“Stoner”: un capolavoro

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Nei giorni scorsi ho letto un capolavoro, la cui lettura sono qui a consigliare a chiunque, senza cautele e senza distinguo.
È un romanzo che ha per protagonista una persona comune di cui racconta la vita dalla giovinezza alla vecchiaia.
– E perché dovrebbe interessarmi leggere la vita di una persona qualunque? – ha chiesto mia sorella mentre a tavola io e mio padre ci esaltavamo rievocando questo o quel passo.

Perché ogni vita, se osservata con attenzione, è degna di essere raccontata?
Perché la scrittura, quando è buona, rende degna di essere raccontata anche la vita più banale?
Ognuno trovi la propria risposta.

Personalmente ho divorato questo romanzo non riuscendo a smettere e vivendo come in apnea quelle ore di lavoro che mi separavano dalla ripresa della lettura; poi dopo averlo così divorato ho deciso di rileggerlo, stavolta per poterlo gustare con lentezza. Entrambe le letture mi hanno portato a sentirmi vicina al protagonista, a comprendere i suoi sentimenti, infine a commuovermi fino alle lacrime. Un po’ perché Stoner mi ricorda mio padre, che è anche la persona che mi ha suggerito di leggere questo libro.
Stoner è un agricoltore di Booneville, in Missouri, che a diciannove anni si iscrive all’università di agraria e all’università resterà per il resto della sua vita, grazie a una vera e propria epifania (già solo il modo in cui è raccontata vale la lettura del romanzo) che lo porterà a scoprire la potenza della letteratura inducendolo a diventare docente universitario di letteratura inglese. Il microcosmo dell’Università è descritto con a volte divertente a volte dolorosa precisione, sempre con partecipazione. Chiunque conosca quel mondo ne converrà. Nella vita di Stoner però ci sono anche la famiglia, l’amicizia, le tappe di una vita comune che si susseguono mentre lui resta saldo. Nonostante tutto. E da fuori, da lontano, giungono a intermittenza gli echi del mondo, della Storia che passa e arriva a lambire quel microcosmo (con le guerre mondiali, la crisi del ’29) ma senza stravolgerlo.
Non voglio raccontare troppo perché “guai allo spoiler”, dico solo che al di là della storia raccontata è anche la qualità della scrittura (pur letta in traduzione) a colpire, a esaltare. Una scrittura nitida, pulita, ma non fredda, una scrittura che segue il suo personaggio con amore. Quell’amore che lo stesso Stoner, forse inaspettatamente per il lettore, scopre in sé quando si trova a riflettere sulla propria vita. Quell’amore che descrive in un modo delicato, sereno ma anche struggente, lo sguardo di chi tramonta. E che fa bene al cuore, perché quello sguardo, in noi stessi e in chi amiamo, dobbiamo e dovremo affrontarlo volenti o nolenti.

Concludo con una considerazione perplessa. Dopo avere letto un romanzo che mi è piaciuto molto, lo ripercorro con la mente, medito e butto giù qualche considerazione personale. Poi cerco il confronto con altri lettori e se nessuno tra quelli che conosco personalmente lo ha letto, cerco qualche recensione o impressione su internet. In diverse di queste mi è capitato di vedere descritto Stoner come un personaggio arrendevole, debole, che si limita a subire il suo destino. A me pare invece lampante che Stoner sia un personaggio stoico, solido (come suggerisce il suo stesso cognome), che non si tira indietro. Mi pare anche che alcuni passi del romanzo vadano proprio nella direzione di suffragare questa mia impressione e lo facciano in modo anche parecchio esplicito.
Si tratta della stessa contraddizione che avevo notato a proposito dell’interpretazione del comportamento di un altro personaggio, il protagonista del film Manchester by the Sea, giudicato da me un uomo solido e amorevole e dai più freddo e indifferente.
Possibile che oggi lo stoicismo temperato dalla carità, un tempo atteggiamento quanto mai virtuoso e ammirevole, non venga più riconosciuto ma sia addirittura scambiato da molti per debolezza e freddezza, la tenacia e la saldezza morale confuse con la passività e la mediocrità di spirito?

 

[J. Williams, Stoner, Fazi, Roma 2012. Traduzione di Stefano Tummolini.
Il romanzo è stato pubblicato negli USA nel 1965 ma senza riscuotere particolare attenzione fino a che non è stato ristampato nel 2003, venendo riconosciuto negli USA e altrove come il gioiello letterario che è]


Una frusta da cucina

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Quando qualcuna mi trilla entusiasta su Il magico potere del riordino, quel manuale che insegna a fare ordine in casa desertificandola, io penso sempre che, per chi ha problemi di accumulo, ben più terapeutico di qualsiasi manuale è svuotare la casa di un parente morto. Non lo penso in modo cinico; lo penso in modo dispiaciuto e infatti ovviamente non lo auguro nessuno, anche se purtroppo è una di quelle cose che prima o poi possono capitare.
Questo collegamento mi scatta automaticamente in mente a causa di una delle esperienze più choccanti (probabilmente perché non mi aspettavo proprio, prima di viverla, di restarne così turbata) sostenute negli ultimi anni e cioè liberare la casa di mia nonna e mia zia – le mie amatissime nonna e (pro)zia – dopo la loro morte. Nella mia mente ingenua, pensavo che si trattasse di un’operazione pratica e che comunque non sarebbe stata più dolorosa della perdita delle persone care. Mi sbagliavo. Gli oggetti parlano delle persone che li hanno utilizzati, accumulati, amati. Gli oggetti stanno lì, fermi, solidi, impertinenti, mentre i loro proprietari non ci sono più. In quel vuoto gli oggetti piantano un urlo nel tuo cuore: Non è giusto! Con disperazione li guardi e ti accorgi che è proprio finita.

