Non finisce più

Non finisce più. Alle nove stamattina di nuovo la casa che sobbalza, cose che cadono, ancora il panico, ancora come topi in trappola. Le linee telefoniche non funzionano e quindi non si riesce ad avere notizie gli uni degli altri se non tramite internet. Questo rende il tutto ancora più angosciante rispetto alla volta scorsa. Non riuscire a comunicare e non avere notizie da persone che abitano nelle zone più colpite è tremendo, ed è attualmente il mio caso. Nuovi morti, nuovi crolli, nuovi sfollati. Si stava cercando di riorganizzarsi. E ora è tutto da rifare. Mi sento demoralizzata. L’unica cosa che dà coraggio è la solidarietà che si respira tra le persone comuni.


Punti di vista

E comunque, cercando di sorridere un po’, i tragici fatti di questi giorni hanno offerto alla mia famiglia un notevole ribaltamento di punti di vista. Dovete sapere che una decina di giorni fa mia sorella, dopo avere trascorso ben sette mesi qui a Bologna, si è trasferita a Nairobi, dove suo marito si trovava già dallo scorso settembre. Ovviamente, non appena ha prenotato il viaggio, a Nairobi c’è stato un attentato con morti e feriti a una chiesa durante una messa, con approfonditi articoli su quotidiani e tg che ci informavano che in questo periodo grandi quantità di esplosivo dalla Libia stanno raggiungendo Kenya e Nigeria per finire nelle mani dei gruppi integralisti e così via. A quel punto mia sorella è stata subissata di cori e suppliche di non partire da parte di tutta la famiglia, ma lei, testona dura, al grido di: “Se uno deve morire muore anche nel letto di casa mentre se non è il tuo momento possono anche spararti addosso ma sopravviverai!” si è involata decisa verso Nairobi. Bene. Da quando è partita, qui in Italia si sono susseguiti: una gambizzazione a Genova più vari segnali di rinascita del terrorismo sparsi qua e là; un attentato (di qualunque matrice sia) orribile e inaudito a una scuola a Brindisi; la nostra regione squassata dal terremoto. Quando domenica, ancora sconvolti dalla notte insonne, io e i miei genitori ci siamo ritrovati insieme per pranzo, abbiamo scoperto che tutti e tre, durante le scosse notturne, ci eravamo ritrovati a pensare: “Meno male che almeno Linda è al sicuro in Kenya!”. Come cambiano le prospettive…


Quando la terra trema

Ieri sera – alla faccia di tutti i forzati del “divertimento del sabato sera” – ero orgogliosamente a letto alle 23,30 in punto e avevo regolato la sveglia alle ore 8 di questa mattina. Non mi sembrava vero: finalmente avevo davanti a me otto ore e mezzo di meraviglioso sonno. Davvero un tesoro per me, di questi tempi.

