Manchester by the Sea

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[Non ci sono spoiler. Chi avesse visto il film è pregato di comunicarmi se si trova concorde o meno con la mia interpretazione. Ho notato infatti che i recensori sia italiani sia americani danno in genere una lettura molto più pessimistica rispetto alla mia.]

Appena entrate in sala ci ha accolto la pubblicità di un’agenzia di onoranze funebri (non credo mi sia mai capitato prima in un cinema!), il che ci ha fatto sorridere. Dopo la visione del film quel preambolo pubblicitario è parso invece decisamente appropriato.
Manchester by the Sea è un film duro, quel classico film che girato in Italia diventerebbe un melodramma familiare mentre invece un solido retaggio puritano lo rende una tragedia misurata e intensa, puntellata tra l’altro da notevoli inserti di humour nero utilissimi ad allentare la tensione e mantenere il dramma nei ranghi di un accurato understatement.
È la storia di una lunga, cupa e infinita espiazione che però non impedisce al protagonista di restare in contatto con la vita e i sentimenti, quelli di un giovane che sta letteralmente sbocciando. Se infatti il protagonista, Lee, la cui vita è stata irrimediabilmente segnata da un evento terribile e da una colpa gravissima, condanna irrevocabilmente se stesso a un’esistenza senza più possibilità di gioia, significato o redenzione, è capace nonostante tutto di non trascinare altri in questo tunnel che riserva solo per sé.
Tornato nel paese d’origine a causa della morte del fratello e trovatosi inaspettatamente tutore del nipote sedicenne, Lee riuscirà a stare accanto al ragazzo, a prendersene cura ed essere un riferimento per lui fino a rispettarne la volontà e sistemare le cose affinché il nipote possa continuare a vivere in quel paesino affacciato sull’oceano nel quale è racchiusa tutta la sua vita e ogni cosa che gli è cara.

Ho trovato rappresentato in modo davvero convincente e toccante questo rapporto tra zio e nipote, che rappresenta l’unico tenace filo che non si spezza e tiene insieme una vita che per il resto è stata completamente stravolta e rimescolata dall’evento clou, interrotta ferocemente e spezzata in un prima e in un dopo. L’amore per il nipote (e la capacità di Lee di continuare a provarlo nonostante il gelo che per il resto avvolge la sua vita) è l’unica cosa presente in quel prima che resta in quel dopo.

La bellezza del film è data anche dal modo in cui la storia è raccontata, in particolare attraverso frequenti flashback, inserti efficaci che a poco a poco, tassello dopo tassello, illuminano la vita di Lee e aiutano lo spettatore a interpretare e capire le sue attuali scelte, il suo carattere, i suoi atteggiamenti, rendendolo sempre più umano, sempre più vicino.
Ho apprezzato molto la colonna sonora, che ho trovato in perfetta linea con il tono emotivo della narrazione, e spettacolare la fotografia, che sostiene e amplifica la recitazione degli attori e ti fa anche venire voglia di mollare tutto e partire per il New England.


Passione d’amore

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Dopo averlo riguardato stasera per l’ennesima volta, eccomi a scrivere di un film (Passione d’amore, di Ettore Scola) che esercita un influsso profondo su di me per lo stesso motivo espresso dal recensore del New York Times: “it’s a movie whose meanings creep up on you“. Ecco, mi è successo esattamente questo (un po’ come mi accadde per “L’uomo che uccise Liberty Valance”), è un film le cui risonanze sono cresciute a poco a poco in me, spingendomi a tornarci più volte, a riguardarlo prendendo appunti, a farlo mio. È un film che, la prima volta che ho iniziato a vederlo, mi è parso così noioso che ho fermato il dvd e fatto altre cose; un paio di giorni dopo però, con quelle poche scene viste che mi balenavano in testa, ci ho riprovato e da lì la passione di Fosca ha vampirizzato anche me. Nonostante il titolo, non vi è nulla di “sentimentale” nel senso di sdolcinato in questo film, anzi è una storia antiromantica per eccellenza, seppur d’amore. Una triste, “irragionevole” storia d’amore. Un film che parla dolorosamente anche di noi e del conformismo schiacciante dal quale siamo pressati oggi come allora.

È l’inverno del 1862 e Giorgio, bel capitano dell’esercito regio, reduce dalla battaglia dell’Aspromonte contro le truppe garibaldine, torna in Piemonte, dove si innamora di Clara, una donna sposata e seducente, interpretata da Laura Antonelli (qui nelle vesti di un personaggio, seppur sensuale, che non umilia in alcun modo l’attrice e che sarebbe stato bello ricordare alla sua morte al posto o almeno al fianco di altre interpretazioni, ma questa è un’altra – triste – storia).
Ben presto l’idillio romantico viene interrotto dal trasferimento di Giorgio presso un presidio militare montano, sempre in Piemonte e fisicamente non molto distante dalla bella Clara ma che in realtà pare davvero un altro mondo e ricorda un po’ la fortezza Bastiani di Buzzati, “un avamposto morto, una frontiera che si affaccia sul niente”.

“Noi qui viviamo in esilio, lontani dalla vita, dalle idee, da tutto”.

In questo luogo sperduto e desolato, in questo mondo di soli uomini, rappresentato come stupido, chiuso e ottuso, vi è una donna, Fosca, la cugina del colonnello, la cui iniziale assenza – rappresentata dalla sedia vuota a tavola – si manifesta fin da subito come una presenza che si farà sempre più opprimente e poi potente nella vita di Giorgio come nella nostra percezione di spettatori, fino ad allargarsi a dismisura e ad allagare tutto (il mio cuore certamente, che a volte nel guardare il film si scioglie perfino in qualche lacrima).

