Provaci ancora, Ilaria

Post 28_2016In foto: un esempio di “coordinato di prodotti alimentari”, forse.

Mattina presto, centro città. Sto armeggiando, ancora parecchio assonnata, con la catena della bici per parcheggiarla quando vedo un giovane giapponese avvicinarsi. Pur in modo molto timido, sta puntando proprio me.

“Oddio, ‒ penso ‒ vorrà chiedermi un’informazione stradale. Chissà adesso dove lo manderò a finire, poveretto!”.
Invece capisco che quel che desidera è un’informazione sì, ma di carattere lessicale. Mi rilasso.
“Evvai, stavolta la so! È il mio campo!”, mi dico.

E invece no. Non la so mica tanto bene.

“Cos’è un coordinato?”, mi chiede lui, fiducioso.
“Mmh… un completo da uomo?”, azzardo dubbiosa.
“Un coordinato di prodotti alimentari”, scandisce lui leggendo dal suo iPhone.
“Eeehh… allora… vediamo… di solito si usa più come aggettivo… che sia un gergo tecnico? Fammi capire il contesto.”

Con le teste che si spostano in sincrono, chinate sul suo telefono, leggiamo insieme la frase incriminata mentre gli faccio scorrere avanti e indietro col dito “per capire meglio”.

“Traccia 1. Valutare un coordinato di prodotti alimentari al fine di nonmiricordopiù”.
“Mah, in italiano per coordinato si intende per esempio un insieme di diversi elementi che stanno bene, si intonano insieme o funzionano bene insieme”.
“Come un vaso e una bottiglia?”, prova lui.
“Mah, più come un vaso e un innaffiatoio magari della stessa linea; una caraffa e dei bicchieri; oppure come una pasta e un ragù; o il colore lilla col rosa, sono colori coordinati”.
“Lilla… cos’è lilla?”
“Eeh, no, proviamo con un colore più facile. Il rosso e… e… (e chi se ne intende di abbinamenti?)”
“Il nero e il blu?”
“No, nero e blu in teoria no, anche se ultimamente pare che gli stilisti abbiano cambiato idea e io concordo con loro. Nero e grigio, magari. Ma torniamo ai prodotti alimentari!”

Insomma, siamo giunti alla fondamentale nonché lapalissiana conclusione che un “coordinato di prodotti alimentari” sia un insieme di prodotti alimentari che stanno bene insieme.
Che poi, “prodotti alimentari”, è molto vago. Quindi, rimane quella sensazione di “boh”!

[Mia sorella, cui poi ho raccontato l’episodio, ipotizza che probabilmente ci sia di mezzo una delle tipiche cattive traduzioni di google translator o di uno di quei traduttori elettronici che i giapponesi (almeno, i suoi studenti giapponesi) usano costantemente… a meno che non si tratti davvero di un gergo alimentare]


Sensi di colpa

cerbiatto

Nonostante sia una ciclista non commetto quasi mai infrazioni: rispetto il rosso anche se devo svoltare a destra, non vado contromano né sotto i portici e così via. Ieri, avendo fretta, ho osato passare col rosso perché avevo la strada libera da un lato ma non calcolando che potevano arrivare automobilisti anche da un’altra direzione, come infatti è accaduto. L’autista del furgoncino che stava per investirmi è riuscito a inchiodare in tempo; notando che poi, anziché tirare dritto, accostava e si preparava a scendere arrabbiato (chissà che spavento gli ho fatto prendere) mi sono fermata anch’io e l’ho aspettato. Mentre, sceso lui dal furgoncino, mi si avvicinava baldanzoso, ho alzato le mani esclamando: “Ha ragione, ha ragione, scusi scusi scusi, ho sbagliato!”, guardandolo dritto con – credo – quelli che il mio prof. di lettere del ginnasio definiva “occhi da cerbiatto”. Mancava solo che mi prostrassi ai suoi piedi coprendomi il capo di cenere. Alla fine il risultato è stato che il senso di colpa è venuto a lui.