Di ore ne ho dormite quattro e mezzo. Alle ore 4,04 infatti, sono stata svegliata di soprassalto e ho aperto gli occhi in un letto che sobbalzava, con un rumore vibrante di mobili che si spostavano, lo stenditoio che sbatteva contro l’armadio dentro il quale tutti gli attaccapanni tintinnavano scontrandosi tra loro. Era il terremoto; la scossa più forte e lunga che abbia mai sentito in tutta la mia vita. In quegli interminabili secondi che mi sono sembrati lunghissimi, ho avuto il tempo di: svegliarmi e realizzare che c’era il terremoto, chiedermi cosa fare, decidere di restare lì dov’ero fidandomi di chi, cinquant’anni fa, ha costruito il condominio nel quale abito (all’ultimo piano). A dirla tutta, se non sono scappata è stato anche perché a causa della scossa i miei occhiali sono caduti dal comodino; l’idea di cercarli per terra col pavimento sobbalzante mi ha indotto a restarmene più dignitosamente a letto finché la scossa non fosse passata. Per la prima volta ho sperimentato direttamente l’angoscia che un terremoto può provocare: improvvisamente ti senti un animalino spaurito, impotente e in balìa di una forza che non puoi controllare né prevedere. Avevo paura che il soffitto mi crollasse addosso e di non potere scappare (anche se razionalmente mi ritenevo al sicuro); una sensazione bruttissima.
E pensavo alla mia prof. di scienze del liceo: una volta ci disse che noi a Bologna possiamo stare tranquilli, riguardo al terremoto; perché, essendo la pianura padana una zona alluvionale, noi emiliani e lombardi non corriamo grossi rischi. Questa sua affermazione è entrata allora nella mia testa e vi si è appuntata come un dogma: nel corso degli ultimi anni in realtà ci sono stati ogni tanto dei piccoli terremoti (in effetti nessuno grave) ma questo dogma in me è rimasto, più radicato di tanti altri; e infatti tutte le volte che ho sentito delle scosse non mi sono spaventata; ma nessuna è mai stata forte come quella di stanotte. Perciò stanotte, subito dopo la scossa più forte, sono corsa in salotto e ho acceso la tv con la paura che da qualche parte in Italia si stesse verificando una tragedia, una nuova “L’Aquila”. Se la pianura padana non può essere l’epicentro di un terremoto, allora la scossa che sentiamo è il risentimento di qualche grosso terremoto altrove? Lo ha detto la Prof.! Ecco qual era la mia paura. Del resto, ricordo che mio padre mi ha sempre raccontato che quando nel 1976 c’è stato il terremoto in Friuli, anche a Bologna lo si sentì distintamente. In tv dicevano che l’epicentro era proprio qui, invece, tra Bologna e Ferrara. I miei amici erano tutti su twitter e facebook, lo sapevo. Ma sapevo anche che se avessi acceso il pc avrei passato tutto il resto della notte lì. Sono tornata a letto, ma non ho più dormito. Ho sentito altre scosse, più deboli, di “assestamento”, ma sempre abbastanza forti da far vibrare il letto e l’armadio. Ok, la gente normale in caso di scosse guarda il lampadario, io l’armadio! Ogni scossa mi faceva tornare l’ansia, non perché mi sentissi in un reale pericolo, ma come un qualcosa di atavico che si svegliava dentro me. Inoltre pensavo di nuovo agli abitanti de L’Aquila, ai loro racconti sullo stress che provavano prima del terremoto del 6 aprile, quando per mesi si svegliavano la notte a causa delle scosse. Solo adesso comprendo pienamente a quale stress si riferivano; l’idea di poter sentire scosse del genere ogni notte sarebbe davvero uno stress assoluto. Solo ora ho compreso pienamente quale angoscia un terremoto può indurre nelle persone.

Al mattino sono cominciate le telefonate e gli sms con amici e parenti. Tutti bene. A Ferrara e provincia un po’ meno. Alcune vittime, purtroppo. Anche alcuni monumenti storici rimasti danneggiati. Che dire… tra ieri (l’orribile attentato alla scuola di Brindisi) e oggi, questo weekend è fatto solo di angoscia e tensione. Bleah.

P.S.: devo dire che, come già notato in altre circostanze, in caso di disgrazie e calamità i social network come twitter e facebook sono utilissimi: ti danno la possibilità di capire subito cosa sta succedendo e se le persone che conosci stanno bene! Ecco, lo abbiamo constatato già più volte… non c’è bisogno di insistere con le disgrazie!!! 😉


Sarà strano pensare Bologna senza di te

Certe persone, ti sembra che non moriranno mai, o solo in un tempo molto lontano, distante dal tempo vero di tutti i giorni. Forse perché le vedi sempre cariche di vita, di progetti e di pensieri nuovi. Forse perché hanno l’età di tuo padre. Forse perché sono così vive che accostare loro la parola “morte” risulta davvero stridente. Forse perché te le trovi sempre davanti, e nelle orecchie, fin da prima che nascessi. E invece. Puoi morire anche se sei Lucio Dalla. Anche se dieci giorni fa eri a Sanremo, e poi a passeggiare come sempre nella tua città, e poi a tenere un concerto. È strano pensare Bologna senza di lui. Non dico altro perché dovrei dire troppo… sono un po’ sotto shock anche per come l’ho appreso, ho solo tutto un ammasso emergente di ricordi, di emozioni belle, di tristezza. E poi ci penserà la tv a straparlare.

Quindi niente, ciao Lucio, come si suol dire in questi casi. E GRAZIE. E speriamo che ci sia davvero un Paradiso, là.