Il film è tutto giocato su contrasti, in onore anche dell’autore del romanzo dal quale il film è tratto, lo scapigliato Iginio Ugo Tarchetti. Clara è la donna bella, disponibile e appassionata secondo le convenzioni di un amore adulterino e pertanto autentico, come tradizione occidentale vuole; è l’amore ideale e prettamente romantico: i due si scambiano da lontani e si sussurrano da vicini le classiche frasi fatte (oggi diremmo “da Baci Perugina”), le parole d’amore più banali ma che a ogni innamorato paiono sempre nuove, si spendono in esercizi di stile autocompiaciuti su quanto sia profondo e nobile il loro amore (fino al “Tu sei la mia religione”). Fosca suona il pianoforte e ama leggere, è “colta, uno spirito delicato, sottile”, come la descrive il medico della guarnigione, ma è al tempo stesso una donna dallo spirito indomito e sfrontato, una donna esagerata, che non si vergogna di lasciarsi scuotere da tremende crisi isteriche di fronte a Giorgio, non teme di esporre la propria terribile fragilità né di umiliarsi per inseguire il suo desiderio e in questo è una di quelle donne che fanno paura perché fuori dagli schemi della ragionevolezza convenzionale (in questo caso, della ragionevolezza maschile rappresentata da Giorgio).

“Buona e mite, lei mi è cara; ironica e sprezzante mi è indifferente.”
“Glielo avevo detto, un giorno, che ho difetti imperdonabili in una donna, oltre alla bruttezza, s’intende. Mi dispiace per lei e per tutti: io non sono né buona né mite.”

Mentirei se dicessi che i modi in cui Fosca umilia se stessa per piacere a Giorgio non mi siano risultati, a una prima visione, decisamente indigesti, fastidiosi e insopportabili. Ma questo è un film che ti entra dentro lentamente, come si diceva all’inizio, nel quale nulla può essere liquidato in modo semplice anzi il rovesciamento è la chiave. Di fronte al ragionevole Giorgio, al quale risulta comodo e nobile intimarle: “Signora, sia più gelosa della sua dignità, non offenda il suo amor proprio!”, Fosca risponde a viso alto: “Ognuno si ama come più gli aggrada”. E così, a poco a poco, ho cominciato a capire Fosca. Il suo urlare ad alta voce e buttarsi per terra in preda alle sue crisi incurante della figura che fa, il suo attaccamento a Giorgio incurante dell’ostilità di lui, il suo portare avanti un proprio discorso e un proprio modo di essere, incurante delle reazioni altrui. Così alla fine, proprio come accade a Giorgio, anch’io amo Fosca, cioè la comprendo.

“Amo Fosca! È fuori dalle regole? È contro natura? Lei [rivolto al dottore che cerca di dissuaderlo] dice che ogni giorno dimentica qualcosa. Be’, oggi dimentichi il suo senso estetico!”.

E qui sta il punto. Fosca è brutta. Forse tutto le verrebbe perdonato se lei fosse bella; anzi se fosse nata bella probabilmente non avrebbe in sé tutti quei mali e quelle intemperanze. Fosca è brutta in una società che non può accettare e collocare in modo dignitoso la bruttezza femminile; e allora, in fin dei conti, non è Fosca poco dignitosa nel suo apparente umiliarsi, è la società in cui vive che lo è.

La chiave del film, amara e per nulla consolatoria, sta nel dialogo finale tra Giorgio e un avventore di una taverna, un nano, che non anticipo per non rovinare il film (vi assicuro che tutto ciò che ho scritto non compromette né rovina il godimento del film per chi non conoscendolo volesse vederlo).

Il film si conclude poi sui versi della poesia Memento, di Iginio Ugo Tarchetti, riadattati per attagliarsi alla musica:

“Vorrei dimenticare, dimenticarmi Amor, quel pensiero che getta un’ombra triste sul nostro amor.
Quando ti bacio, sul tuo bel viso vedo il tuo teschio gelido apparir.
E sul tuo bel seno il tuo scheletro apparir!
E quando accarezzo trepido il tuo bel corpo, Amor, quell’orrida visione m’agghiaccia il cuor”.

Anche se per il tempo di un’ora soltanto, di una notte, Giorgio e Fosca sono stati capaci di dimenticare quell’orrida visione e di immergersi soltanto in una fugace ma piena Bellezza. Questa è stata la loro ribellione, la loro affermazione di dignità che pagheranno a caro prezzo.


Bambini per sempre

Oggi ho visto un bambino di 120 anni. Tenuto stretto dal papà mentre in bilico sul tavolo sperimenta l’equilibrio avvolto in una vestina di pizzo bianco (lo avevo infatti scambiato per una bambina); seduto a tavola tra il papà e la mamma, imboccato insieme con affetto e veemenza; nel cortile di casa, tutto concentrato nel muovere i primi incerti passi. Sarà cresciuto, diventato un uomo; avrà avuto figli? Sarà stato un adulto felice? Qualunque cosa gli sia accaduta, ora non è più, eppure attraverso questo schermo davanti ai miei occhi è bambino per sempre.

Ecco i lieti pensieri che attraversavano la mia mente mentre mi aggiravo tra le sale della mostra “Lumière – L’invenzione del cinematografo”, seguendo la bravissima guida che con grande competenza ci ha accompagnato nell’avvincente percorso del cinema e delle sue origini.

La mostra si snoda su due livelli: quello tecnologico – vi sono tutti i marchingegni del cosiddetto Precinema, dalla Lanterna magica al Kinetoscopio di Edison passando per prassinoscopio e teatro ottico – e quello dei filmati con i loro contenuti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato davvero interessante potere toccare e utilizzare questi strumenti antenati del cinema moderno, con la commozione di constatare come da sempre gli uomini, che senza storie, racconti e immaginazione non possono vivere, abbiano cercato di creare immagini in movimento. È sempre emozionante, inoltre, constatare come nessuno inventa nulla dal nulla: le invenzioni che hanno segnato la nostra cultura sono sempre frutto di un percorso costituito dal contributo di molti e illuminato sì da qualche scintilla di genio, ma sempre debitore del contesto. La cosa più buffa è stata quando, aggirandomi tra gli svariati modelli di cineprese creati dai Lumière, tra esse ho notato una “cinepresa” che era uguale a una macchina da cucire, una di quelle portatili.