Il che, per analogia, mi ha fatto tornare in mente il seguente buffo episodio capitatomi parecchi anni fa: stavo attraversando un centro commerciale quando mi sono resa conto che probabilmente, rimettendolo dentro, mi era caduto il portafoglio dalla borsa; sono quelle situazioni in cui si verifica quel leggero scarto di pochi secondi tra quando una cosa succede e il momento in cui realizzi il fatto. Pochi secondi che in quel caso sono bastati perché il mio portafoglio sparisse. Voltandomi per tornare indietro e raccoglierlo ho visto un uomo che raccoglieva qualcosa da terra e la metteva in tasca, ma non potevo dire con certezza che fosse il mio portafoglio e non potevo accusarlo di avermelo rubato, anche se ero sicura lo avesse preso lui. Nel portafoglio avevo solo 10 euro e pazienza, ma avevo anche tutti i documenti, carta d’identità, badge dell’università, tessera sanitaria e chi più ne ha più ne metta. La sola idea di doverli rifare tutti ha sbaragliato in me qualunque esitazione e timidezza. Mi sono avvicinata all’uomo col mio sguardo più candido chiedendogli se per caso avesse trovato un portafoglio che mi era caduto e, avendo lui ovviamente risposto di no, ho cominciato a fargli una testa così sul fatto che era davvero una disdetta, che non era tanto per i soldi quanto per i documenti, che ero anche affezionata al portafoglio in sé perché era un regalo di mia nonna; sono stata tanto convincente che la sera, tornata a casa, ho trovato nella buchetta della posta il mio portafoglio corredato di tutti i miei preziosi documenti. Mancavano solo i 10 euro, che saranno equivalsi al buon uomo per la benzina consumata per arrivare fino a casa mia. Anche i ladri hanno un cuore.


I conti non tornano

Hourglass
Sì, lo so, non è il tempo a non tornare ma io che non sono una campionessa di organizzazione… Mi consolo con questo orologio Art Déco che ben rappresenta la mia lotta contro le Ore.

Leggo che con lo slogan Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire, “coniato in Australia nel 1855 e condiviso da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento” i lavoratori cominciarono a lottare per vedere riconosciuti i loro diritti, e mi piace ricordare tale motto oggi, primo maggio. Tuttavia, in cuor mio, mi sono sempre domandata e tuttora mi chiedo dove siano in realtà queste otto ore per lo svago (per tacere delle OTTO ore di sonno). Le otto ore che dovrebbero essere dedicate allo svago sono divorate da tutte le incombenze legate al vivere (cura di sé, della casa e della famiglia) ‒ alcune delle quali parecchio noiose ‒, agli spostamenti casa-lavoro e ritorno e agli imprevisti quotidiani che si aggiungono alle suddette incombenze.
Certo, ci spiegano le Maestrine del Saper Vivere, tutte queste cose se fatte con amore e intenzione riempiono di significato e sostanza la nostra vita; ma resta il fatto che per godermi un buon romanzo, scrivere, dedicarmi insomma alle mie passioni o concedermi quel po’ di vita sociale finisco spesso e volentieri per togliere ore al sonno, e allora le ore guadagnate allo svago vengono rubate a quelle del sonno. Insomma: i conti non tornano.


L’amara verità.

post 11a_2016(illustrazione di Gil Elvgren)

Il cellulare serve per essere chiamati quando si è fuori casa. Purtroppo io, quando sono in giro, se il telefono suona, sette volte su dieci non lo sento. Due volte su dieci lo sento ma non posso rispondere perché sono in bici in prossimità di una rotonda con un autobus che mi supera a sinistra e uno scooter che mi sorpassa a destra. Quell’unica volta che odo la suoneria e riesco a rispondere farò comunque fatica a sentire il mio interlocutore perché il mio smartphone naviga su internet anche nei sotterranei della biblioteca Salaborsa ma il volume delle telefonate è bassissimo. Quindi niente, al cellulare mi si trova di sicuro quando sono a casa e mi si potrebbe tranquillamente chiamare sul fisso.


Il dramma di un barista

caffe

Il mio barista qualche tempo fa, per voler essere alla moda, ha deciso anche lui di servire il cappuccino con un disegnino creato con la schiuma; in particolare, per le clienti, un cuore. Solo che non gli riusciva mai bene. Prova e riprova, un giorno che gli è uscito un cuore decente io che, un po’ per carattere un po’ per deformazione professionale, sono sempre portata a incoraggiare i progressi nell’apprendimento, gli ho detto sorridendo che il suo cappuccino era bello e buono (kalòs kai agathòs). Così ora si è convinto che a me interessi davvero questo disegnino e non si dà pace: anziché servirmi il mio cappuccino o caffè macchiato rapidamente, si ingegna e si incaponisce nel creare e cesellare cuori comunque asimmetrici e fiori sbilenchi. Inutile ripetergli che a me interessa solo che ci sia tanta buona schiuma… ormai il danno è fatto.