Macchinina bianca

Cara macchinina bianca, sempre un po’ sporchina, vecchietta ma ligia al tuo dovere; e dal carattere allegro e positivo, poiché affrontavi chilometri e chilometri di autostrada più volte a settimana – e mi piace pensare che quelli che preferivi erano quelli verso Bologna, verso me –, ieri ci siamo viste per l’ultima volta e io non lo sapevo. Per l’ultima volta sono salita su di te salutando il tuo proprietario e partendo verso casa dei nostri amici, col nostro mah jong e la felicità di una ennesima bella serata davanti. E quando a fine serata mi hai lasciata davanti a casa, io ho indugiato un po’ per scrutare nel buio tra i sedili, nel posto-che-inghiotte-tutto, per controllare che non ci fosse scivolato niente, nessuna pedina o dado. E poi ho salutato il tuo proprietario, gli ho detto come al solito Chiamami quando arrivi a casa, resto sveglia!, ma pensando che quella preoccupazione si sarebbe rivelata come sempre inutile. E invece… non ti vedrò più. Giaci accartocciata presso un demolitore e tra un po’ più non sarai. Però sei stata grande. Fino all’ultimo hai fatto il tuo dovere, hai protetto quanto di più prezioso ho al mondo… il mio Migliore Amico; sacrificandoti tu, piccola utilitaria umile ma fiera, davanti al macchinone sportivo dai fanali a scomparsa che rapace ti ha aggredita. Ti ricorderò sempre quando, sotto casa, fissavo con impazienza ed eccitazione l’imbocco della strada aspettando il momento in cui ti avrei vista svoltare dalla via Emilia e avanzare verso me! Peccato solo che non ti ho scattato mai neanche una fotografia; credevo di avere tempo.


Io, Gene e la nefasta Nuvola Grigia

I love You, Gene

(il testo della canzone dedicata al mitico Gene lo trovate qui)

E dire che miriadi di sociologi e massmediologi ci avvertono da anni: la tv fa male. Ma noi continuiamo ad accenderla. Poi non lamentiamoci se ci vengono i traumi. Al limite sfoghiamoci con un post! Ebbene sì: stanotte ho passato una notte d’inferno per colpa di una tal Roberta Petrelluzzi, di cui fino a ieri sera non conoscevo neanche l’esistenza.

Ma procediamo con ordine: il 2 gennaio mi sono innamorata di Gene Hackman. Non è che prima non lo conoscessi, ovvio; ma non mi era mai scattata la scintilla. Per me, era un attore come tanti (sciocca e cieca che non ero altro; come ho potuto?!). Ma il 2 gennaio, appunto, ho preso in biblioteca uno dei pochi film di Woody Allen (che è il mio Mito Assoluto in campo cinematografico e non) che ancora non avevo visto: “Un’altra donna”; e in questo film ci sono un paio di scene d’amore – due semplici baci sulla bocca, niente di hard –  anche abbastanza rapide, con Gene Hackman e Gena Rowlands.

E così, mentre Gene baciava Gena – la quale, probabilmente già sotto l’influsso di Santa Cunegonda, osava resistergli perché doveva sposare un altro tipo, cosa di cui si sarebbe poi largamente pentita e allora, ma troppo tardi!, avrebbe rimpianto aspramente il buon Gene –, sì insomma, mentre Gene baciava Gena che gli resisteva, sono caduta innamorata io. Perdutamente.

Pertanto, da brava monomaniaca seriale quale sono, il passo successivo è stato fiondarmi – in preda ai languori ma anche a quella rigorosa e scientifica determinazione che comunque mi pertiene – su internet e, attraverso il sempre-sia-lodato catalogo Opac, individuare tutti i vhs/dvd con Gene Hackman presenti in tutte le biblioteche di Bologna e provincia. Dopodiché, montata in sella al mio fedele destriero e del tutto incurante delle incombenze cui avrei dovuto dedicarmi (del tipo leggere tre o quattro libri e impostare una ricerca importante cui devo lavorare), ho setacciato tutte le suddette biblioteche procurandomi buona parte del bottino ambìto che tuttora troneggia disposto in totemica pila sul tavolo del mio salotto. Ed è così partito il “ciclo Gene Hackman”: ogni sera un film. Ogni sera, dal 3 gennaio, dopo avere assolto durante il giorno ai miei doveri e dopo avere cenato, io mi spalmo comodamente sul mio divano, inserisco un dvd, spengo le luci in sala e mi godo due ore di Gene Hackman, passando imperturbabile da capolavori del cinema a filmetti di pura cassetta come se niente fosse; l’importante è che ci sia Gene.