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“Una cinepresa a forma di macchina da cucire?”, mi sono detta, non volendo ammettere che quella fosse proprio una macchina da cucire. Dopo poco sento la guida spiegare che ormai all’epoca era chiaro a tutti che per creare la percezione del movimento occorreva che immagini simili si susseguissero velocemente ma come fare? A Louis (il più inventivo dei due Lumière) la soluzione decisiva fu ispirata osservando lavorare sua madre alla macchina da cucire: occorreva “cucire” le immagini tra loro. Nasce da qui il concetto della pellicola cinematografica, un nastro costituito da immagini “cucite” tra loro. Quindi quella che stavo osservando era proprio una macchina da cucire e nell’invenzione del cinematografo c’è pure lo zampino inconsapevole di mamma Lumière.

E a proposito di mamma, l’altro aspetto, come dicevo, è quello dei filmati: dal primo “film” (questi film duravano tutti pochi secondi), che mostra l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière a un tentativo di film comico (un ragazzino preme con un piede la canna con la quale un contadino sta innaffiando un orto, bloccando il flusso dell’acqua per poi rilasciarlo tutto d’un colpo) a film che mostrano cavalli, ciclisti, uomini alla moda… tra tutti spiccano i filmati di famiglia. E io osservandoli ritrovo un clima che conosco: sono scene felici di una famiglia numerosa e unita. La guida ci spiega che i Lumière erano progressisti per l’epoca: nei filmati mariti e mogli si divertono insieme, alla pari, giocano insieme; i padri sono affettuosi con i figli piccoli e giocano con loro, li imboccano, li sostengono nei primi passi. Io osservo questi volti sorridenti, queste persone ben vestite, e rivedo i vecchi filmati, girati proprio con la cinepresa, in cui la mia nonna, le sue sorelle e i fratelli, giovani, baldanzosi, si mostrano spensierati all’obiettivo. Filmati che a guardarli ora, col tempo che intanto ha portato via tutti, mi si spezza anche un po’ il cuore.

Le parole della guida tornano a catturare la mia attenzione di lettrice di romanzi per ragazzi quando raccontano un episodio vero della vita dei fratelli Lumière, che in quei romanzi ci starebbe benissimo: da ragazzini, Louis e Auguste rimasero intrappolati in una grotta che a causa dell’alta marea si stava inesorabilmente riempiendo d’acqua: terrorizzati, si promisero solennemente che se si fossero salvati sarebbero rimasti insieme per tutta la vita. E mantennero la promessa: non solo perché lavorarono sempre insieme, creando e inventando, ma vissero anche tutti nella stessa casa con le rispettive famiglie.

In una sala, negli schermi scorrono i film dei vari operatori che, formatisi alla scuola dei Lumière, andarono poi in giro per il mondo a effettuare riprese. Sono tanti ma in uno di questi una particolare scena colpisce la mia attenzione e mi si imprime nel cuore divenendo la mia preferita: in un villaggio dell’allora Indocina francese, Namo, una folla di bambini corre allegra verso l’obiettivo, quindi verso noi che guardiamo. Tra questi c’è un piccolo dal visino allegro; un ragazzino più grande gli si avvicina e gli dà un colpetto sulla nuca; il piccolo ci resta male, si cruccia, resta offeso. Con le manine a proteggere la parte toccata, resta fermo e teso mentre prima correva leggero. Poi passa un adulto che con delicatezza lo invita a riprendere il passo. Quante volte ‒ basta osservare dei bambini al parco o in cortile ‒ capita di osservare una scena identica a questa, con comportamenti e reazioni, espressioni e atteggiamenti perfettamente uguali? A dispetto della distanza di tempo e di spazio, io osservo l’infanzia nella sua essenza immutabile. E allora potrà avere anche 120 anni questo bambino (ne ha 117 perché il film è del 1900) ma è davvero un bambino per sempre.

L’autore del filmato è l’operatore Lumière Gabriel Veyre.

Pessimismo cosmico in prima serata

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Plaisir d’amour ne dure qu’un moment,
chagrin d’amour dure toute la vie.

Il film comincia e finisce con una fotografia di famiglia ma le persone in posa, tranne quella al centro che nella prima fotografia era un neonato e ora compie ottant’anni, sono cambiate perché generazioni sono passate, altre sono arrivate ma la Famiglia rimane.

Quando guardo questo film di Ettore Scola ‒ “La famiglia” – e lo guardo tutte le volte che viene trasmesso in tv, perché evidentemente mi piace, provo sempre quel po’ di tristezza, nostalgia, rassegnazione e nervosismo ma ogni volta distribuite in dosi diverse. Per esempio l’ultima volta avevano prevalso la tristezza e la malinconia e sul finale ero scoppiata a piangere come una povera derelitta. Stasera fino a un certo punto è stato il nervosismo a guidare la carretta delle emozioni: il nervoso nel vedere il protagonista (interpretato da Vittorio Gassman, sempre ottimo nel ruolo dell’antipatico) stare perennemente nel mezzo: non si espone mai in politica (mentre il fratello si arruola, va in guerra e tornerà menomato nella psiche e il cugino, sul fronte opposto, morirà volontario nella guerra di Spagna), non si espone nei sentimenti (sposa una donna, Beatrice, pur amando per tutta la vita la sorella di lei, con la quale però non è mai felice), domina silenziosamente tutti quelli che lo circondano e ha anche il coraggio di fare a tratti la vittima. Tuttavia verso la fine del film, durante l’ennesimo litigio con Adriana, la donna-mito amata/odiata, il nostro Carlo se ne esce con una grande verità, seppur detta alla donna sbagliata: e cioè che senza la moglie (che nel frattempo, poveretta, è pure morta) niente sarebbe stato costruito, non ci sarebbe stato niente di buono nella sua vita, niente famiglia, niente figli, niente affetti, niente equilibrio, solo vuoto ed egoismo. Nessuna Adriana, nessuna grande passione può essere più forte e autentica di quel che un matrimonio di anni (per quanto senza grandi emozioni) riesce a mettere in piedi. E infatti è grazie a queste unioni, felici o infelici che siano, che la famiglia (cioè il mondo) va avanti. È la forza della natura e della storia che prevale sul singolo, a meno che il singolo non sia così forte da resistere ma a rischio di condannarsi alla solitudine e all’isolamento, come osserva Adriana stessa.