Visioni

edward-gorey(illustrazione di Edward Gorey)

China sulla bici mentre la sto parcheggiando, vedo un ragno sul manubrio e mi allontano d’istinto. Un uomo che sta passando di lì si avvicina e mi chiede se c’è qualcosa che non va.
– No, niente… – rispondo ostentando nonchalance – Be’, c’è un grosso ragno sul manubrio.-
– Un grosso ragno sul manubrio? Vediamo un po’! – esclama lui divertito.
Lo osservo chinarsi sul manubrio della mia bici ed ecco, prende il ragno in mano e me lo mostra.
Il “ragno” era un misto di fili leggeri lasciati sul manubrio dai miei guanti nuovi.

Mentre ringraziavo il mio gentile soccorritore pensavo a tutte le volte che siamo proprio convinti di avere visto, sentito o capito qualcosa quando invece era tutt’altro. E non sempre passa un buon Samaritano a illuminarci. Quanto è importante tenere le porte aperte al dubbio, perché anche quando siamo convinti di avere ragione potremmo avere torto (il che non toglie che invece magari abbiamo proprio ragione!).


Nostalgie 2.0

acer-aspire

(Sembra incredibile ma gli ho scritto una lettera e non gli ho scattato una fotografia!)

Ho trovato questa lettera scherzosa ma non troppo che qualche anno fa avevo scritto al mio vecchio portatile quando ho dovuto sostituirlo e niente, basta leggerla per capire per quale motivo non sono consumista. Perché mi affeziono! La posto qui intanto perché fa sorridere, poi perché tra le righe è condensata la nostra storia recente, in cui molti possono rispecchiarsi: da quando il computer era grosso, fisso e da condividere col resto della famiglia a quando è diventato uno strumento più agile, leggero e realmente personale, e soprattutto del quale non si può più fare a meno. Erano ancora tempi in cui per comprare un elettrodomestico si andava direttamente in negozio e non su Google a cercare opinioni! E infine ci siamo dentro anche noi blogger qui, con la nostra evoluzione. Tutto ciò mi fa sentire tanto una vecchia nonna. Di quelle 2.0, però.
In effetti, però, più che una lettera a un computer è una lettera alla Me che in quei nove anni era nel frattempo cresciuta.