Ieri sera era la volta de Il braccio violento della legge, bel film, soprattutto se vi piacciono gli inseguimenti-con-sparatorie-nella-Città-Violenta lunghi anche una ventina di minuti (a me piacciono parecchio, soprattutto se c’è un senso dietro) e i poliziotti tipo ispettore Callahan (qui in una variante ancor più sul tipo del dannatamente perduto), quelli che sembrano gli unici dotati di pistola & senso della giustizia – pur vissuto in modo ossessivo-compulsivo – nel bel mezzo di una melma anomica immane e senza confini costituita da tutti-gli-altri, dotati solo di pistola. Bel film, dicevo, ma adattamento italiano schifoso; due esempi tra tutti: invece di dire “Tu sei del Bronx” dicono “di Bronx” – più volte –, come se “Bronx” fosse un paese e non una circoscrizione di New York (nel 1971 qui nella provincia Italia non si sapeva cosa fosse il Bronx?). E il personaggio di Gene, che in lingua originale viene soprannominato nel film “Popeye”, nella versione italiana è chiamato “papà”. Cioè vi rendete conto? Da “Popeye” a “papà”! Ma che senso ha? Di solito, quando mi accorgo di tali scempi, metto il dvd in lingua originale con i sottotitoli italiani se solo in originale non riesco a seguire bene; ma questa era una videocassetta, quindi mi son tenuta l’adattamento pessimo.

Ma io non volevo scrivere un post su Gene Hackman. Io volevo dire che ieri sera quando il film è finito e stavo aspettando che la videocassetta si riavvolgesse, nel frattempo era rimasta la tv accesa, che era casualmente impostata su rai tre. E io – che quando finisco di vedere un film mi sento sempre un po’ stranita, un po’ in una dimensione a metà tra quella del film in cui ero calata e quella della dura realtà in cui vivo e a cui lentamente mi tocca tornare – me ne stavo lì sul divano ad aspettare la fine di questo riavvolgimento del vhs e non mi accorgevo bene delle immagini che nel frattempo mi passavano davanti sullo schermo; stavo ripensando infatti a quel tipo che nel film aveva ucciso un sacco di gente a caso e del tutto inutilmente perché poi Gene lo aveva raggiunto e giustiziato; e mi dolevo per queste morti inutili (tra cui una giovane mamma con passeggino) benché fossero solo comparse in un film; finché in questa nube filmica in cui restavo immersa hanno cominciato a trapelare le voci della realtà, nella fattispecie quella di una signora di una certa età e dai capelli a forma di nuvola grigia che vedresti bene a giocare a burraco con le amiche sorseggiando un tè e da cui mai ti aspetteresti invece di udire cose tipo: “Cadaveri dei genitori messi in due sacchi della spazzatura” né ti aspetteresti di vederti lampeggiare davanti agli occhi così, a tradimento, le fotografie di questi due sacchi con dentro due persone – due genitori – e subito dopo il primo piano del figlio ventenne sospettato di averli uccisi e inquadrato mentre è sotto processo. E la cosa sconvolgente è che, come in una sorta di reality giudiziario (della serie Il Grande Processo), veniva trasmesso il processo a questo ragazzo in una regolare aula di tribunale, solo che ogni volta che l’imputato o i vari testimoni, interrogati, pronunciavano la parola “sacchi della spazzatura”, il regista staccava e ti mandava in onda a mo’ di flash quei due sacchi della spazzatura con dentro due genitori, posizionati sul pavimento verde di una camera da letto ordinatissima. Ho cambiato subito canale a caso e i miei occhi sono stati aggrediti dagli sbrilluccichii di Milly Carlucci circondata da presunte Stelle ballerine. Ma Milly con la sua vocina ciarliera e squillante non è riuscita a tranquillizzarmi né l’orchestra che suonava la samba. Continuavo a vedere nel mio cervello quei due sacchi, alternati agli occhiali da vista del ragazzo presunto assassino, e al suo sguardo.

Andare a letto è stato un dramma… mi sono tornate tutte le paure che avevo da piccola e anche più avanti quando mi trovavo da sola in casa; ed era un’ora troppo tarda per chiamare qualcuno al telefono. Da un momento all’altro mi aspettavo di trovarmi davanti i fantasmi invendicati di quei due genitori, arrabbiati con me perché li avevo oltraggiati guardandoli in tv. In pratica ho tenuto accese tutte le luci e la radio mentre mi lavavo i denti e mi preparavo e poi, al momento di infilarmi nel letto, ho spento le luci e fatto una corsa sbattendo contro ogni spigolo come non mi succedeva più da tanto tempo. Lo sapevo che era irrazionale – non sono completamente folle – ma a me di notte la razionalità cade un po’. Di giorno sono coraggiosissima!

