Visioni
Pubblicato: 8 febbraio 2017 Archiviato in: calamità ilariesche, esercizi spirituali, figuracce, riflessioni | Tags: l'arte di dubitare, lucciole per lanterne 5 commenti
(illustrazione di Edward Gorey)
China sulla bici mentre la sto parcheggiando, vedo un ragno sul manubrio e mi allontano d’istinto. Un uomo che sta passando di lì si avvicina e mi chiede se c’è qualcosa che non va.
– No, niente… – rispondo ostentando nonchalance – Be’, c’è un grosso ragno sul manubrio.-
– Un grosso ragno sul manubrio? Vediamo un po’! – esclama lui divertito.
Lo osservo chinarsi sul manubrio della mia bici ed ecco, prende il ragno in mano e me lo mostra.
Il “ragno” era un misto di fili leggeri lasciati sul manubrio dai miei guanti nuovi.
Mentre ringraziavo il mio gentile soccorritore pensavo a tutte le volte che siamo proprio convinti di avere visto, sentito o capito qualcosa quando invece era tutt’altro. E non sempre passa un buon Samaritano a illuminarci. Quanto è importante tenere le porte aperte al dubbio, perché anche quando siamo convinti di avere ragione potremmo avere torto (il che non toglie che invece magari abbiamo proprio ragione!).
Amore in farmacia
Pubblicato: 5 novembre 2012 Archiviato in: calamità ilariesche, figuracce, umorismo | Tags: amore, cup, farmacia, privacy 7 commentiCome non divertirsi in questa vita quando viviamo in una contraddizione infinita? E la contraddizione, l’ossimoro, i vari inciampi di questo mondo sono alla base del sense of humour, al quale sono stata iniziata da mio padre fin dalla nascita e di questo lo ringrazio, poiché altrimenti vivrei molto male. Questo è certo. No, perché, mettiamo che io non avessi questo senso dell’umorismo, per esempio. Se così fosse, come acciderbolina mi sarei sentita poco fa quando, prenotando alcuni esami un po’ delicati al tavolino del CUP in farmacia, mi sono trovata davanti un’impiegata dal tono di voce decisamente potente che elencava tutti gli affari miei singoli personali individuali e oserei dire intimi declamandoli a tutta la numerosa e varia clientela in attesa al bancone? Il massimo è stato quando, non contenta, poiché non sapeva un codice o che so io, ha preso il telefono per consultare un tipo alla sede centrale del CUP. E proprio mentre lei aspettava che il tipo rispondesse, io notavo un uomo sui quarant’anni, lungo lungo, magro magro e con la pettinatura da Beatle (nel senso del gruppo musicale, non di beetle, eh?) che, non si sa perché e con tutto lo spazio che aveva – metri e metri di pavimento tra lui e il resto della fila al banco – sostava al mio fianco, appollaiato a mo’ di avvoltoio esattamente al di sopra di me, che ero seduta e speravo che il tipo del CUP non rispondesse all’altro capo del filo. O che il Beatle si allontanasse. Una delle due, insomma. Invece il tipo ha risposto e così la farmacista è ripartita a elencare i miei casi; il Beatle, con questi occhiali da sole che gli davano un’aria da vero sbruffone, ascoltava e mi guardava; mentre io, dopo avere cercato invano di far capire all’impiegata che era più gentile non urlare, diventavo improvvisamente un Maestro Zen e visualizzavo me stessa in forma di ieratica e indifferente candela onde evitare di redermi colpevole di aggressione. Alla fine l’esame è stato prenotato… ad aprile 2013 (credo sia una strategia onde evitare che la gente arrivi viva a farsi visitare, in modo da alleggerire il SSN). E qui, io dico: ci rompono le scatole con la privacy; a scuola o all’università, ormai, per vedere i risultati di un esame devi sottostare a complicate procedure di riconoscimento onde evitare – non sia mai – che tu veda che Tizio è stato bocciato; siam sempre lì a firmare liberatorie, tra un po’ pure per andare a un bagno pubblico… e poi la nostra salute è sempre sbandierata davanti a tutti, perché il caso qui descritto capita di continuo, nelle farmacie, negli ospedali, ovunque, e anche per cose ben più gravi dei miei banali esami di routine (di cui pazienza se tutta una farmacia viene informata). Ecco la contraddizione, l’ossimoro, l’inciampo. Vi dico solo che tempo fa andai in ospedale a trovare un’amica che aveva subìto un piccolo intervento chirurgico e quando mi affacciai nella guardiola delle infermiere per chiedere il numero di stanza della mia amica (non: entrai; mi affacciai restando sulla soglia) vidi, scritto in rosso e sottolineato, su un foglio appeso appunto vicino alla porta, il nome della mia amica e accanto la scritta: HIV+. Questa secondo me era da denuncia. E ne avrei da raccontare ancora!
