melodrammi politici, diversi omicidi efferati tra cui due paginone pruriginose dedicate a un paio di assassini adolescenti, con giornalisti che si improvvisano psicologi (come se non avessimo già abbastanza psicologi veri), mi imbatto in due foto che mostrano una bella bambina dal sorriso simpatico.
Oh no, non sarà successo qualcosa a questa piccola?
No, fortunatamente la bimba non è stata rapita né uccisa; mi trovo di fronte a un raro caso di Bella Notizia. Leggo infatti che la piccola Daliyah Marie, quattrenne di Gainesville (Georgia), è felice poiché ha potuto visitare la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti nella quale ha anche vestito gli abiti della “bibliotecaria per un giorno”. Questo grazie alla sua passione per la lettura: Daliyah infatti ha imparato a leggere all’età di due anni e mezzo e ha già letto circa mille libri. Non è l’unica, in quanto partecipa come tanti bambini al programma “1000 Books Before Kindergarten (1000 libri entro l’inizio della prima elementare), un progetto lanciato nel 2015 per «incoraggiare le famiglie a passare più tempo assieme, promuovendo la lettura negli asili» e che invoglia i bambini a leggere mille libri prima del loro ingresso nella scuola materna (sic nell’articolo: in realtà è la scuola elementare, errore che ho corretto anche a inizio citazione)”.

Subito mi immedesimo nella gioia della piccola; anch’io sono stata una bambina lettrice (anche se non così precoce) e posso solo immaginare come mi sarei sentita contenta nel vivere una giornata come quella che è stata concessa a Daliyah. Da appassionata lettrice di Roald Dahl, poi, non può che stagliarsi nella mia mente Matilda, sorellina cartacea di Daliyah, come lei lettrice precocissima che nei libri trova anche la chiave per sopravvivere in condizioni ostili e migliorare la sua esistenza.
Eppure, più vado avanti nella lettura, più l’articolo assume toni negativi, arrivando perfino a gettare ombre sulla madre di Daliyah, accusandola di protagonismo. Sul fondo della pagina, poi, ecco la lapidaria chiosa firmata dall’intellettuale di turno che è purtroppo un insegnante: una pietra tombale sulla gioia di Daliyah e sulla nostra di ingenui lettori (e te pareva che si potesse leggere una vera bella notizia su un giornale italico? No, mi ero illusa). La punitiva e feroce chiosa si intitola così: “Non troverà la felicità tra le pagine. Mandatela a giocare in cortile”.

Quindi laddove negli USA la piccola Daliyah viene accolta come ospite d’onore nella prima biblioteca d’America, qui da noi, giustamente, nel paese dell’analfabetismo di ritorno, tra un po’ viene messa alla gogna e considerata una vittima di violenza.

dahliya2
A visitare la Library of Congress con la Direttrice in persona a fare da guida? Orrore… che vada in cortile!

Fonti:
–  l’articolo italiano: qui
–  l’invettiva lodoliana: qui
– l’articolo originale del Washington Post di cui l’articolo italiano è una parafrasi approssimativa (con almeno un errore grossolano di traduzione: un conto è leggere 1.000 libri prima della scuola dell’infanzia, ben diverso è leggerli prima dell’inizio della primaria) e distorta; nell’articolo originale non sono presenti i toni giudicatori e moralistici presenti nel nostro articolo: qui
– Il progetto  1,000 Books Before Kindergarten (direi che con buona pace di Lodoli possiamo lasciare tranquillo il Telefono Azzurro):qui


Storia di Madame Aupick, già vedova Baudelaire

aupick

“Era lì, in un angolo del mio immaginario. Mi aspettava? Di certo un giorno è accaduto. Ho sentito che tra noi due la più forte era lei, con la sua storia: che chiedeva di essere raccontata, lo chiedeva con insistenza. Così ho provato a scriverla. […] Quello che adesso comincia è uno dei romanzi possibili.”