Ma dai, cretina! – mi dicevo – È da almeno tre sere che non fai altro che vedere morti ammazzati in tutte le salse; solo stasera ne hai visti a decine; ieri sera hai assistito a torture e alla distruzione di intere baracche di neri ammazzati nel Mississippi e la sera prima hai assistito ad altri brutali omicidi nel Pentagono e hai dormito sonni tranquillissimi, sereni e innamorati. Ora perché hai visto due sacchi della spazzatura con dentro due cadaveri devi farti venire tutto ‘sto patema che neanche a cinque anni d’età…?

Eh sì, sì. Tutti quei morti ammazzati nei film sono finzione; mentre quei due sacchi sono realtà. Inoltre la mancanza di rispetto con la quale quei due poveri genitori sono stati sbattuti (con fotografia di quando erano vivi – oltre che di quando erano morti –, nome, cognome, indirizzo e biografie) alla mercè di tutti in seconda serata per me è violenza pura, totale, incomprensibile (non capisco davvero che senso e utilità possa avere quella morbosa trasmissione, si chiama “Un giorno in pretura”). Ho anche pensato che ho passato l’adolescenza e non solo quella a guardare e leggere film e fumetti horror ma gli unici incubi che ho avuto e che ho sono quelli procuratimi dai telegiornali (dopo l’11 settembre ho sognato incendi per un mese, per non parlare di teste decapitate o degli incubi dopo le stragi compiute da psicopatici tipo Casseri).

E poi c’è chi condanna i film violenti. Ma datemi Gene Hackman e la Città Violenta tutta la vita, piuttosto!

[E d’ora in poi quando guardo un film, tv sempre impostata su Boing o rai Yo Yo, così non corro pericoli di traumi una volta spento il videoregistratore/lettore dvd!]


Il mostro in cantina

Oggi sono scesa in cantina per cercare uno zaino.
Ho sceso le scale, ho aperto la porta della cantina, ho rovistato tra le varie cose per una discreta quantità di tempo, ho preso lo zaino più qualche altro cimelio e sono tornata in casa.
Tutto normale, no?
Appunto!
Troppo normale.
Ho rimpianto il terrore che la discesa in cantina mi ha sempre ispirato fino a qualche anno fa.
E ora invece niente; neanche un brividino di passaggio.
Un po’ mi dispiace.

Era fantastico scendere gli scalini sentendo l’aria diventare man mano più fresca, vedere la porta che introduce nel corridoio stretto e odoroso sul quale si affacciano allineate le porte delle varie cantine, tenendo la mano pronta ad accendere l’interruttore della luce mentre le gambe scattavano per oltrepassare l’ingresso ed entrare nella mia cantina: una volta lì, pur sola e immersa nel silenzio, la paura cessava, per ritornare non appena chiudevo la porta e, veloce come un fulmine, mi precipitavo lungo il corridoio, oltre la porta comune, su per le scale, col fiato corto e sbattendo contro ogni spigolo disponibile: che goduria!


L’indirizzo ce l’ho… [rintracciarti è un gran problema…]

Sono reduce da un tremendo stress, adesso mi sfogo, così vi spiego anche come sia possibile peggiorare una situazione mentre si sta cercando di migliorarla… eh eh, io, modestamente, sono una specialista in questo genere di cose!

Dovete sapere che i membri della mia famiglia non sono accomunati da niente se non dall’affetto reciproco e da una profonda avversione verso l’automobile. Mia madre ha la patente ma non l’ha mai usata, mia sorella ce l’ha ma non guida quasi mai, io non ho la patente. L’unico motorizzato è mio padre, il quale però odia guidare e usa la macchina solo quando è assolutamente costretto. In pratica, l’automobile viene utilizzata per piccoli percorsi ben conosciuti (tipo per accompagnare mia madre alle visite mediche o al centro commerciale) e, una volta l’anno, per andare a Riccione.
Per tutti gli altri spostamenti vengono usate le gambe, la bicicletta e i mezzi pubblici. E viviamo benissimo.

MA… l’imprevisto può sempre capitare! E, quando capita, mio padre rischia il collasso, l’infarto e la morte sul colpo. Ecco perché di solito l’unica a infliggergli tali colpi è mia madre – con le sue pretese di essere accompagnata dappertutto – mentre io e mia sorella abbiamo pietà e ci organizziamo in altro modo, anche a costo di percorrere itinerari scomodissimi e arzigogolati con i mezzi pubblici nonostante in automobile impiegheremmo un terzo del tempo. Pur di non vedere mio padre strangolato dall’angoscia sono pronta a sacrificarmi (o a prendere la patente, incubo che prevedo di dover affrontare a breve).