E poi, perché mai resistere?

Adriana è cosciente di tutto ciò e vive con saggezza questo sentimento dal quale infatti sa tenere le distanze. Peccato vi siano tante “Adriana” molto meno risolute e più romanticamente ingenue, alle quali questo concetto non è affatto chiaro e che, inseguendo una felicità illusoria, si condannano da sole a un’infelicità molto concreta.

Resta il fatto che questo film, più lo vedo più lo trovo tremendamente pessimista. Non si salva niente e nessuno. Non c’è il buon Antonio di quel capolavoro che è “C’eravamo tanto amati” (lui, un uomo medio sì ma non mediocre e anzi l’unico che con la sua pragmatica dirittura si salva in quel contesto) né per contro la forza di vivere i sentimenti di un altro film di Scola che amo tanto e che si chiama “Passione d’amore” (tratto da “Fosca” di Iginio Ugo Tarchetti).
C’è solo un cupo corridoio nel quale si nasce, si vive di velleità e si viene spazzati inesorabilmente via mentre ci sarà sempre qualcun altro a prendere il nostro posto davanti a un obiettivo freddo e indifferente.


Happy Birthday, Clint!

Oggi Clint Eastwood, uno dei miei attori e registi preferiti in assoluto, compie 82 anni. Sta girando un nuovo film, auguriamoci di invecchiare come lui! Questo è lo spot per la Chrysler che il nostro Clint girò a febbraio scorso per la finale del Super Bowl. Fu chiacchierato ma a me già allora piacque moltissimo. E ora… lo posto come incoraggiamento per noi:

It’s our second half, Emilia Romagna (sì perché il terremoto ha colpito le province dell’Emilia ma ricordo al resto d’Italia che noi ci chiamiamo Emilia Romagna tutto insieme!!!) 🙂

Auguri Clint e GRAZIE per le emozioni, per la profondità, per come sei e per quella pistola che magari bastasse a difenderci da questo “sudicio mondo che ci sta crollando addosso”. *

* citazione da Sudden impact (“Coraggio… fatti ammazzare” in versione italiana).


Il sorpasso

Lo so, è assurdo; ma ho cominciato per ben due volte a guardare il film Il sorpasso e non riesco a reggere più di mezzora di film di seguito perché quel maledetto suono di quel maledettissimo clacson, che Gassman suona praticamente sempre, mi fa diventare letteralmente nevrastenica. Mi punge il cervello, mi fa friggere il sangue, mi fa fare dei salti sul divano, mi fa sobbalzare il cuore… mi innervosisce, OK??? Roba che durante la visione del film mi è squillato il telefono e io ho risposto un “pronto” così nervoso e infuriato che il povero malcapitato si è preso paura. Ma non lo trovate un suono insopportabile? Non a caso, mentre digitavo nel motorino di ricerca di You tube le parole “Il sorpasso” (proprio perché cercavo degli spezzoni in cui ci fosse il clacson, da mettere nel mio post per chi non conoscesse il film), tra i suggerimenti di “completamento frase” suggeriti da You Tube c’era proprio “il sorpasso clacson”! Sentite dunque che amabile suono percuoterà i vostri timpani per 102 minuti di film:

Il risultato è che sto guardando quel film a spezzoni di mezzora sparsi in momenti diversi della giornata, possibilmente in momenti in cui sono calma. Che nervi!!! Che poi… ora so che dirò un’eresia… ma anche mettendo da parte il clacson (cosa impossibile), c’è che a me Gassman come attore mi è antipaticissimo. Non so che farci, lo so che è un “mostro sacro” ma la mia è un’antipatia “a pelle”. Sarà che finora in tutti i film che ho visto con lui protagonista interpretava sempre personaggi insopportabili, boriosi, arroganti o cinici, disillusi… Ma per interpretare così bene tutti questi personaggi odiosi… sarà mica che ci aveva le physique e anche le caractère du rôle? E comunque, ultimamente me lo trovo dappertutto, anche perché sto guardando tantissimi film di Ettore Scola – eccezionali! – e lui c’è praticamente in tutti!

Piccola nota: ultimamente si è aggiunta un’ulteriore attività a quelle che già riempiono la mia piccola vita e sto cercando di prendere il nuovo ritmo; l’aggiornamento del blog ne risente parecchio ma conto che, una volta adattatami al nuovo andazzo, riuscirò a far rientrare nel mio tempo anche tutte quelle attività che al momento sto sacrificando. Se consideriamo che io non sono MAI stata brava a organizzare il mio tempo in modo ragionieristico, anzi sono una cultrice dei tempi morti che ti ammortizzano lo stress tra un’occupazione e un’altra – e al momento questi tempi morti mi sono letteralmente spariti da un giorno all’altro – direi che me la sto anche cavando bene. Cioè, sinceramente, conoscendomi, pensavo di arrivare esaurita già alla fine della prima settimana e invece sono qui tutta bella arzilla, quindi… mi complimento con me stessa!