Così l’autrice introduce al lettore la protagonista del suo breve ma denso romanzo: Caroline Archenbaut-Defayis, la mamma del poeta Charles Baudelaire. È una di quelle occasioni in cui la letteratura si fa lente d’ingrandimento e, cogliendo un personaggio nel flusso della Grande Storia, fa risaltare la sua vita (o parte di essa) attraverso la forza dell’immaginazione e, in questo caso, anche dell’affetto. Così, fin dall’incipit del romanzo iniziamo a seguire – letteralmente, perché ci imbattiamo in Caroline che cammina per le vie di Honfleur, la sua cittadina – la protagonista e a entrare in intimità con lei, trovando fin da subito inadeguata quella definizione di “donnetta insignificante” che Sartre pensò bene di attribuirle. Caroline infatti fu molto criticata perché, una volta conquistata a fatica la sua posizione di borghese benestante, temeva di perdere benessere economico e reputazione a causa di quel figlio che era arrivata anche a mettere sotto tutela affinché non dilapidasse in un sol colpo l’eredità paterna. Nel romanzo trova spazio il rapporto complesso tra madre e figlio, anche attraverso stralci delle lettere con le quali il poeta sommergeva la madre e nelle quali dichiarazioni d’amore melodrammatiche e richieste pressanti di denaro si sovrapponevano costantemente.

Ma perché questo romanzo è piaciuto a me che non amo né Baudelaire né i romanzi “al femminile”?
Perché la bellezza di questo romanzo – che comunque non è per niente “al femminile” – sta intanto nello stile usato dall’autrice: non asettico o freddo ma per nulla melenso o sentimentale; arricchito da un lessico e una padronanza del linguaggio e della materia (dagli oggetti di uso quotidiano agli ambienti alle vicende storiche) che rendono presente e vivo ogni dettaglio. Poi, soprattutto, perché la vita di Caroline, così come ricostruita/immaginata dall’autrice a partire dalle ricerche biografiche (al termine del romanzo è presente una ricchissima bibliografia relativa alle fonti letterarie e storiche utilizzate), è stata molto avventurosa e si intreccia con le più ampie vicende storiche degli anni in cui era bambina, in primis la resistenza dei monarchici francesi nei confronti dei Bleus (i Repubblicani usciti vincitori dalla Rivoluzione) – il padre di Caroline era un monarchico emigrato in Inghilterra ai tempi del Terrore – che sfocia nel massacro di Quiberon, cuore del romanzo e nel quale svetta la forza morale e la nobiltà di alcuni tra gli sconfitti (sì, è un ottimo esempio di storia raccontata dal punto di vista dei vinti); poi la Parigi di Caroline bambina, orfana e poverissima; la Honfleur di Caroline ormai anziana e benestante; gli echi della Parigi nella quale vive, scrive, si indebita e si angoscia il figlio; pare di trovarci anche noi lì. C’è il tema del passato che cura e che salva, che aiuta a ritrovare se stessi, ad addentrarsi in quella “stanza buia in fondo al cuore” nella quale sono conservati i ricordi d’infanzia che abbiamo voluto dimenticare; il tema dell’incontro con l’altro (e l’Altro – in questo caso un compagno di vecchia data – apre nuovi orizzonti, nuove interpretazioni del mondo, offre stimoli e confronto), dell’amicizia, quello della maternità. E altro che non sto a elencare… perché non sono qui a scrivere un bugiardino.

In un inserto, l’autrice racconta un aneddoto divertentissimo di lei undicenne alle prese con Baudelaire e con un certo “premio Hemingway”. A quella età, in un’estate degli anni Sessanta, nasce il suo amore per questo autore e per quella letteratura francese a cui poi ha dedicato la vita professionale, come docente universitaria francesista e traduttrice.