Comunque questa irritante storia ha un epilogo romantico: il nostro allampanato e ficcanaso Beatle, mentre io ero sempre al tavolino ad attendere di avere i miei fogli e poter scappare da lì, aveva nel frattempo acquistato quel che doveva al banco e, tornando verso l’uscita, mi ha superata e si è fermato proprio alle mie spalle (No, ancora???, ho lamentato dentro me); ma mentre io ricominciavo a innervosirmi, l’ho sentito dire Ciao, dopodiché una voce femminile lo ha salutato con tono distratto; era una farmacista che stava ordinando uno scaffale. Lui l’ha aggiornata (senza che lei lo avesse chiesto) sulle condizioni di salute della propria madre; l’impiegata che mi stava stampando la prenotazione nel frattempo ammiccava con eloquenza verso la collega, che immagino stesse ricambiando l’occhiata. Poi lui ha detto: “Sai, stanotte ti ho sognata”. Be’. A questo punto mi sono voltata io. A guardare lui. Così, per godermi la scena. Tanto, privacy per privacy… Il Beatle, benché lo guardassi (essendo seduta) da sotto in su, mi sembrava improvvisamente piccolo piccolo, gobbo gobbo, un fuscello al vento. E quell’aria sprezzante di prima non l’aveva più, ora che guardava la sua interlocutrice. La farmacista si è messa a ridere, ha esclamato: “Davvero?” e ha subito soggiunto: “Ora però ho da fare. Magari me lo racconti un’altra volta”. Lui si è voltato ed è uscito. Mentre la porta del negozio si chiudeva, l’impiegata del CUP, ridendo anche lei, esclamava: “Non ci posso credere, è proprio cotto!”. “Senza più ritegno, ormai. Voglio vedere fin dove arriva”, le confermava l’altra.
E mentre io raccoglievo finalmente le mie scartoffie, mi pervadeva quella sensazione – non triste – che ogni tanto mi prende: a volte siamo poco più che insetti di fronte all’Universo mondo, alla salute, all’amore. Così è la vita.
Il blush, questo sconosciuto
Pubblicato: 2 ottobre 2012 Archiviato in: figuracce, papi, storie di famiglia, umorismo | Tags: kenya, make up 12 commentiUna sera di giugno, al telefono con mia mamma:
– E poi tua sorella ha scritto dicendo che ha urgente bisogno di un blüs [pronunciato con la u lombarda di mia mamma e la s di “sogliola”] –
– Cos’è un blüs? Un giubbino? –
– No… un blus! [pronunciato come blues] –
– Non ti capisco, mamma –
– Un… B-L-U-S-H! –
– Aaah! Un blush! –
– …ecco, quello. Cos’è, esattamente? –
– Un blush è un fard –
– E perché lo chiamate in quel modo, se si è sempre chiamato fard? –
– Perché prima non impazzavano le beauty guru americane, mamma. Comunque, possibile che Linda non trovi un blush a Nairobi? È una metropoli! –
– Se è per questo le serve anche un fondotinta. Sembra strano anche a me ma in tutta Nairobi non ha trovato trucchi adatti alla sua carnagione europea. Sembra che abbia setacciato tutta la città alla ricerca di questo… fard. –
Io immaginavo mia sorella – che tra l’altro in quei giorni era alle prese con simpatici quanto aggressivi batteri intestinali kenyani – girare per il traffico disumano di Nairobi alla ricerca di un blush… vanitas vanitatum. A ogni modo, appurato che io in quei giorni lavoravo dieci ore al giorno e non avevo il tempo materiale di andare in profumeria e considerando che mia madre aveva l’influenza, la sua serafica conclusione su chi dovesse acquistare questo blush e il fondotinta fu la solita:
– Ci mandiamo papà. –
Papà. Papà è quella stessa persona che, pur vivendo fra tre donne e avendo passato la maggior parte della vita ad acquistare cose da donne, cade ogni volta dalle nuvole e sbaglia prodotto. Tanto per intenderci, ecco un esempio tra i tanti che potrei fare: eravamo appena arrivati a Riccione per le vacanze e la casa era ovviamente vuota; mio padre si offre di andare al supermercato e io gli chiedo per favore di comprarmi uno shampoo, con la seguente raccomandazione:
– Non importa la marca [non volevo complicargli le cose], basta che sia da donna –
– Perché, che differenza c’è? –
– Gli shampoo da donna hanno un buon profumo, quelli da uomo no. Per non sbagliarti prendi una confezione rosa o color pastello, così vai sicuro. Mi raccomando, eh? –
Ebbene, dopo mezzora mio padre, di ritorno dal supermercato, ha estratto tutto orgoglioso il “mio” shampoo dal sacchetto. Trattavasi di un flacone enorme di colore grigio scuro, sul quale campeggiava una gigantesca scritta a caratteri argentati: FOR MEN, e con la classica profumazione di pino silvestre (che non ho mai capito perché gli uomini debbano andare in giro tutti odorosi di quel pungente pino silvestre).