“Caro Acer Aspire,
sei entrato nella mia vita nel lontano dicembre di nove anni fa e l’hai – almeno in parte – cambiata. Fino allora l’unico computer presente in casa era collocato nello studio di mio padre (all’epoca vivevo ancora coi miei) e lo utilizzava principalmente lui, per quasi tutto il giorno. Tranne quando mi serviva per studio o per lavoro, mi riducevo a poterlo usare per svago solo alcune sere, dovendolo dividere anche con mia sorella. Questo mi impediva di tenere un blog, per esempio. Lo desideravo e ci avevo provato, ma l’impossibilità di poterlo aggiornare quando mi era più comodo o quando mi sentivo ispirata era un grosso ostacolo. Ora sembra strano ma all’epoca scrivevo ancora prevalentemente a mano su quaderni e taccuini. Quando fu chiaro che, per esigenze di studio e lavoro, non potevo più fare a meno di un pc personale, arrivò il momento del nostro incontro. All’epoca non ero dipendente da google e dalle ricerche di mercato pre-acquisto-di-qualsiasi-cosa, pertanto io e mio padre un pomeriggio ci limitammo a salire in macchina e andare da Mediaworld con l’obiettivo di acquistare un pc portatile. Ci trovammo circondati da innumerevoli opzioni, persi in questo mondo per lo più ignoto. Al contrario di oggi non sapevo niente di marche, modelli, requisiti tecnici. Trovammo un commesso preparato e gentile che impiegò una buona mezzora del suo tempo per illustrarci le caratteristiche dei vari modelli e per suggerire l’acquisto migliore in base alle mie esigenze. Alla fine la scelta ricadde su di te. Eri allora l’ultimo modello, appena uscito, e costavi parecchio più della maggior parte degli altri ma mio padre, considerandolo un investimento, acconsentì a regalarmi proprio te. Tornati a casa, con timore quasi reverenziale ti ho appoggiato, ancora nella tua scatola, sul tavolo della sala. Il giorno dopo è arrivato il Tecnico del Computer, di cui oggi sono amica ma che allora mi sembrava depositario di sacri misteri, e col suo aiuto ti ho configurato. Windows mi ha chiesto di darti un nome e ti ho chiamato Emeraldas, come l’eroina di un manga di Leiji Matsumoto. Finalmente ti ho portato in camera mia e lì è iniziata la nostra avventura insieme, anche se in realtà la prima cosa che feci fu prendere il mio diario cartaceo e scrivere che avevo un pc tutto mio. La seconda cosa fu scrivere un post sul mio blog* che, per i motivi detti prima, esisteva già ma non era più aggiornato da quasi un anno. Da allora e per parecchio tempo, ho scritto un post al giorno e, potendo finalmente navigare quando e come mi pareva, ho conosciuto i miei blog-amici, con parecchi dei quali sono tuttora in contatto e con alcuni dei quali sono passata dall’amicizia virtuale a quella fisica.
Caro Acer, il blog mi ha aiutata tantissimo ed è stato possibile grazie a te. Ma non solo. Su di te ho scritto la mia tesi di laurea, nonché i miei primi articoli e tutti i testi di lavoro. Hai vissuto tutti i patemi della novellina alle prime armi nel mondo del lavoro. Inoltre contieni preziosi e romantici carteggi sentimentali, racconti e testi di diario che non avevo voglia di scrivere a mano, per non parlare delle fotografie che si sono accumulate nel tempo e che registrano fedelmente i cambiamenti intercorsi in questi lunghi anni. Per tutto questo tempo non mi hai mai dato un problema: mai un virus, una malattia, un inceppamento. Sei stato un compagno così fedele e leale che, quando nonostante tutto è giunta la tua ora, anziché morire all’improvviso come fanno molti tuoi colleghi, lasciando nel panico i loro proprietari che si trovano – non avendo improvvidamente salvato i dati – ad avere perso tutto, tu mi hai dato chiari segnali della tua prossima dipartita e ciò mi ha consentito di mettere al sicuro con tutta calma tutto ciò che negli anni avevo riposto in te e che intendevo conservare, nonché ovviamente di salvare i testi cui sto lavorando attualmente. E ora dobbiamo lasciarci. Ho tergiversato tanto ma alla fine ho ceduto; tu, ormai lento, rantolante e rumoroso, non riuscivi più a starmi dietro. A volte dovevo prenderti a pugni per zittire temporaneamente il lamento del tuo motore ormai stremato. Ora ho qui sulla mia scrivania il tuo successore: un Asus, abbastanza simile a te nell’aspetto, ma al quale devo ancora affezionarmi.
Ma non temere perché tu mi resterai nel cuore, caro vecchio Acer. Le emozioni collegate a te sono quelle di tante Prime Volte… e in queste prime volte c’eri sempre tu.

Grazie e addio, fedele compagno del mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta.

La tua affezionata e devota
Ilaria”

* Una prima versione di Ali d’Argento (non ricordo neanche più come si chiamasse) dalle cui ceneri è poi nato l’attuale “Ali”.


Così carina, così sequestrabile

Ieri pomeriggio camminavo tranquilla per strada, in centro, quando un uomo, col tono affabile da complimento, mi ha apostrofata così: “Stai attenta, ché così carina rischi di essere sequestrata”. Credo di averlo guardato con aria terrorizzata, poiché la mia mente aveva completamente trascurato il “carina” per concentrarsi sul “sequestrata” e – stordita dalla dissonanza cognitiva per cui capivo che mi era stato fatto (nelle intenzioni) un complimento ma che suonava malissimo – lo fissavo chiedendomi: che cavolo ha detto ‘sto qui? Mi ha augurato di venire sequestrata (e orrendamente torturata, poiché è evidente che si riferiva a questo orrore qui)? Mi sta minacciando di sequestrarmi?
Leggendo il terrore nel mio sguardo, l’uomo si è sentito in dovere di precisare: “Era solo per dire che sei bella”.
Per non fare la parte dell’altezzosa o quella della femminista rompiscatole e pedante che non sono, l’ho ringraziato ma, ridendo, a mo’ di battuta gli ho detto: “Be’, la prossima volta è meglio se si ferma alla prima parte del complimento, però, perché la seconda fa paura. Se proprio vuole fare un complimento a una sconosciuta.” Lui si è messo a ridere, mi ha dato ragione e io sono scappata ho proseguito il mio cammino.