Le magagne dell’uomo maturo ;-)

Oggi ho voglia di scrivere un post ma non ho mezza voglia di stare a ragionare e a strutturare il testo, quindi attenzione – allarme rosso! – perché mi sto accingendo a scrivere un post a ruota libera, che di solito, quando ne leggo nei blog altrui, trovo un genere di post potenzialmente noiosissimo; quindi se vi annoiate smettete pure di leggere e io non ve ne vorrò, anche perché insomma, alla fine questo è il mio blog e non posso stare sempre a preoccuparmi di non annoiare gli altri, giusto? 😉 Oggi voglio scrivere così, senza limiti di battute e per me stessa, perché questo posto, questo blog, era nato prima di tutto per contenere i miei pensieri; il renderli pubblici è solo perché boh, non si sa mai che possano tornare utili a qualcuno.

Bene. Cominciamo. Il fatto è che negli ultimi due giorni e mezzo sono stata aggredita da un leggero raffreddore e mal di gola e io, pur essendo – ve lo assicuro! – incontestabilmente femmina, quando mi ammalo sono come la maggior parte dei maschi: una vera palla! Non sono come quelle donne che, seppur malate, continuano a vivere le loro giornate come carri armati tenendo dietro a tutto e tutti e senza neanche un lamento; no, io sono come quegli uomini che se appena hanno una gola un po’ arrossata o due linee di febbre vanno in stato comatoso, si lagnano a oltranza e non sono in grado di muovere un dito. Che poi, in realtà, io non sono una donna-carro armato praticamente mai! Io non sono la tipica donna di cui si favella tanto al giorno d’oggi, la donna multitasking, quella che riesce a trasformare ogni giornata da 24 ore in una giornata da 50 ore, quella che fa dieci cose alla volta e poi se ne vanta sui blog o coi colleghi e va in depressione se si accorge che qualcuna è più multitasking di lei; no, io a queste donne di oggi in competizione per chi è più fessa efficiente dico: «Ok, prego, fate pure!». In realtà, se voglio o se sono costretta, riesco anch’io a trasformarmi in questi mezzi robot, come credo possa fare, peraltro, qualunque pirla, maschio o femmina che sia, all’occorrenza: per esempio, in situazioni di emergenza lavorativa mi trasformo – se ce n’è bisogno – in Super Ilaria, non mangio, non dormo e faccio tremila cose alla volta, come periodicamente succede, e ok. Poi però torno in modalità ordinaria e mi raccolgo nella mia modesta condizione. E appunto in tale modesta condizione versavo in questi giorni, mentre accoccolata sul divano mi dolevo dei miei mali di stagione. E devo dire che in questo intontimento da raffreddore, mi venivano a flash, come accade nel dormiveglia, delle bellissime idee per dei post, solo che, stando così male, mi costava troppa fatica scriverli, questi post; ma le idee me le sono tutte appuntate nel mio quadernino degli appunti e nei prossimi giorni saranno tradotte in altrettanti post. Leggi il seguito di questo post »


Io, Gene e la nefasta Nuvola Grigia

I love You, Gene

(il testo della canzone dedicata al mitico Gene lo trovate qui)

E dire che miriadi di sociologi e massmediologi ci avvertono da anni: la tv fa male. Ma noi continuiamo ad accenderla. Poi non lamentiamoci se ci vengono i traumi. Al limite sfoghiamoci con un post! Ebbene sì: stanotte ho passato una notte d’inferno per colpa di una tal Roberta Petrelluzzi, di cui fino a ieri sera non conoscevo neanche l’esistenza.

Ma procediamo con ordine: il 2 gennaio mi sono innamorata di Gene Hackman. Non è che prima non lo conoscessi, ovvio; ma non mi era mai scattata la scintilla. Per me, era un attore come tanti (sciocca e cieca che non ero altro; come ho potuto?!). Ma il 2 gennaio, appunto, ho preso in biblioteca uno dei pochi film di Woody Allen (che è il mio Mito Assoluto in campo cinematografico e non) che ancora non avevo visto: “Un’altra donna”; e in questo film ci sono un paio di scene d’amore – due semplici baci sulla bocca, niente di hard –  anche abbastanza rapide, con Gene Hackman e Gena Rowlands.

E così, mentre Gene baciava Gena – la quale, probabilmente già sotto l’influsso di Santa Cunegonda, osava resistergli perché doveva sposare un altro tipo, cosa di cui si sarebbe poi largamente pentita e allora, ma troppo tardi!, avrebbe rimpianto aspramente il buon Gene –, sì insomma, mentre Gene baciava Gena che gli resisteva, sono caduta innamorata io. Perdutamente.

Pertanto, da brava monomaniaca seriale quale sono, il passo successivo è stato fiondarmi – in preda ai languori ma anche a quella rigorosa e scientifica determinazione che comunque mi pertiene – su internet e, attraverso il sempre-sia-lodato catalogo Opac, individuare tutti i vhs/dvd con Gene Hackman presenti in tutte le biblioteche di Bologna e provincia. Dopodiché, montata in sella al mio fedele destriero e del tutto incurante delle incombenze cui avrei dovuto dedicarmi (del tipo leggere tre o quattro libri e impostare una ricerca importante cui devo lavorare), ho setacciato tutte le suddette biblioteche procurandomi buona parte del bottino ambìto che tuttora troneggia disposto in totemica pila sul tavolo del mio salotto. Ed è così partito il “ciclo Gene Hackman”: ogni sera un film. Ogni sera, dal 3 gennaio, dopo avere assolto durante il giorno ai miei doveri e dopo avere cenato, io mi spalmo comodamente sul mio divano, inserisco un dvd, spengo le luci in sala e mi godo due ore di Gene Hackman, passando imperturbabile da capolavori del cinema a filmetti di pura cassetta come se niente fosse; l’importante è che ci sia Gene.