Inutile dire che quando, subito dopo, mi sono recata di persona presso lo stesso supermercato, ho trovato interi scaffali ricolmi di graziosi flaconi di shampoo di color rosa e di altri tenui colori pastello; scaffali occupati al 99,9% da codesti delicati prodotti femminili e di cui solo il restante 0,1% – un angolino oscuro e seminascosto – ospitava gli shampoo per uomini.
Pertanto, il solo immaginare mio padre entrare in profumeria, chiedere un blush e magari fare pure lo swatch per individuare quello più adatto alla carnagione di mia sorella era un’idea semplicemente esilarante. Aggiungiamoci pure che mio padre queste cose le fa da una vita ma si vergogna sempre tantissimo, per una questione di “virilità”. E, come detto, regolarmente sbaglia.
Per farla breve, il papi si è recato in almeno tre profumerie, dotato di cellulare attraverso il quale consultare mia mamma in tempo reale, ha esasperato le commesse pretendendo di saggiare tutto l’armamentario di blush et similia presente in negozio, ne è uscito con la mano e il polso segnati da strisce di varie tonalità di rosa – mani con le quali si è poi recato in banca e dal benzinaio – e ha infine acquistato ben tre confezioni di blush, per andare sul sicuro, più una di fondotinta, sulle quali ovviamente mia mamma ha trovato da ridire ma che sono state comunque inviate a Nairobi assieme a rossetti, ombretti e cipria. Chi ha portato personalmente a Nairobi tutto questo po’ po’ di make up? Ovviamente un amico (rigorosamente maschio) di mia sorella, che doveva recarsi lì per lavoro e che è partito da Bologna dotato di una trousse di trucchi che qualunque ragazza avrebbe invidiato.
Il cimelio imbronciato
Pubblicato: 16 dicembre 2011 Archiviato in: calamità ilariesche, casa nuova, figuracce, tv 12 commentiDue anni fa, proprio nel periodo in cui sia io sia mio cugino di Milano stavamo mettendo su casa partendo da zero, mia nonna, malata da tempo, è morta. Questo ha fatto sì che, anziché doverci indebitare per arredare le rispettive case con mobili dell’Ikea (be’, parecchia Ikea in casa mia c’è lo stesso, eh?), io e mio cugino ci siamo divisi equamente i mobili e gli elettrodomestici di nostra nonna, con grande commozione perché era come se la nonna – che era una di quelle classiche nonne (e donne) che vivono tutta la loro vita nel dono inesausto di sé alla famiglia – fino alla fine e anche oltre si fosse preoccupata di farci un ultimo dono, e proprio mentre ci apprestavamo a involarci verso una fase così importante nella nostra vita: la nostra indipendenza, l’uscita dalla casa di famiglia e l’inizio di una nuova vita con le nostre ali. Per me, ritrovarmi io nella mia casa tutta nuova, attorniata dai mobili della nonna che mi trasmettevano tutti i ricordi dell’infanzia e del suo amore sicuro, è stato come sentirmi accompagnata da lei in quella mia nuova vita sconosciuta.
E fin qui, la poesia.