Ma quel “complimento” mi è rimasto sul gozzo.

Mi sembra emergere da quello stesso clima violento, sessista e pervasivo al quale appartengono anche le accuse vomitevoli rivolte alla Boldrini (e attorno alle quali è emersa una polemica assurda – tra i cosiddetti difensori della libertà di parola e i suoi presunti censori; come se fosse questo il punto! – che evita accuratamente di entrare nel merito di quegli insulti); gli insulti e le battute a sfondo sessuale che capita costantemente di sentire tra adolescenti in giro, di leggere su internet o per es. alla radio; al quale appartengono le varie uscite razziste e omofobe che leggiamo quotidianamente sui giornali, a volte provenienti anche da uomini politici (vedi certi leghisti contro il ministro Kyenge); fino ad arrivare a ciò che sta dietro a veri e propri reati come gli assassinii di donne (fidanzate, mogli, amanti).

Cosa c’è nella mente di un uomo normalissimo che ascolta al tg un tremendo fatto di cronaca e lo utilizza per fare un complimento con – ne sono sicura – le migliori intenzioni?
In realtà a me sembra (magari però mi sbaglio perché ragiono da donna?) che è quasi come se mi avesse detto: sei bella e allora meriteresti di essere sequestrata (e incatenata e violentata, come le ragazze del fatto di cronaca). Per di più in quello scambio ho avuto come l’impressione che, nelle vesti e coi toni di un gentile dottor Jeckyll, in realtà un perverso Mr. Hide mi stesse comunicando le sue odiose fantasie. Mi è anche tornata in mente una battuta che la mia migliore amica pronunciava sempre quando, da adolescenti, uscivamo tra ragazze e magari qualcuna di noi, salutando le altre e dovendo tornare a casa da sola col buio, esprimeva qualche timore:
“Ma figurati… [brutta come sei] non corri nessun rischio, se incontri un violentatore è lui che scappa”. L’idea è un po’ la stessa al contrario, se ci pensate bene. Infatti, purtroppo, le prime a usare battute sessiste e denigratorie verso le donne sono, spesso, le donne stesse. A dimostrazione che è una questione di cultura in cui siamo immersi, non di genere sessuale di appartenenza. Francamente, non so come se ne esce. L’educazione, la scuola, le iniziative di vario tipo, certo; ma a volte ho l’impressione che siano gocce in mezzo a un mare di melma. E sappiate che sono in genere una tipa molto “sportiva”, abituata a battutacce di tutti i tipi, anche a causa dell’ambiente (un po’ maschilista) che frequento, e di cui rido allegramente; non sono una femminista e tantomeno una “paranoica”… Ma mi sembra che si stia un po’ passando il segno, su tante cose (penso anche al razzismo e all’omofobia dilaganti e in modo spavaldo). Se perfino una “tranquilla” come me comincia a preoccuparsi…


Un anno istruttivo

Rieccoci qui, con un calendario nuovo da sfogliare e un’agenda bianca da riempire. Ammetto che uno dei motivi per cui bramavo l’arrivo del 2013 era poter cominciare a usare la mia nuova agenda.