Anche stavolta ho cercato in ogni modo di evitare il ricorso al mio povero genitore ma purtroppo non ci sono riuscita. Non sto tanto bene e ho dovuto prenotare con urgenza delle analisi del sangue. Pensate che in tutta Bologna e provincia non c’è posto fino al 12 maggio! Siamo tutti molto controllati a livello di salute, devo pensare… L’unico posto libero era mercoledì (dopodomani) a Bentivoglio, un paese della provincia. Messa alle strette, ho prenotato l’appuntamento, pensando: male che vada prenderò una corriera. Ma poi ho scoperto che le corriere passano a orari assurdi, e io mercoledì devo anche andare a Rimini, quindi era impossibile ricorrere alla corriera e perfino un amico che si era reso disponibile ad accompagnarmi ha scoperto di avere un impegno proprio mercoledì, quindi… mi son sentita morire.

Ho perso mezza mattina a trovare su internet tutti gli itinerari più facili e lineari per arrivare a Bentivoglio, dopodiché, armata di cartine, mappe stradali, satellitari e astrali, ho bussato allo studio del mio ignaro padre e, esordendo con un
– Papi, non preoccuparti, è tutto programmato e facilissimo! –, gli ho poi comunicato la ferale notizia.

Sbiancamento improvviso del volto, contrazione dei lineamenti in una maschera d’angoscia, espressione spersa all’idea che proprio io – la figlia che non lo mette mai in questi guai – lo gettassi in un simile incubo…

Superato lo shock, gli ho indicato, col dito sulla mappa e con mille spiegazioni dettagliate, il percorso nel modo più preciso e rassicurante; gli ho garantito che sarò un Secondo impeccabile, aguzzando la vista per individuare i cartelli direzionali a grande distanza (farò finta di non essere miope!) in modo da comunicargli con largo anticipo quando deve svoltare (perché fondamentalmente è questo il suo problema, quello di trovarsi sperduto in un dedalo di strade sconosciute a riflettere su dove svoltare mentre una fila di automobilisti impazienti strombazzano e lo mandano a quel paese per la sua indecisione); gli ho ricordato che io, al contrario di mia madre, non gli metto ansia, comprendo il suo blocco psicologico (è normalissimo avere un blocco psicologico!, ho garantito) e che se anche sbagliassimo strada o ci ritrovassimo ad affrontare trenta volte la stessa rotonda o a dover rientrare in tangenziale per dieci volte per non avere imbroccato l’uscita giusta non mi scomporrei minimamente, non ci sarebbe nessun problema, arriviamo quando arriviamo, non ci corre dietro nessuno… be’, alla fine mi sembra che si sia calmato. Sono io che ora sono ansiosa, agitata e angosciata! Tutto ciò mi ha messo in una situazione di stress incontrollabile e, stando già poco bene, lo stress è la prima cosa da evitare, nel mio caso. Quindi, col senno di poi, traggo la conclusione che sarebbe stato molto meglio pazientare e prenotare gli esami il 12 ma stando col cuore tranquillo, piuttosto che riuscire a fissarli presto ma creando tutto questo scombussolamento psicologico a mio padre, scombussolamento che, come un boomerang atomico, si è completamente ripercosso su di me perché mi è dispiaciuto averlo messo in ansia e perché lui mi ha trasmesso tutta quella tensione.

Bene, ora spero di calmarmi (e spero anche di arrivare mercoledì alle 8,15 all’ospedale di Bentivoglio… spero di non trascorrere quella mattina dispersa nella pianura padana con un padre fuori di testa rinchiusi nella nostra povera e innocente Punto).

Una cosa è certa: a mio padre occorrerebbe un navigatore satellitare, ma usando così poco l’automobile mi pare una spesa inutile, tuttavia, dopo questo episodio, ci faccio davvero un pensierino.

Voi avete qualche blocco psicologico? Vi auguro di no!