Venendo alla prosa, tra le cose da me ereditate c’è il vecchio televisore della nonna, un Panasonic bello grande che a casa di nonna e prozia aveva sempre svolto il suo onorato servizio ma che, poco dopo essere approdato in casa mia – cioè esattamente dopo che avevo rischiato di perdere il senno per riuscire a collegargli il decoder del malefico digitale terrestre, il lettore dvd e il videoregistratore (sì, non toglietemi il caro vecchio vhs!) lanciando anche appelli disperati da questo blog – ha deciso di manifestare la sua nostalgia per la vecchia casa e la sua ribellione verso la sua nuova proprietaria incurvando entrambi i lati dello schermo verso il centro in un broncio perenne, questo:
Dopo avere pazientato parecchi giorni per vedere se tornava normale, pur empatizzando con le ragioni della sua ostilità ho fatto quel che si deve fare di fronte alla ribellione di un elettrodomestico e cioè ho chiamato il Tecnico. Il giorno stabilito, ben due tecnici sono saliti a piedi fino al mio appartamento al terzo piano, col loro carrellino porta-tv e la faccia seria. Alla loro richiesta di accendere il televisore per verificare il problema (che avevo già descritto ampiamente a voce, sottolineando come quella fosse una condizione costante: da quando aveva messo quel broncio non lo aveva mai mai sospeso neppure per un attimo), l’ho acceso e ovviamente cosa credete che sia successo? Quello gnorri del mio televisore, sotto lo sguardo dei due tecnici, ha sfoggiato un aspetto ineccepibile, le immagini si vedevano a schermo pieno e senza l’ombra di una curvatura o un cedimento. Nonostante io abbia insistito nello spegnerlo e riaccenderlo più volte, quello è rimasto saldo nella sua imperturbabilità, mentre i tecnici cominciavano a sospettare che fossi io a non essere tanto a posto.
– Be’, signorina… dovremmo portarlo in negozio, facendo tutti questi piani di scale a piedi, aprirlo e vedere se c’è un guasto, e non sembra che ci sia… ma in ogni caso le verrebbe a costare sugli 80 euro. A questo punto, già che c’è, le converrebbe acquistare un televisore nuovo, di quelli a schermo piatto, col digitale integrato… con blablabla –
Mentre parlavano, tante rotelline frullavano nella mia testa: 80 euro è troppo per me che la tv la guardo pochissimo… comprarne uno nuovo non se ne parla proprio… e poi il mio videoregistratore dopo dove lo attacco? E poi, dopo tutta la fatica fatta per collegare il decoder, rismontare tutto… NONONO!
E così, i due tecnici se ne sono tornati in negozio col loro carrellino vuoto e, inutile dirlo, non appena ho sentito sbattere il portone del condominio dopo la loro uscita, i lati dello schermo del mio tv sono tornati curvi verso il centro e da lì non si sono più mossi.
– E va bene, vecchio testardo, l’hai avuta vinta tu! –, ho dovuto riconoscergli.
E così da un anno e mezzo, io vedo la tv con questi due bordi incurvati verso il centro, che lasciano vuoto questo spazio nero ai lati e che deformano anche un po’ le immagini sullo schermo, per es. i volti risultano allungati. Mi ci sono così abituata che l’altra sera, quando ero a cena dai miei genitori e guardavo la loro tv accesa, continuavo a pensare: Ma questa tv non funziona bene; Carlo Conti è più lungo e magro di così; c’è qualcosa che non va. Fino a che non mi sono resa conto che la loro tv funziona benissimo, è la mia che è sbagliata. Quando definitivamente morirà e arriverà il momento di cambiarla sul serio, sarà dura riabituarsi alla tv come la vedono tutti!
Evasore per una notte
Pubblicato: 13 settembre 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, casa nuova, figuracce 9 commentiCerte cose non si dovrebbero fare la domenica sera quando tutti gli uffici sono chiusi e non puoi chiedere informazioni, lo so; eppure, benché mi avessero detto che la scadenza era il 20 gennaio 2011, ieri sera prima di andare a letto mi è venuto lo sghiribizzo di preparare i documenti per la tarsu (sì, la tassa dei rifiuti, siam sempre lì): sono andata sul sito del comune per scaricare l’apposito modulo con l’intenzione di compilarlo per poi inviarlo via fax al mattino dopo e togliermi il pensiero. Ma qui mi è caduto l’occhio al link delle F.A.Q., l’ho cliccato, ho letto e… mi è venuto un colpo! Da quel che ho letto si evinceva che, avendo io attivato le utenze di luce e gas nel 2009, anche se mi sono trasferita effettivamente nel 2010 avrei dovuto presentare la denuncia all’ufficio entrate entro il gennaio 2010, non 2011!