Nei 15 giorni di semi-vacanza che ci hanno traghettato dal vecchio al nuovo anno, mi sono goduta la vita, dividendomi equamente e gioiosamente tra amici, parenti, me stessa e quel po’ di lavoro che non manca mai. Se avessi saputo vivere l’anno passato con lo stesso equilibrio con cui ho vissuto nel suo ultimo mese, sarei stata la Regina dell’Anno. Invece, il mio bilancio non è positivo; o almeno, non lo è in apparenza. Avevo concluso il 2011 con botti e scoppi d’entusiasmo: sì, tutto era stato un successo, in quell’anno, tutto facile e positivo. Il 2012 è stato l’opposto: ogni conquista anche minima ha richiesto sforzi esagerati per essere compiuta e posso collezionare un bel po’ di errori e “fallimenti”. Non sono stata capace di raggiungere un paio di obiettivi importanti che avrei dovuto conseguire anche perché mi ero impegnata con altri – non solo con me stessa – a farlo e ho commesso un bel po’ di errori di valutazione in diversi campi. Tutto questo mi ha gettato nello sconforto soprattutto da settembre in avanti; mi sono trovata in un vicolo cieco ed è stato complicato perché anche analizzando la situazione – cosa che spesso aiuta a trovare soluzioni o a ridimensionare il problema – vedevo solo che a causa di miei errori ero a un punto di non ritorno; difficile trovare rimedi. Infatti non rimedierò. Ho ammesso l’errore ed errore resterà. Posso solo andare avanti senza riuscire a correggerlo o riuscendoci solo in parte. Ma ora, se devo dirla tutta, considero più istruttivo questo faticoso anno appena passato rispetto a quello trionfale che lo aveva preceduto. Il 2011 mi aveva entusiasmata svelando ai miei stessi occhi talenti che non sapevo di avere e una nuova sicurezza inaspettata; gli sono grata. Il 2012 mi ha insegnato, duramente ma efficacemente, quali sono i miei limiti e dove è meglio che indirizzi le mie capacità e la mia professionalità. Ora so che non posso accettare qualunque lavoro perché non so fare tutto e non ci si improvvisa. Ho anche capito che, accettando certi lavori, mi sono sacrificata troppo per simpatia o condiscendenza verso chi me li aveva proposti; e ho sbagliato. Questo 2013 inizia dunque all’insegna di questa nuova consapevolezza. Ora so che cosa voglio e posso fare e dove è meglio che non mi cimenti. Ho anche soffocato troppo la mia creatività dietro ai suddetti lavori accademici; il 2013 sarà anche l’anno della creatività.

Ma l’anno appena trascorso mi ha portato anche tante cose belle, davvero tante, anche lavorativamente parlando. Ne cito solo due e che non riguardano il lavoro, però; la prima e più importante: l’Amicizia. Amicizie del passato sempre forti e persistenti, amicizie recenti che si sono consolidate diventando sempre più profonde e nuove amicizie che mi riempiono le giornate e i pensieri di nuovi colori. Sono felice e grata! Nella mia vita la priorità assoluta la do ai rapporti umani; se da quel lato le cose vanno bene – se ho delle relazioni significative e stabili con altri; se mi sento bene nelle mie reti di relazioni e nei contesti in cui mi muovo; se gusto la ricchezza che solo l’incontro affettuoso con altri miei simili può darmi; se non mi sento sola – allora posso affrontare tutto il resto con serenità.
La seconda: quest’anno ho fatto nuove esperienze, ho imparato nuove cose, il nuovo non mi fa più paura, anzi, sono curiosa, mi butto sempre! Oltre alle nuove attività sportive, c’è una grande cosa che ho da poco imparato: ho imparato a cucinare. Chiaramente la cucina “basic” – quella di sopravvivenza – la praticavo già; ma ultimamente ho imparato a fare dolci e piatti più complessi. E sono brava! Io che mi sono sempre ritenuta negata per la cucina ho scoperto non solo che i piatti mi vengono bene ma – e non lo avrei mai detto! – che cucinare mi rilassa, mi diverte e mi soddisfa in pieno. Senza contare la gioia di offrire agli amici ciò che è stato cucinato da me (è stata questa la molla che mi ha spinto a imparare); ma al capitolo “cucina” dedicherò un intero post!

Per ora, vi auguro buon anno nuovo… ma non come una che si affida vagamente al Fato, bensì augurando che ognuno di noi riesca a impegnarsi a fondo e con serenità nelle varie dimensioni delle nostre vite in modo da rendere il 2013 un buon anno grazie a quel che è nelle nostre personali possibilità.