Profumo di felicità

Dato che due lavori in due città diverse (più studio e preparazione tesi) sono pochi, nella settimana appena trascorsa ho accettato di svolgere un terzo lavoro in una terza città (anzi, una repubblica) e così ho progettato e condotto una serie di laboratori di educazione ambientale (tema: il consumo critico) rivolti a classi di scuole elementari, in quel di San Marino. Ammetto che la molla principale che mi ha spinto ad accettare è stato il fatto che fossero ben pagati (con tutto il lavoro che ho non avevo davvero voglia di sobbarcarmi anche questo) ma ora che ho terminato (proprio ieri sera) devo dire che è stata un’esperienza molto bella e divertente. Trattandosi di laboratori (tra l’altro rivolti a persone così piccole e bisognose di concretezza), la parte più divertente era l’attività manuale finale. La prima parte era teorica: dopo avere introdotto il tema raccontando una storia, ricostruivo poi, tramite una presentazione in power point (preparata in una mia “sessione” di lavoro notturna due sabati fa…), le storie di vari prodotti che troviamo abitualmente sulle nostre tavole: cacao, caffè, zucchero e banane, cercando di coinvolgere i bambini con tante domande. Successivamente, recitavamo una specie di “gioco della spesa” nel quale, tra un frizzo e un lazzo, cercavo di calare me nei panni di consumatrice sprovveduta e i bambini in consumatori critici e avveduti (uno dei punti cardine del laboratorio era: ragazzi, gli adulti mostrano di saperne sempre una più di voi, e in molti casi è vero. Ma su questi temi ecologici, voi ne sapete più di tutti, perché anche solo ai miei tempi l’educazione ambientale non sapevamo neanche cosa fosse, figuriamoci ai tempi dei vostri genitori. Su queste cose siete voi che potete insegnare a loro. E allora dateci dentro e scatenate il puntiglioso rompiscatole che è in voi per una buona causa, una volta tanto!). E già qui ci divertivamo, a giudicare almeno dalla partecipazione dei bambini. Ma il bello cominciava solo dopo, quando con aria fintamente compìta, dopo avere riunito i mocciosi attorno a una tavola piena di tazze e piattini colmi di cacao in polvere e non, zucchero, grani di caffè eccetera, distribuivo a ognuno una mappa del mondo su cui dovevano incollare i vari alimenti nel paese di provenienza. Naturalmente era il classico pretesto per impiastricciarsi mani, bocca, vestiti e qualunque suppellettile su cui ci appoggiassimo.

Ci sono bambini così poco abituati a poter essere liberi di sporcarsi e sporcare creativamente che fanno quasi pena. Bambini che di fronte a una pagina su cui disegnare, appiccicare, creare, restano incerti e spaventati; altri, invece, si buttano a capofitto nell’avventura senza il timore di “fare bene” o “male”.
Io lo conosco il timore di sbagliare. Quel gelo sospeso che ti coglie quando pensi che ogni tuo piccolo gesto potrà deludere l’adulto di riferimento o potrà essere seccamente classificato come sbagliato.

Perciò, tutte le volte che devo organizzare laboratori o gestire situazioni educative per me è vitale che si respiri aria di libertà, divertimento e intraprendenza: non sai dov’è il Brasile? Azzarda! Se sbagli non succede niente! E vedi il piccolo timoroso fare forza su se stesso per esporsi e rischiare di sbagliare, e il più delle volte, tra l’altro, non sbaglia. O vedi il ragazzino che non riesce ad affondare la mano nella montagna di cacao che ha davanti perché non può sporcarsi e tu gli spieghi che è cacao, non è niente di grave, lo spingi ad assaggiarlo con la punta del dito, gli disegni i baffi o lo trasformi in un capo indiano con i suoi simboli tatuati in faccia e dopo un po’ ci si ritrova sorridenti e scatenati, tutti imbrattati di colla, zucchero e cioccolato, e alla fine però, dopo tutto questo, le mappe sono state realizzate, i bambini te le mostrano orgogliosi senza più chiedere se hanno fatto bene ma semplicemente per il gusto di mostrarti quant’è bella la loro cartina.

E così, dopo tutto, se ne andavano ognuno con la sua mappa (che in teoria dovrebbe ricordare loro da quali zone lontane del mondo provengono i prodotti che essi mangiano abitualmente e quale lungo viaggio devono compiere per arrivare sulle nostre tavole) e io restavo poi nell’aula allegramente devastata, a mettere in ordine. La sera, tornando a casa, in treno, mi portavo addosso profumo di cacao, zucchero, caffè, in pratica profumo di felicità.


Storia ridicola di una tragedia mancata

Ogni tanto mia madre, presa da golosità, si fa comprare dei cioccolatini che poi nasconde (queste sarebbero le sue intenzioni, vane perché il “nascondiglio” lo conosciamo tutti) in un mobiletto della cucina. Anche se, appunto, quello non può più essere considerato un nascondiglio, il messaggio è chiaro: le cibarie che vi si trovano sono sue (guai a chi le tocca).