Ieri sera era la volta de Il braccio violento della legge, bel film, soprattutto se vi piacciono gli inseguimenti-con-sparatorie-nella-Città-Violenta lunghi anche una ventina di minuti (a me piacciono parecchio, soprattutto se c’è un senso dietro) e i poliziotti tipo ispettore Callahan (qui in una variante ancor più sul tipo del dannatamente perduto), quelli che sembrano gli unici dotati di pistola & senso della giustizia – pur vissuto in modo ossessivo-compulsivo – nel bel mezzo di una melma anomica immane e senza confini costituita da tutti-gli-altri, dotati solo di pistola. Bel film, dicevo, ma adattamento italiano schifoso; due esempi tra tutti: invece di dire “Tu sei del Bronx” dicono “di Bronx” – più volte –, come se “Bronx” fosse un paese e non una circoscrizione di New York (nel 1971 qui nella provincia Italia non si sapeva cosa fosse il Bronx?). E il personaggio di Gene, che in lingua originale viene soprannominato nel film “Popeye”, nella versione italiana è chiamato “papà”. Cioè vi rendete conto? Da “Popeye” a “papà”! Ma che senso ha? Di solito, quando mi accorgo di tali scempi, metto il dvd in lingua originale con i sottotitoli italiani se solo in originale non riesco a seguire bene; ma questa era una videocassetta, quindi mi son tenuta l’adattamento pessimo.

Ma io non volevo scrivere un post su Gene Hackman. Io volevo dire che ieri sera quando il film è finito e stavo aspettando che la videocassetta si riavvolgesse, nel frattempo era rimasta la tv accesa, che era casualmente impostata su rai tre. E io – che quando finisco di vedere un film mi sento sempre un po’ stranita, un po’ in una dimensione a metà tra quella del film in cui ero calata e quella della dura realtà in cui vivo e a cui lentamente mi tocca tornare – me ne stavo lì sul divano ad aspettare la fine di questo riavvolgimento del vhs e non mi accorgevo bene delle immagini che nel frattempo mi passavano davanti sullo schermo; stavo ripensando infatti a quel tipo che nel film aveva ucciso un sacco di gente a caso e del tutto inutilmente perché poi Gene lo aveva raggiunto e giustiziato; e mi dolevo per queste morti inutili (tra cui una giovane mamma con passeggino) benché fossero solo comparse in un film; finché in questa nube filmica in cui restavo immersa hanno cominciato a trapelare le voci della realtà, nella fattispecie quella di una signora di una certa età e dai capelli a forma di nuvola grigia che vedresti bene a giocare a burraco con le amiche sorseggiando un tè e da cui mai ti aspetteresti invece di udire cose tipo: “Cadaveri dei genitori messi in due sacchi della spazzatura” né ti aspetteresti di vederti lampeggiare davanti agli occhi così, a tradimento, le fotografie di questi due sacchi con dentro due persone – due genitori – e subito dopo il primo piano del figlio ventenne sospettato di averli uccisi e inquadrato mentre è sotto processo. E la cosa sconvolgente è che, come in una sorta di reality giudiziario (della serie Il Grande Processo), veniva trasmesso il processo a questo ragazzo in una regolare aula di tribunale, solo che ogni volta che l’imputato o i vari testimoni, interrogati, pronunciavano la parola “sacchi della spazzatura”, il regista staccava e ti mandava in onda a mo’ di flash quei due sacchi della spazzatura con dentro due genitori, posizionati sul pavimento verde di una camera da letto ordinatissima. Ho cambiato subito canale a caso e i miei occhi sono stati aggrediti dagli sbrilluccichii di Milly Carlucci circondata da presunte Stelle ballerine. Ma Milly con la sua vocina ciarliera e squillante non è riuscita a tranquillizzarmi né l’orchestra che suonava la samba. Continuavo a vedere nel mio cervello quei due sacchi, alternati agli occhiali da vista del ragazzo presunto assassino, e al suo sguardo.

Andare a letto è stato un dramma… mi sono tornate tutte le paure che avevo da piccola e anche più avanti quando mi trovavo da sola in casa; ed era un’ora troppo tarda per chiamare qualcuno al telefono. Da un momento all’altro mi aspettavo di trovarmi davanti i fantasmi invendicati di quei due genitori, arrabbiati con me perché li avevo oltraggiati guardandoli in tv. In pratica ho tenuto accese tutte le luci e la radio mentre mi lavavo i denti e mi preparavo e poi, al momento di infilarmi nel letto, ho spento le luci e fatto una corsa sbattendo contro ogni spigolo come non mi succedeva più da tanto tempo. Lo sapevo che era irrazionale – non sono completamente folle – ma a me di notte la razionalità cade un po’. Di giorno sono coraggiosissima!

Ma dai, cretina! – mi dicevo – È da almeno tre sere che non fai altro che vedere morti ammazzati in tutte le salse; solo stasera ne hai visti a decine; ieri sera hai assistito a torture e alla distruzione di intere baracche di neri ammazzati nel Mississippi e la sera prima hai assistito ad altri brutali omicidi nel Pentagono e hai dormito sonni tranquillissimi, sereni e innamorati. Ora perché hai visto due sacchi della spazzatura con dentro due cadaveri devi farti venire tutto ‘sto patema che neanche a cinque anni d’età…?

Eh sì, sì. Tutti quei morti ammazzati nei film sono finzione; mentre quei due sacchi sono realtà. Inoltre la mancanza di rispetto con la quale quei due poveri genitori sono stati sbattuti (con fotografia di quando erano vivi – oltre che di quando erano morti –, nome, cognome, indirizzo e biografie) alla mercè di tutti in seconda serata per me è violenza pura, totale, incomprensibile (non capisco davvero che senso e utilità possa avere quella morbosa trasmissione, si chiama “Un giorno in pretura”). Ho anche pensato che ho passato l’adolescenza e non solo quella a guardare e leggere film e fumetti horror ma gli unici incubi che ho avuto e che ho sono quelli procuratimi dai telegiornali (dopo l’11 settembre ho sognato incendi per un mese, per non parlare di teste decapitate o degli incubi dopo le stragi compiute da psicopatici tipo Casseri).