[Franca Zanelli Quarantini, Storia di Madame Aupick, già vedova Baudelaire, Castelvecchi, Roma 2016]


Veementi saluti

post-18_2016

Stasera, durante un aperitivo, si commentava un certo comportamento (il non voler salutare una collega che va in pensione, solo perché non ci vai d’accordo).
E allora mi è venuto in mente questo passo:

“Quando egli diede le dimissioni dall’esercito, i soldati del suo reggimento trassero un sospirone, poiché difficilmente si poteva immaginare un comandante più rigido e meticoloso. L’ultima volta che egli varcò, uscendo, il portone della caserma, lo schieramento della guardia ebbe luogo con speciale celerità e precisione, come da alcuni anni non avveniva; il trombettiere, che pure era il migliore del reggimento, superò veramente se stesso con tre squilli di attenti che divennero proverbiali, per il loro splendore, in tutto il presidio. E il colonnello, con un leggero inarcamento delle labbra che poteva sembrare un sorriso, mostrò d’interpretare come un segno di commosso ossequio quella che in sostanza era una manifestazione di intimo giubilo per la sua partenza.”

Il brano è tratto da “Il segreto del bosco vecchio” ed è un esempio di come Dino Buzzati fosse anche un fine umorista, come d’altronde non può non essere chi scruta la realtà attraverso la lente del mistero, dell’assurdo e del disincanto.


Alice!

Alice-Munro1

Felicità, anzi: troppa felicità! Il Premio Nobel per la Letteratura 2013 è stato assegnato ad Alice Munro! Finalmente posso esultare per un Premio Nobel per la Letteratura: stavolta non solo conosco bene l’autore premiato ma è anche una dei miei preferiti! E sono anche molto contenta perché questa fantastica autrice ha scritto soprattutto racconti. Io amo molto la forma racconto, un genere che ha vita un po’ difficile, e quindi sono doppiamente felice.

Quale suo libro consiglierei a chi non la conosce? A me è piaciuto moltissimo La vista da Castle Rock, perché amo le storie familiari percorse attraverso il susseguirsi delle generazioni nel loro intreccio con la Storia e la ricerca delle origini. Oppure, se volete qualcosa di più “contemporaneo” potete provare con Troppa felicità o Nemico, amico, amante…  La cosa migliore è fiondarsi in biblioteca (o in libreria), sfogliare i suoi libri e sceglierne uno!

Dato che ora sono troppo emozionata per produrre qualcosa di più intelligente di questo post festoso, vi linko qui alcuni post che mi piacquero molto quando li lessi tempo fa (del resto l’autore di quei post è uno scrittore che apprezzo molto: Paolo Cognetti):

questo su Alice Munro, questo su La vista da Castle Rock. Qui un’intervista ad Alice sul suo rapporto con la scrittura.

E infine qui un estratto da un bel saggio di Jonathan Franzen (contenuto in una raccolta che ho letto proprio in questa estate e che consiglio: Più lontano ancora)

Buona lettura…


Andiamo in centro?

Avevo promesso che il mio blogghino avrebbe ricominciato a dispiegare le sue ali argentee in autunno e l’autunno è arrivato; anzi, più che autunno, sembra arrivato direttamente l’inverno. Così, eccomi qui. E non mi interessa di dover scrivere ogni volta chissà quale post elaborato, dato che non ho più il tempo di una volta; scriverò quello che mi viene, ma sempre seguendo la mia regola e cioè che, essendo questo un posto pubblico, quel che scrivo qui, anche quando nasce da spunti autobiografici, deve poter avere almeno un minimo di significato e di interesse per chi legge; per tutto il resto c’è il mio diario personale. E pazienza se non avrò il tempo di limare tutto e scrivere narrazioni mirabolanti; in fondo lo scopo (devo orgogliosamente dire perseguito con successo, nel mio piccolo, in questi anni) del blog è sempre stato quello di donare a chi legge di volta in volta – e, nel migliore dei casi, tutto insieme – un sorriso, un momento sereno, uno spunto di riflessione, una storia in cui immedesimarsi o trovare conforto (dalle statistiche del blog vedo che i miei post più “tragici” – vicissitudini ospedaliere e sentimentali in testa – sono sempre i più gettonati), tutto qui; per i capolavori c’è… Masterpiece! 😛

 Fine della premessa.