Ora è accaduto che la settimana scorsa mia madre si sia fatta comprare dei meravigliosi e scioglievolissimi cioccolatini Lindor al latte, li abbia “nascosti” e sia poi partita alla volta di Piacenza, dove sarebbe rimasta almeno fino a domenica.

Nella casa vuota, seduta alla mia scrivania, cercavo di dimenticare la presenza dei succulenti cioccolatini.

Non sono per me, intimavo a me stessa. Eppure… vi sembra giusto che una madre di famiglia sia così egoista da togliere il cioccolato di bocca ai suoi cari? A me no! Forte di questa convinzione – prima scacciata dalla mente, in seguito pian piano osservata con distacco, infine accolta con arrendevolezza prima e con determinazione poi – mi sono diretta verso il mobiletto proibito, sentendomi pienamente legittimata a questo esproprio filial-proletario (i tempi son cambiati e questo è ciò che possiamo permetterci). In realtà più che un esproprio mi riproponevo una innocua sottrazione; Se mangio un solo cioccolatino, non se ne accorgerà neanche, pensavo. E così ho fatto. Fin qui, tutto bene.
Il giorno dopo, stessa storia. L’immagine del sacchetto di cioccolatini abbandonato in un triste mobiletto ha ricominciato a tentarmi. Ne ho mangiato un altro (se anche ne mangio un altro, non se ne accorgerà).
È andata così ogni giorno, finché ormai restavano troppo pochi cioccolatini per non accorgersi delle ripetute sottrazioni, cioè del furto.

Be’, ormai li finisco; – mi son detta saggiamente – gliene ricomprerò un altro sacchetto prima che torni.

Sabato pomeriggio – mia madre era già in treno sulla via del ritorno – tranquilla e serena mi sono avviata al supermercato del mio quartiere. Approdata nella corsia cioccolatosa con la sicurezza di chi sa il fatto suo, ho scorso con tranquillità l’invitante scaffale per tutta la sua lunghezza; l’ho scorso una seconda volta con un po’ meno tranquillità; l’ho scorso la terza volta con impazienza mista a inquietudine. Non l’ho scorso una quarta volta solo perché il panico, il terrore e l’angoscia mi avevano completamente paralizzata e il sorriso serafico di pochi secondi prima era ormai irrigidito in una smorfia straziata: dei cioccolatini che cercavo, nessuna traccia. Finiti.
Non potevo neanche prendermela con gli avidi saccheggiatori che me li avevano inconsapevolmente sottratti, data la bontà dei cioccolatini stessi.
Uscita dal supermercato mi figuravo nella mente l’immagine di mia madre che quella sera stessa, dopo cena e prima di ipnotizzarsi davanti al televisore, si sarebbe diretta verso il suo mobiletto provando quel vivificante brivido di golosità all’idea di mangiarsi il suo cioccolatino, avrebbe aperto lo sportello e… sarebbe stata la mia fine. Vedevo già i titoli sui giornali del giorno dopo:

Solare professoressa uccide figlia. Il raptus scatenato da futili motivi.

Mi restava una sola speranza; provare in un altro mini-market poco distante. Ma era una speranza davvero flebile e infatti, alla prova dei fatti, si rivelò vana.
Ormai diretta verso casa, un’illuminazione mi trafisse; forse avevo ancora una possibilità.
Sono entrata nella “Bottega del caffè” come un fuggitivo che spera di avere trovato la salvezza. Con un’incontrollabile espressione di panico in volto ho chiesto alla commessa, con voce rotta dall’angoscia, se avevano i preziosi cioccolatini.

Li avevano.

L i  a v e v a n o !

Sicuramente la commessa mi avrà scambiato per una pazza o per una poveretta affetta da golosità maniacale, da come mi ha guardato, ma credete me ne importasse qualcosa, in quel momento?
Tutto quello che ho fatto è stato stringere a me il prezioso sacchetto, avviarmi verso casa con un sorriso di beatitudine in volto e riporre i cioccolatini al loro posto nel mobiletto.
Quando la sera, come previsto, la loro legittima proprietaria si è avviata verso quel mobile e ne ha aperto lo sportello, ha trovato esattamente ciò che si aspettava. Naturalmente non ho potuto trattenere una risata e le ho raccontato tutto, il che le ha sollevato un po’ il morale (in questo periodo parecchio avvilito, e a ragione).
E così, anche questa è andata. Anzi, si è risolta perfino in una buona azione…