– Omioddio sono un evasore fiscale! –, ho esclamato con disperazione. Un evasore fiscale!, continuavo a ripetermi mentre maledicevo la mia idea di controllare i moduli delle tasse a mezzanotte e trangugiavo un boccetto di melissa per tentare di calmarmi. Mentre cercavo di addormentarmi nonostante mi si fosse trasferito fastidiosamente il cuore nella pancia, mi venivano in mente tutte le facce di quei brutti ceffi truffatori a vario titolo (cricca&C.) che vediamo nei vari tg e provavo un tale senso di vergogna all’idea di poter essere assimilata a loro, anche se solo per una piccola tarsu! Non vedevo l’ora che fosse mattina per chiarire la faccenda con l’ufficio entrate e nel frattempo mi sentivo come Snoopy quando, non riuscendo a dormire la notte per essere stato deferito al grande Bracchetto (temibile quanto indefinita massima autorità canina) davanti a cui avrebbe dovuto presentarsi il giorno dopo, esclama:
– Quando ti sta per succedere qualcosa di brutto, non dovrebbe esserci una notte, prima…–. Santissima verità.
Finalmente mi sono addormentata e ho dormito il sonno del colpevole, costellato di case fuori norma, poliziotti e carcere, con io che gridavo inascoltata: – Ero in buona fede! –.
Stamattina alle otto e trenta ho finalmente potuto parlare con l’ufficio delle entrate e ho spiegato il mio caso; mi è stato risposto che basterà presentare il modulo entro il 2011 come previsto ma specificando che il locale era a disposizione dal giugno 2009: per quei sei mesi “fuori legge” pagherò una semplice mora del 10%.
– Quindi io non risulto un evasore fiscale ma solo un’ignorante e una sprovveduta in buona fede? –, ho chiesto alla gentile impiegata.
– Esatto, proprio così! –, mi ha rassicurata lei.
P.S.: ciò che resta inevasa è però la seguente domanda: qual è il femminile di “evasore”?
Il sacchetto della spazzatura
Pubblicato: 10 agosto 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, figuracce, umorismo | Tags: legge di murphy 15 commentiOgnuno di noi nella vita avrà coniato le sue speciali leggi di Murphy da aggiungere a quella originaria; l’esperienza quotidiana non lesina mai nequizie e contrattempi che ci siano d’ispirazione. Una delle mie leggi più certe è la seguente:
se esco di casa nelle migliori condizioni, non incontrerò nessuno; se esco di casa con almeno un sacchetto della spazzatura incontrerò il mondo.
All’inizio pensavo fosse un caso; invece è proprio automatico. Che poi, per via della raccolta differenziata, i sacchetti sono sempre due o tre per volta; che uno dice, vedendomi aprire il cancello con notevoli equilibrismi: ma questa non vive da sola? Come fa a produrre tanta spazzatura? Se ci fosse un James Stewart alla finestra, sospetterebbe subito che io sia una serial killer.
È che io m’imbarazzo sempre un po’ a incontrare qualcuno avendo in mano il sacchetto della spazzatura. Perché poi noto che, mentre chiacchieriamo – perché il corollario della suddetta legge è che quel qualcuno che incontro in tali circostanze ha sempre voglia di attaccar bottone, mentre se lo incontrassi senza sacchetto si limiterebbe a un rapido Ciao – a lui o lei cade con regolarità lo sguardo verso il mio imbarazzante sacchetto. Oggi, per esempio: ho incontrato l’elettricista, che è anche un amico di famiglia; mentre ci raccontavamo le vacanze ecco che lui ogni tanto guardava il mio sacchetto della spazzatura, che era un normalissimo sacchetto del supermercato contenente bottiglie di plastica schiacciate, dignitosissimo nel suo ruolo e anche parecchio discreto.