Voglio cominciare questa nuova stagione con un ricordo tra i più dolci e cari che ho; mi è capitato di rievocarlo un paio di sere fa, durante una specie di cena di lavoro in cui si parlava di letture obbligatorie, imposte ai bambini da insegnanti o genitori; quelle che ti fanno passare la voglia di leggere. E il mio pensiero va al mio meraviglioso padre, a lui che ogni tanto, fin da quando ero molto piccola, prima ancora che sapessi leggere bene da sola, mi diceva: “Andiamo in centro?”. Andare in centro era allora praticamente il Paradiso; significava che io e lui da soli uscivamo mano nella mano e andavamo a prendere un meraviglioso autobus; durante il viaggio – in realtà breve ma che a me sembrava sempre lunghissimo ed emozionante – ci saremmo seduti o collocati accanto al finestrino e avremmo chiacchierato di tante cose nostre mentre il paesaggio noto del quartiere lasciava spazio a quello meno noto che conduceva verso il centro. Ma, soprattutto, andare in centro significava scendere sotto le due torri e tuffarci in libreria, spesso in più di una libreria. Qui, come per la verità sempre e ovunque quando c’era/c’è di mezzo mio padre, venivo educata a diventare una persona libera, col diritto-dovere di sviluppare gusti personali assumendomene le conseguenze: venivo lasciata libera di girovagare da sola tra gli scaffali del settore bambini per scegliere un libro da acquistare, mentre mio padre andava da tutt’altra parte, in genere nel reparto filosofia e teologia, a scegliere i suoi libri. Ecco. Anche se ormai sono passati parecchi anni, ricordo perfettamente com’era liberatoria e inebriante quella sensazione di potenza che provavo: ero una bambina piccola ed ero lasciata completamente sola a sfogliare libri, leggerne la quarta di copertina, perdermi tra tutti quei colori e con la responsabilità di dover scegliere tra tutti un libro che mi sarei portata a casa. Insomma, ci si fidava di me! A volte mi divertivo a esplorare la libreria col rischio di perdermi tra stanze e scaffali. Di altri bambini soli così piccoli non ce n’erano quasi mai; tutti avevano il loro bravo adulto a controllarli.
Quando mio padre tornava, coi suoi libri sotto braccio, mi chiedeva quale libro avessi scelto. A volte avevo scelto, senza saperlo, un libro di valore; altre volte avevo scelto qualche stupidaggine; papà non giudicava. Mi chiedeva se ero sicura, magari lo sfogliava con me, mi invitava a confrontarlo con qualche altro libro; ma quando mi decidevo, la mia scelta veniva rispettata. Lui in più sceglieva per me anche un libro di testa sua, di solito un classico per l’infanzia che ancora non conoscevo; in questo modo, indirizzava comunque le mie letture proponendomi, dall’alto della sua esperienza, libri importanti che io da sola non potevo conoscere.

La soddisfazione di uscire dalla libreria con i nostri sacchetti, ardenti dal desiderio che arrivasse la sera per tuffarci subito nella lettura, era grande. Ma prima di tornare a casa c’era un’altra tappa irrinunciabile: andavamo in un bel bar, ci sedevamo a un tavolino come due gran signori e ordinavamo due calde cioccolate in tazza con panna. Fuori, come ora mentre scrivo, calava la sera, il freddo si faceva sentire. Noi due, i volti allegri illuminati dalla luce elettrica del bar, gustavamo la nostra cioccolata; usciti da lì, se era la stagione, compravamo un sacchetto di caldarroste in uno di quei baracchini per strada, poi tornavamo a casa. Papà, libri, libertà, evasione e cioccolata calda: con associazioni di tal fatta è abbastanza ovvio che la lettura per me abbia sempre rappresentato un momento caldo ed emotivamente ricco, oltre che intellettualmente stimolante. Senza contare il fatto che mio padre, da quando ero neonata fino più o meno ai miei dieci anni (ma, grazie a mia sorella più piccola che stava in camera con me, ho approfittato delle sue letture serali anche ben oltre quell’età), ha passato ogni benedetta sera seduto sul mio letto a raccontarmi fiabe prima e a leggermi – a puntate – romanzi poi… ma questa è un’altra storia.