E poi c’è chi condanna i film violenti. Ma datemi Gene Hackman e la Città Violenta tutta la vita, piuttosto!

[E d’ora in poi quando guardo un film, tv sempre impostata su Boing o rai Yo Yo, così non corro pericoli di traumi una volta spento il videoregistratore/lettore dvd!]


The lovely bones

the_lovely_bones05Dopo circa un anno di assenza dalle sale cinematografiche, la spettatrice Ilaria (nome d’arte: Flalia) ha fatto ieri la sua ricomparsa in un cinema bolognese, in compagnia di un misterioso accompagnatore. Come da copione, non appena il film è iniziato, la sensibile Flalia è scoppiata ripetutamente in lacrime e non ha smesso di lacrimare per circa due ore. All’uscita dal cinema, la nostra eroina, disidratata ma soddisfatta, ha sentenziato, ma con aria sognante: «Un regista europeo non si azzarderebbe mai a girare un film come questo sulla vita e sulla morte; un regista italiano, poi, ci saprebbe presentare solo cupi interni casalinghi con genitori in lacrime che si torturano psicologicamente per metà del film»; dopodiché è andata a bersi un tè per reintegrare i liquidi perduti.

Da: La gazzetta di Flalia, 19-02-2010


Ebbene sì, a me in teoria andare al cinema piacerebbe, e ci sono stati periodi di assidua frequentazione. Tale piacere ha cominciato a incrinarsi grazie a un fidanzato cinefilo, di quei cinefili che però non sanno gustarsi un film perché mentre lo vedono stanno già elaborando recensioni critiche particolarmente analitiche, e che a loro parere meriterebbero di essere pubblicate su qualche pregevole rivista d’élite anziché restare nella loro testa; non a caso, benché il suddetto cinefilo non tenesse in gran conto le mie opinioni sui vari film visti, si dichiarava tuttavia ammirato dalla mia capacità di immersione nel film stesso. Ed è proprio questo il mio problema col cinema: fatico ad andarci perché mi emoziono troppo, indipendentemente dal film in questione; quando la luce si spegne e partono le prime scene, sento subito la strana e inquietante sensazione di essere portata via; tutto quello che succede mi coinvolge completamente, non riesco ad avere distacco. E – che il film sia tragico o comico – quasi sempre piango. E piangere mi fa venire il mal di testa. Per cui diciamo che per me andare al cinema significa farmi venire il mal di testa, significa sapere che sentirò il cuore soffocato di lacrime e che verrò inondata di emozioni e sensazioni che mi centrifugheranno i neuroni. Inoltre l’idea di sedere per due ore o più ferma al buio in un ambiente chiuso mi angustia. Ecco perché solitamente preferisco guardare i film in dvd: perché tutto questo stravolgimento viene attutito. Però poi quando vinco il tabù e mi decido ad andare a vedere un film al cinema, difficilmente ne esco delusa. Col mal di testa sì, ma felice. Quindi… ieri ho deciso che ricomincerò ad andare al cinema spesso come un tempo, perché mi sono accorta che ultimamente faccio di tutto per evitare le mie emozioni, faccio fatica ad affrontarle anche nella scrittura, e questo non mi sembra giusto.

Devo ringraziare comunque il mio più caro amico, che ha insistito perché andassimo insieme a vedere “Amabili resti”, il film di Peter Jackson tratto dall’omonimo romanzo di Alice Sebold (che non ho letto). Mi è piaciuto molto; non sarà un capolavoro che resterà nella storia, e ad alcuni sembrerà grossolano; ma mi ha coinvolta. Alcune scene mi rimarranno sicuramente impresse; è un film fantastico e non realistico, anche se si svolge su due piani, quello fantastico e quello reale, – e questa distinzione è importante, perché se lo si legge come film realistico è ovvio fare obiezioni che però vanno al di là delle intenzioni del regista, secondo me – che mi ha ricordato per molti aspetti un film che ho molto amato: “Big fish”; non per la trama, ma per la carica simbolica che lo pervade e per la rappresentazione di una lunga elaborazione del lutto per la perdita di una persona cara; solo che in questo caso anche la persona morta deve elaborare, non diversamente dai vivi, il lutto per la propria morte. Sicuramente mi ha coinvolta anche perché ho molta paura e avversione verso la morte e perché ho recentemente subìto la perdita di persone molto care. Perdermi in quelle meravigliose immagini è stato catartico. Forse anche perché sono in fondo un’idealista che crede nei sentimenti puri e incorruttibili e mi piace chi, come in questo caso Jackson, non teme di sfidare quello che ad alcuni potrà sembrare il ridicolo, proponendo una visione grandiosa e potente, ma in fondo anche semplice e che va a toccare bisogni in noi elementari (il bisogno di distinguere chiaramente il bene e il male, il bisogno che il cattivo riceva una punizione divina, il bisogno di credere che ci sia qualcosa dopo la morte, il bisogno di credere nell’amore familiare). Posso dire che anche solo per la fotografia, tornerei subito a vederlo: sicuramente hanno contato moltissimo, nel farmelo piacere, la magniloquenza dei paesaggi, le scenografie, la luce usata, le citazioni figurative, quel senso di ampiezza, respiro e luminosità che soprattutto la dimensione “altra” (il limbo in cui si trova lo spirito della protagonista) trasmette. Veramente potente. Mi ha ricordato altri film; oltre al già citato “Big fish”, “American beauty” per l’ambientazione (il classico sobborgo americano dorato in apparenza) e sicuramente “Ghost”. È difficile parlare di un film senza citare le scene più significative, muoio dalla voglia di farlo, ma non voglio fare come Fabio Fazio che quando deve parlare di un film lo racconta tutto dall’inizio alla fine togliendo a chi ascolta il desiderio di andarlo a vedere.