L’altro giorno, poi, l’episodio più increscioso. Scendevo le scale reggendo ben quattro sacchetti, due dei quali piuttosto ingombranti: organico, carta, plastica e vetro. Ho sentito un uomo uscire dall’appartamento al piano rialzato, dove abita una signora molto anziana, salutandola con tono di voce molto educato ed elegante. Ho cominciato a rallentare in modo che uscisse dal portone prima del mio arrivo, ma quello si vede che tergiversava, così, quando io sono arrivata al suo piano, lui era ancora lì, che richiudeva la sua valigetta dopo averci infilato qualcosa e si apprestava a scendere la breve rampa di scale che lo separava dal portone. Un tipo vestito tutto elegante, in abito scuro, tutto ben ravviato anche se fuori faceva caldo. Ha sollevato lo sguardo e mi ha vista: uno spettacolo pietoso, una ragazza esile oberata da ben quattro sacconi di forma irregolare (sì, li piego bene gli involucri, ma alcuni oppongono resistenza!) e chiaramente imbarazzata.
– Eh eh, buongiooorno… –, ho proferito con risatina isterica, mentre dentro me inveivo contro la mia personale legge di Murphy. Speravo che lui continuasse a scendere, infilasse il portone e se ne andasse, invece è sceso, ha aperto il portone ed è restato lì ben dritto a tenermelo aperto per farmi passare.
Lo so, è esagerato, ma ho avuto quasi un mancamento. Ho dovuto scendere la rampa di scale davanti a quest’uomo così elegante e anche avvenente che mi fissava sorridendo, cercando di procedere io stessa con la massima eleganza nonostante dovessi gestire questi quattro sacchi che oscillavano per conto loro come dotati di vita propria. E ovviamente non potevamo scendere tutti e cinque – io e i sacchetti – frontalmente, perché non c’era abbastanza spazio tra la ringhiera e il muro; quindi scendevo obliqua, pregando almeno di non cadere, ma cercando di sorridere con naturalezza.
– Eh eh, graaazie… –, gli ho detto passandogli accanto e sperando almeno di non urtarlo con un sacchetto.
A quel punto mi avventavo verso il pulsante del tiro per aprire il cancello e sgattaiolare via; macché, mentre scattavo tra tiro e cancello, quello è corso verso il cancello e di nuovo me l’ha tenuto aperto. Ormai rassegnata, ho compiuto di nuovo la mia sfilata e l’ho di nuovo ringraziato, stavolta proprio ridendo come una scema. Quando ha saputo perché ridevo, la sua risposta è stata:
– Ma guardi che la spazzatura la buttiamo tutti, prima o poi, ma non tutti con questo bel sorriso – (avevo sorriso tutto il tempo per darmi un tono).
E così finalmente ci siamo salutati e avviati ciascuno verso la propria meta: io verso i cassonetti, lui verso una bmw fiammante. Così è la vita.
Soddisfazioni
Pubblicato: 1 luglio 2010 Archiviato in: figuracce, problemi linguistici 3 commentiOh, che soddisfazione, quest’estate mia sorella e suo marito – che attualmente vivono a Londra – passeranno le vacanze con noi a Riccione. Così posso finalmente risfoderare il mio famoso inglese maccheronico – mio cognato parla solo inglese e swahili –, cosa che ho già potuto fare oggi, quando abbiamo mangiato insieme in stazione prima che loro partissero per Napoli, dove staranno qualche giorno da turisti. Io l’inglese lo leggo benissimo e se lo sento parlare capisco tutto, ma se devo parlare io, ragazzi, sarà che non mi capita spesso o sarà l’ansia da prestazione, mi viene una pronuncia orrenda e una grammatica fantasiosa. Però, da raccontatrice quale sono, riesco comunque a comunicare e questo è l’importante. Quando mia sorella e suo marito Jeff vengono a trovarci, poi, si parla un misto di italiano, inglese e swahili che dopo un po’ di questa full immersion io non so più parlare neanche in italiano. Perciò se capitate dalle parti di Riccione e sentite una chiacchierona che parla in inglese sbagliando tutti i tempi verbali e qualche congiunzione, be’, quella sono io!