P.S.: rileggendo questo post, mi è tornato in mente quest’altro episodio raccontato qui. È davvero bello notare come i libri abbiano accompagnato tappe importanti della mia conquista dell’autonomia personale… persino quella degli spostamenti (trasloco compreso)!


E siamo a Primavera!

Rieccomi! Sono stata un attimo fagocitata da questa meravigliosa Vita che tutti noi abbiamo il privilegio di (appunto) vivere. E tra le tante cose degli ultimi giorni, come ogni anno ho passato buon tempo alla Bologna Children’s Book Fair (che poi sarebbe la solita Fiera del Libro per Ragazzi), gioendo poiché, a differenza di altre fiere parecchio disertate in questi tempi di crisi, era affollata mi sembra come gli altri anni; cioè tantissimo. Cosa dire? Per me è un po’ il mio Paese dei Balocchi. Oltre all’interesse professionale, è ogni volta entusiasmante vagare nei meandri dei vari padiglioni, curiosare tra gli stand di editori provenienti da tutto il mondo, scoprire nuovi illustratori e libri ancora non tradotti e conoscere anche qualche nuova persona, meglio se straniera. Inoltre è stato qui in Fiera che, nel lontano 2004, sostenni il colloquio per il primo lavoro bello della mia vita; ogni anno, da allora, quasi mi rivedo, seduta su un divanetto, un po’ emozionata ma soprattutto grintosa, e ancora lì a parlare e mettercela tutta senza accorgermi che avevo già convinto l’editore e potevo anche rilassarmi.

A dire il vero non c’è qualcosa che quest’anno mi sia rimasto particolarmente impresso, a parte alcuni volumi con illustrazioni eccezionali visti e sfogliati nello stand coreano e che forse in Italia non vedremo mai. Impressionante vedere la quantità di roba i cui diritti erano stati acquistati dalle case editrici francesi, senza sorpresa peraltro, e quando vedo ciò ogni volta mi chiedo perché non vado in Francia.

Per il resto, tutto come al solito:

  • mi sono persa costantemente e pervicacemente; non ho senso dell’orientamento nei posti chiusi e la tragedia è che non sono intellettualmente in grado di leggere una mappa, nonostante io dovunque vada provveda sempre a procurarmi una mappa. In Fiera te la mettono direttamente in mano all’ingresso, ti ritrovi questo lenzuolone con su segnati tutti i padiglioni coi percorsi e tutte le cose importanti ma credere che io, con quel lenzuolone o anche con lenzuola più piccole, sia in grado di raggiungere un punto B partendo da un punto A, è pura illusione. Tuttavia ho dalla mia parte la cieca fiducia che “tutte le strade portano a Roma” e effettivamente, vagando a casaccio, sono riuscita comunque a raggiungere l’amica che mi aspettava al Caffè degli illustratori in tempi sufficientemente ragionevoli.
  • All’ora di pranzo si creano queste file tortuose e senza fine presso ogni bar presente (e sono tanti), e devi decidere se fare la fila annoiandoti a morte e perdendo tempo o rimandare il pranzo di un’ora col rischio di collassare. Certo, la soluzione più ragionevole è mangiare prima dell’avvento della folla affamata, ma a quell’ora ero imprigionata in una peraltro piacevolissima tavola rotonda.
  • Tavola rotonda, questa, moderata da un amico il quale ha rivelato che da militare aveva acquistato e letto Little Women (non esattamente una lettura da militare). Fu scoperto dal capitano dopo una sessione di smontaggio e rimontaggio fucile al termine della quale il mio amico, avendo finito per primo, non aveva resistito alla bramosia di immergersi nel romanzo che lo aveva rapito; il capitano anziché restare perplesso, giustamente pensò bene di affidargli l’incarico di traduttore dall’inglese, cosa che procurò al mio amico innegabili vantaggi.
  • Infine c’è questa perla della mia prof. del liceo. Sì, io e la mia migliore amica siamo rimaste in contatto con parecchie professoresse, dalle medie al liceo, la cui funzione nella nostra vita è quella di farci da Super-Io. Nei passi importanti che facciamo, potete stare certi che una di queste entità professorali si paleserà per dirci la sua e possibilmente per farci sentire in colpa. L’ultima è che la mia amica si è fidanzata; quando lo ha detto alla nostra prof. del liceo – che abbiamo sempre considerato donna spregiudicata e anticonformista benché “altamente borghese” – costei le avrebbe intimato: “Ora devi assolutamente sposarti! Subito! Per una donna oggi il matrimonio è TUTTO!”.