Amore in farmacia

Come non divertirsi in questa vita quando viviamo in una contraddizione infinita? E la contraddizione, l’ossimoro, i vari inciampi di questo mondo sono alla base del sense of humour, al quale sono stata iniziata da mio padre fin dalla nascita e di questo lo ringrazio, poiché altrimenti vivrei molto male. Questo è certo. No, perché, mettiamo che io non avessi questo senso dell’umorismo, per esempio. Se così fosse, come acciderbolina mi sarei sentita poco fa quando, prenotando alcuni esami un po’ delicati al tavolino del CUP in farmacia, mi sono trovata davanti un’impiegata dal tono di voce decisamente potente che elencava tutti gli affari miei singoli personali individuali e oserei dire intimi declamandoli a tutta la numerosa e varia clientela in attesa al bancone? Il massimo è stato quando, non contenta, poiché non sapeva un codice o che so io, ha preso il telefono per consultare un tipo alla sede centrale del CUP. E proprio mentre lei aspettava che il tipo rispondesse, io notavo un uomo sui quarant’anni, lungo lungo, magro magro e con la pettinatura da Beatle (nel senso del gruppo musicale, non di beetle, eh?) che, non si sa perché e con tutto lo spazio che aveva – metri e metri di pavimento tra lui e il resto della fila al banco – sostava al mio fianco, appollaiato a mo’ di avvoltoio esattamente al di sopra di me, che ero seduta e speravo che il tipo del CUP non rispondesse all’altro capo del filo. O che il Beatle si allontanasse. Una delle due, insomma. Invece il tipo ha risposto e così la farmacista è ripartita a elencare i miei casi; il Beatle, con questi occhiali da sole che gli davano un’aria da vero sbruffone, ascoltava e mi guardava; mentre io, dopo avere cercato invano di far capire all’impiegata che era più gentile non urlare, diventavo improvvisamente un Maestro Zen e visualizzavo me stessa in forma di ieratica e indifferente candela onde evitare di redermi colpevole di aggressione. Alla fine l’esame è stato prenotato… ad aprile 2013 (credo sia una strategia onde evitare che la gente arrivi viva a farsi visitare, in modo da alleggerire il SSN). E qui, io dico: ci rompono le scatole con la privacy; a scuola o all’università, ormai, per vedere i risultati di un esame devi sottostare a complicate procedure di riconoscimento onde evitare – non sia mai – che tu veda che Tizio è stato bocciato; siam sempre lì a firmare liberatorie, tra un po’ pure per andare a un bagno pubblico… e poi la nostra salute è sempre sbandierata davanti a tutti, perché il caso qui descritto capita di continuo, nelle farmacie, negli ospedali, ovunque, e anche per cose ben più gravi dei miei banali esami di routine (di cui pazienza se tutta una farmacia viene informata). Ecco la contraddizione, l’ossimoro, l’inciampo. Vi dico solo che tempo fa andai in ospedale a trovare un’amica che aveva subìto un piccolo intervento chirurgico e quando mi affacciai nella guardiola delle infermiere per chiedere il numero di stanza della mia amica (non: entrai; mi affacciai restando sulla soglia) vidi, scritto in rosso e sottolineato, su un foglio appeso appunto vicino alla porta, il nome della mia amica e accanto la scritta: HIV+. Questa secondo me era da denuncia. E ne avrei da raccontare ancora!

Comunque questa irritante storia ha un epilogo romantico: il nostro allampanato e ficcanaso Beatle, mentre io ero sempre al tavolino ad attendere di avere i miei fogli e poter scappare da lì, aveva nel frattempo acquistato quel che doveva al banco e, tornando verso l’uscita, mi ha superata e si è fermato proprio alle mie spalle (No, ancora???, ho lamentato dentro me); ma mentre io ricominciavo a innervosirmi, l’ho sentito dire Ciao, dopodiché una voce femminile lo ha salutato con tono distratto; era una farmacista che stava ordinando uno scaffale. Lui l’ha aggiornata (senza che lei lo avesse chiesto) sulle condizioni di salute della propria madre; l’impiegata che mi stava stampando la prenotazione nel frattempo ammiccava con eloquenza verso la collega, che immagino stesse ricambiando l’occhiata. Poi lui ha detto: “Sai, stanotte ti ho sognata”. Be’. A questo punto mi sono voltata io. A guardare lui. Così, per godermi la scena. Tanto, privacy per privacy… Il Beatle, benché lo guardassi (essendo seduta) da sotto in su, mi sembrava improvvisamente piccolo piccolo, gobbo gobbo, un fuscello al vento. E quell’aria sprezzante di prima non l’aveva più, ora che guardava la sua interlocutrice. La farmacista si è messa a ridere, ha esclamato: “Davvero?” e ha subito soggiunto: “Ora però ho da fare. Magari me lo racconti un’altra volta”. Lui si è voltato ed è uscito. Mentre la porta del negozio si chiudeva, l’impiegata del CUP, ridendo anche lei, esclamava: “Non ci posso credere, è proprio cotto!”. “Senza più ritegno, ormai. Voglio vedere fin dove arriva”, le confermava l’altra.

E mentre io raccoglievo finalmente le mie scartoffie, mi pervadeva quella sensazione – non triste – che ogni tanto mi prende: a volte siamo poco più che insetti di fronte all’Universo mondo, alla salute, all’amore. Così è la vita.