La trappola del polpettone romantico

32015È da una settimana che ho un rovello… Dovete sapere che domenica scorsa, mentre ero nel vortice del trasloco, con mezza stanza ancora da inscatolare, a metà mattina mi sono ricordata che dovevo fare colazione. Ho preso il mio yogurt e acceso la tv. Ho l’abitudine di fare colazione di fronte alla tv; di solito all’ora in cui la faccio abitualmente c’è “La storia siamo noi”, che due volte su tre parla di Hitler e dei lager nazisti o di Stalin e delle epurazioni sovietiche o del Vietnam. Non un bel modo di iniziare la giornata.

Quel giorno non c’era Hitler ma un film d’amore, da poco iniziato. Trattavasi de “I ponti di Madison County”, che io non avevo mai visto. Sapete com’è con i film, cominci a guardarne cinque minuti ed ecco che già vuoi sapere come andrà a finire, anche se il film in questione non è esattamente nelle tue corde o se prevedi lo svolgimento della storia già dal primo fotogramma. E così, finita la colazione, ho inserito una videocassetta e fatto partire la registrazione del film, dopodiché sono tornata nel delirio degli scatoloni. Ma mentre ero lì che inscatolavo, nel mio cuore avevo la certezza che di lì a sera, grazie al mio fedele videoregistratore, qualunque cosa stesse succedendo in quel momento tra Robert (alias Clint Eastwood) e Francesca (alias Meryl Streep), io l’avrei saputa.

Così la sera, pronta a immergermi in un’appassionata love story, mi sono piazzata davanti alla tv e ho fatto partire il film. Tutto bene, mi immergo con adeguata sospensione dell’incredulità e comincio ad accettare senza battere ciglio qualunque cosa: il marito della protagonista con i figli parte per la fiera dell’Illinois e due secondi dopo che il furgone ha svoltato l’angolo appare casualmente davanti a casa Robert, fotografo vagabondo, che ha perso la strada; accetto che Francesca, anziché limitarsi a indicargli la direzione da prendere, ritenga più efficace accompagnarlo direttamente sul posto salendo con lui sul furgone (certo, a tutte noi verrebbe spontaneo salire sul furgone di uno sconosciuto per andare con lui nel punto più isolato e meno frequentato di tutto lo Iowa, dovendo poi dipendere da lui per essere riportate a casa); sopporto la recitazione della Streep che interpreta Francesca in modo troppo sguaiato e gesticolante per i miei gusti (forse perché la protagonista ha origini italiane?), metto agevolmente tra parentesi il fatto che sto parteggiando caldamente per un adulterio, mi sorbisco un andamento tremendamente lento del tutto ma finalmente, e grazie a tutto ciò, arrivo con la giusta preparazione per godermi la scena clou: Francesca prepara una bella cenetta romantica e si veste con un vestitino nuovo comprato per l’occasione, Robert la guarda intensamente e le dice con voce suadente che è bellissima, glielo ripete tre volte avvicinandosi pericolosamente, quella a ogni volta è lì sul punto di stramazzare e tra un «Sei bellissima» di qua e un «Oh, Robert…» di là, i due capitombolano nella passione. Che cosa meravigliosa. Solo che dura poco, ed ecco che parte il dramma. Francesca non se la sente di buttare tutto all’aria per lui, lui insiste, tutti sappiamo che in fondo non potrebbe durare e che però è crudele che finisca così, nel frattempo la disperazione accresce la passione fra i due e quindi ecco che comincio a sentire cedimenti emotivi, il cuore si stringe, mi viene la lacrima, parlo a voce alta rivolta alla tv («E dai, deciditi!», o «No, pure la collanina con le iniziali gli regala, a imperitura memoria!» e giù fiumi di lacrime). E in tutto questo, mentre ormai senza ritegno mi scioglievo in pianto all’ultimo suono di clacson del furgone di Robert che disperato abbandonava la scena, la videocassetta si è fermata e ha cominciato a riavviarsi.


Sì.

Avete capito bene.

Proprio al culmine del pathos, mi sono persa il finale.

Avevo inserito una videocassetta da due ore senza sapere che quel dannato melodramma ne durava tre.
Un «NOOOOO!!!» lancinante è risuonato in tutto il palazzo, turbando le digestioni postnatalizie dei vicini. Scavalcando scatoloni e pile di vestiti mi sono fiondata al pc precipitandomi su You Tube. Di solito You tube è la salvezza, in questi casi. Ma non stavolta; quella che su You tube viene spacciata come scena finale del film non è affatto il finale ma solo la scena della separazione tra i due. Dopo, a concludere il film e a dargli un senso, c’è un altro pezzo. Che io non conosco. Sono arrivata al punto in cui Francesca, dopo tipo ventanni e dopo che il marito è morto, riceve da Robert un pacco pieno di oggetti che ricordano il loro amore. Cosa significherà mai? Si riuniscono, ormai vecchi e incanutiti ma liberi di vivere in pace la loro antica passione (questo è il finale che vorrei)? Oppure lui è morto (questo è il finale che purtroppo temo)?

Ora, nell’attesa che riaprano le biblioteche (in cui potrò recuperare il dvd del film e vedere ‘sto agognato finale), la mia mente, involandosi da sé, ha potuto nel frattempo elaborare qualsiasi tipo di finale, dal più lieto al più straziante, dal più semplice al più arzigogolato. Se qualcuno sa qualcosa, me la anticipi pure, che non resisto più. E comunque ricordate di controllare sempre la durata dei film, anziché buttare dentro una videocassetta a caso: potreste pentirvene amaramente. 😉