E ditemi se non ho ragione io a dire che s’è aperto da qualche parte un varco temporale tra gli anni ’50 e la nostra era!


Siamo in tanti

3635_IMAGE_0 576,0,305x305,1;0 576,0,610x610,2;576 9999,0,448x448,2;576 9999,0,224x224,1_3918_Quando l’anno scorso cercavo casa, ho dovuto rinunciare ad appartamenti troppo piccoli, per una questione molto semplice: oltre a me, in casa dovevano starci anche i miei libri. Quando, all’agente immobiliare che trovava che il tale bugigattolo per me andasse benissimo, io spiegavo che non ci avrei dovuto vivere solo io ma anche i miei libri, questa affermazione in genere suscitava una supponente ilarità o veniva presa per uno scherzo. Ma io ero serissima. In realtà, la prima cosa che facevo entrando in un appartamento era scrutare pareti e spazi disponibili per i miei libri, prima ancora di controllare impianti o infissi (diciamo che poi ne ho pagato le conseguenze e la prossima volta starò più attenta a tutto).

In seguito, parlando con amici e conoscenti, mi sono resa conto che per persone non abituate a leggere o comunque a possedere libri (magari li leggono tramite biblioteca), non è affatto facile capire che i libri – soprattutto se tanti – costituiscono una effettiva presenza fisica, che ti obbliga a prenderli in considerazione come priorità nel pensare e organizzare gli spazi. Ammetto che a volte, pur amandoli, possono perfino trasmettere una certa angoscia: li vedi espandersi motu proprio, colonizzare spazi e, in preda a una strana forma di dissociazione, ti chiedi: ma da dove vengono? Come ho potuto senza accorgermene accumularne così tanti? Cosa vogliono da me questi qui?

Se poi, oltre ai libri, hai la sventura di leggere fumetti, ti si apre il baratro: finché si tratta di graphic novel in uno o due volumi, passi; il problema è rappresentato dai fumetti seriali. Mensili o bimestrali che siano, essi sono destinati ad aumentare a ritmo esponenziale; si estendono inesorabili sugli scaffali e tu cominci a calcolare a quali serie puoi rinunciare, o quali degradare mettendole in cantina.

Insomma, è una lotta impari che ogni lettore deve condurre per tutta la vita. Ma è una battaglia nella quale perdere è piacevole.

Non so se mi provoca più invidia o più spavento (credo più spavento) avere saputo di un noto docente bolognese il quale, per sistemare tutti i libri che possiede, vive in affitto con sua moglie in un appartamento pieno di libri e ne possiede ben altri tre, comprati unicamente per contenervi libri, riviste e fumetti, che ha accumulato per anni e anni da quando era piccolo (e non sto parlando di un mero collezionista di quelli che non leggono i libri; no, lui li ha letti e riletti tutti, e ancora ne accumula, legge, memorizza, disserta, con mio sommo piacere).