Il mio punto debole
Pubblicato: 31 Maggio 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, casa nuova, desperate housewife, figuracce 12 commentiAmici, li vedete questi splendidi fiori (li ho fotografati stamattina, ieri erano ancora più belli!)? Belli, vero? Sono i primi fiori che hanno allietato la mia nuova casa; che emozione ho provato quando ho aperto la porta e ho visto l’amico che aspettavo con quel mazzo di fiori in mano. E sapete come l’ho ricambiato? Con un pranzo carbonizzato! Ma procediamo con ordine: per mia mamma invitare persone in casa è sempre stato uno stress e una preoccupazione, perché anche se si tratta di amici lei deve per forza avere la casa perfetta (e basta una goccia sul pavimento per non renderla più tale), avere preparato cibi raffinati da servire in servizi preziosi e così via; la forma domina sulla sostanza (la bellezza di accogliere una persona cara) e di conseguenza in casa nostra non è mai venuto nessuno se non eccezionalmente. Ciò non toglie che io e mia sorella potessimo invitare gli amici, certo, ma a che prezzo? Il clima di “ansia da ospite” si creava lo stesso [“Devi offrire la merenda!”, “In sala c’è disordine! Poi lo vanno a raccontare in giro” (sì, sicuramente!)], e il risultato è che fin da piccola ho sempre invitato pochissime persone, e stando sempre sulle spine. Quando invece ho vissuto fuori casa, ho sempre invitato con gran piacere, e ora che ho definitivamente un nido mio – e considerando anche che stare sempre sola mi rattristerebbe – ricevo spesso amici. C’è un’unica nota dolente in tutto ciò: il mangiare. Se si invitano amici che poi restano a pranzo o a cena – e in genere è così – qualcosa da fargli mettere sotto i denti devi pur rimediarlo. Non è che non sappia cucinare, se per cucinare intendiamo la cucina-base che serve per vivere. Ma vuoi dare a un ospite una misera bistecchina o un uovo sodo? No, dai, almeno la prima volta che l’inviti, no! Finora ho biecamente ovviato al problema ricorrendo a pizzeria o rosticceria sotto casa. Ma questo amico che è venuto ieri, per come lo conosco, ho pensato che avrebbe preferito un cattivo pranzo preparato con le mie mani a un manicaretto preparato dal rosticciere. E così ho preparato una cosa che di solito mi viene bene, e invece – causa ansia da prestazione – mi è venuta male, cioè meno gustosa e saporita del solito. Ma passi anche questo. Il fatto è che, al momento del pranzo, mentre ho messo la già poco invitante pietanza nel forno per riscaldarla (l’avevo cucinata la mattina presto), mi son messa a chiacchierare con l’amico, e raccontavo, raccontavo, raccontavo… e intanto il mio pranzo si abbrustoliva, bruciava, si carbonizzava ben bene. Quando me ne sono ricordata, era tutto bello nero! Era da piangere, ma francamente anche da ridere! E l’amico? Stoicamente, se l’è mangiato lo stesso, senza neanche togliere la parte superiore carbonizzata. La vera amicizia si vede anche da queste cose… Inoltre, confusa e mortificata com’ero per il pranzo bruciato, alla fine mi son pure dimenticata di offrire il mio “pezzo forte”: il caffè! Me ne sono ricordata alle diciotto, quando ormai l’amico era già in autostrada di ritorno a Verona – la sua città – col mio pranzo carbonizzato sullo stomaco.
A parte questo “piccolo” disguido, tutto il resto è andato benissimo: chiacchiere, tour guidato del quartiere Savena con camminata salutare, e sorrisi. Se passate da Bologna e vi va di venirmi a trovare, ditemelo pure; vi prometto che finché non imparerò a cucinare, ricorrerò alla vecchia fidata rosticceria sotto casa e i vostri palati saranno salvi.
Fatale errore
Pubblicato: 19 Maggio 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, figuracce 13 commentiHo mandato per sbaglio al mio gastroenterologo un sms sentimental-spiritoso-stupido rivolto in realtà a un mio amico che disgraziatamente nella rubrica del cellulare sta proprio sotto al mio medico (tra l’altro sono recidiva: mi era già successa una cosa del genere con l’idraulico).
Dov’è il cimitero, che vado a seppellirmi?
Io pensavo che tu pensassi…
Pubblicato: 17 marzo 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, figuracce, umorismo 10 commentiOggi ho avuto un diverbio col mio migliore amico; dopo mezzora che discutevamo ho cominciato a non capire più perché e su cosa stessimo litigando; e dire che ero anche parecchio agguerrita. Dopo un immediato stop della contesa e attenta analisi della stessa, è emerso che la discussione è nata perché – complice anche un’iniziale luna storta di entrambi i contendenti – ognuno presumeva che l’altro presumesse qualcosa su di lui/lei; solo che entrambi avevamo presunto male! Mai fidarsi delle proprie presunzioni se non dopo corretta verifica delle stesse.