Ma, tornando a me, annuncio la mia contentezza perché nei prossimi giorni Attilio il falegname verrà a montare metri e metri di mensole, scaffalature e librerie nella mia casetta nuova. Il disimpegno tra il salotto e la camera da letto sarà interamente ricoperto da libri, da terra fino al soffitto (alto tre metri). Ogni stanza conterrà almeno una libreria. Perfino la cucina ospiterà una graziosa librerietta rossa (in cui sistemare libri di cucina e i miei manuali di hobbistica e bricolage) e – che dire – temevo di non riuscire a portare subito tutti i miei libri nella casa nuova, invece sapere che potremo traslocare subito tutti insieme contemporaneamente, io e loro (anzi, loro qualche giorno prima di me), mi dà un’energia formidabile che mi sosterrà nel riempire e trasportare decine di scatoloni su per tre piani di scale. La sola idea di poter disporre i libri uno per uno sugli scaffali e sulle nuove librerie, dando loro quell’ordine (per genere e autore) che finora non ho potuto imprimergli – dato che, col loro aumentare, sono stata costretta a lasciarli vivere allo stato brado sui miei scaffali – mi euforizza. Loro sono la mia coperta di Linus, quella protezione che ti porti dietro per affrontare il Nuovo, e non potrei proprio farne a meno in un’occasione come questa. So che mi capite!


L’irresistibile fascino del proibito

Dato che sta per uscire il nuovo romanzo di Dan Brown, che conta tra i personaggi perfino un Gesù clonato, mi torna alla mente il seguente ridicolo episodio, avvenuto – badate bene – quando Il codice da Vinci era un romanzo ancora sconosciuto ai più, edito da poco e ben lungi dall’essere tanto venduto come poi avvenne.

Una domenica di settembre, in chiesa, la messa stava per terminare. Eravamo al momento degli Avvisi, quel momento che precede la benedizione finale e nel quale vengono ricordati gli appuntamenti della settimana a venire (“Ricominciano gli incontri del gruppo vedove il giovedì alle 17, ricordarsi l‘uncinetto!”, per esempio, o “Il gruppo teatro apre le iscrizioni, rivolgersi all’oratorio” o “Si cercano volontari per la pesca di beneficenza”).

Quel giorno, il parroco (un parroco comunque poco illuminato che per fortuna da noi è durato poco) assumendo un tono grave iniziò un discorso teso a mettere in guardia i fedeli nei confronti di un libro di un tale Dan Brown, molto offensivo per la Chiesa cattolica, forse anche a causa di certo protestantesimo in mala fede, un “romanzaccio” in cui venivano inventate storie al limte della blasfemia su Gesù e altri personaggi del Vangelo, un giallo incentrato sul Vaticano, un libro assolutamente da evitare, diseducativo, irriverente, ambiguo nel presentare invenzioni letterarie come se fossero vere e via così.

Era un discorso talmente “convincente” che tra un po’ veniva voglia di leggere quel libro perfino a me (che grazie a internet ne avevo già letta qualche recensione classificandolo come patacca) e, mentre il parroco parlava, in tutta la chiesa cominciò a sollevarsi un bisbiglìo, credo ovunque composto dalle stesse frasi pronunciate dalle signore sedute intorno a me. Cioè:

– Come ha detto che si chiama l’autore? –

– Accidenti, non capisco l’inglese! Signorina [rivolte a me], lei che è giovane, com’è che si chiama l’autore? –

E mentre io facevo lo spelling:

– Aspetti aspetti, che me lo scrivo! –

– Anch’io, anch’io! Gianna, dopo mi passi la penna? –

– Anche a me! –

– Chi ha un pezzo di carta da darmi? Be’, vabbe’, me lo segno qui sul foglietto dei canti–

– Sarà già in vendita in libreria? –

– Mah, prima faccio una capatina in biblioteca, è tanto ben rifornita la biblioteca di quartiere! –

– Di domenica la Feltrinelli è aperta, vero? –

Come potrete immaginare io, tra uno spelling e l’altro, mi stavo soffocando dalle risate.

Non mi stupirei se (anzi, ne sono certa!) l’indomani (o il giorno stesso) gran parte di quelle persone si siano recate in libreria ad acquistare – con la pia intenzione di rimanerne poi sdegnate, a lettura avvenuta – il famigerato Il codice da Vinci! Dato che immagino che la mia non sia stata l’unica parrocchia in cui si è verificato ciò, direi che il buon Dan Brown deve ringraziare per il suo successo anche l’irresistibile pubblicità dovuta all’opera di dissuasione di tanti pur volonterosi parroci. Vedremo come andrà con la prossima patacca.