La cosa peggiore fu ritrovare in un cassetto tutti i biglietti e le cartoline che fin da piccole io e mia sorella avevamo scritto e inviato alla nonna e alla zia; da quelli in cui le nostre calligrafie infantili risultavano ancora buffe e tremolanti a quelli in cui eravamo ormai ragazze e scrivevamo pensieri più adulti ma sempre scherzosi e strabordanti d’amore. Ritrovarmeli in mano – come se tutto quello scrivere fosse stato perfettamente inutile e vano, come fossero tornati alla casella di partenza e in mezzo non ci fosse stato niente – è stato semplicemente orribile.

Non ho voluto condividere con nessuno dei miei familiari quello stato d’animo e quell’angoscia (e la prima volta che sono riuscita a parlarne con qualcuno è stata una settimana fa, perché sapevo che quel qualcuno stava per affrontare un’esperienza analoga) ma il risultato è stato che per parecchio tempo ho smesso di comprare oggetti che non fossero strettamente indispensabili e se qualcuno mi regalava un soprammobile o un souvenir, appoggiandolo su un ripiano il mio pensiero andava a tutti i ninnoli accumulati dalla nonna (ognuno aveva una storia che conoscevo) e alla fatica di chi resta e deve sgombrare la casa. In un attimo di follia ho perfino avuto la tentazione di buttare via tutti i miei preziosi diari ma per fortuna non l’ho fatto. Poi col tempo me ne sono fatta una ragione e ho capito che è un po’ stupido e anche inutile privarsi di quelle cose belle e magari anche superflue (con buona pace di Marie Kondo) che possono impreziosire la nostra casa e la nostra vita. Se dopo la mia morte a qualcuno toccherà trovarcisi in mezzo, be’, mi dispiace per lui ma c’est la vie.

Tuttavia, quando morì anche la mia seconda nonna e i miei genitori e mia sorella mi annunciarono che quella tal domenica sarebbero andati assieme agli altri zii e cugini a svuotare la casa, io decisi serenamente di non andare e me ne restai a casa mia.
Quel pomeriggio mia sorella mi telefonò:
“Sono a casa di nonna. Ci stiamo dividendo le sue cose… C’è qualcosa in particolare che vuoi prenda per te?”.
Sì, una cosa c’era; mi balzò subito alla mente. Non gioielli, abiti o argenteria. Una frusta da cucina. Quella frusta che, quando ero piccola, usavo come fosse un microfono quando giocavo dalla nonna con mia cugina. Ero una presentatrice televisiva, ero una cantante, ero un’astronauta intervistata al ritorno da un viaggio nello Spazio: il microfono era sempre quello.
Sì, avrei voluto quella frusta ed ero stata lì lì per dirlo a mia sorella. Ma poi, no. L’idea di ritrovarmela in mano e il timore di risentire lo sgomento provato tra gli oggetti dell’altra nonna mi fecero subito desistere dalla tentazione e risposi a mia sorella che no, grazie, non desideravo niente. In cuor mio però ero molto combattuta e anche un po’ pentita.
Il giorno dopo, il campanello di casa mia ha suonato. Era mia sorella. Strano, pensavo mentre aprivo la porta, di solito non viene mai senza prima avvisare.
Mi sono trovata di fronte mia sorella, sorridente, con la frusta di mia nonna in mano.
Non dimentico l’esplosione che in quel momento ha allargato il mio cuore: un botto di sorpresa perché mia sorella all’epoca era piccola e mai avrei pensato mi osservasse e ricordasse questi miei giochi; di gratitudine perché non solo si era ricordata ma, nonostante io le avessi detto che non volevo niente, ha preso proprio quella frusta e me l’ha portata; di amore, per lei, per mia nonna, per me, per tutti i momenti belli vissuti insieme. Quell’oggetto mi parlava sì di una persona amata che non c’era più ma attraverso una persona amata che capiva e sapeva.

Quella frusta ha trovato subito posto nella mia cucina. E il mio animo ha ritrovato la pace perché ha capito che il regalo più bello che le persone amate ci fanno sono i bei momenti vissuti insieme, che poi diventano nel futuro bellissimi ricordi, di cui anche gli oggetti possono parlarci; e che se hai anche qualcuno con cui condividerli, la gioia per le relazioni che hai vissuto è più forte del dolore per ciò che hai perso. Davvero, “forte come la morte è l’amore”, e anche di più.
La morte delle persone care continua a farmi paura ma gli oggetti e i ricordi non più.


Svuotare lo sguardo

post-32_2016The Slave Ship (1840)

I fisici lo chiamano processo di depressurizzazione. I filosofi, processo di epoché fenomenologica. Gli antropologi e gli storici parlano di straniamento: per entrare in un tempo che non è il nostro, occorre dismettere gli abiti che sono propri della nostra idea di razionalità, è necessario abbandonare le nostre categorie di certezza e di verità. Gli storici dell’arte, del resto, hanno ben presente l’esempio di William Turner: l’obbligo che imponeva ai visitatori che volevano accedere alla sua collezione privata. Prima di ammirare i suoi quadri, essi dovevano sostare per qualche minuto in un’anticamera completamente buia, in modo che i loro occhi potessero «riposare» e spogliarsi dei colori veduti fino ad allora. Che sostassero, che le loro retine si svuotassero dei consueti fasci luminosi, pronte così a essere inondate da masse di colori mai viste prima di allora e che descrivevano naufragi, collisioni di navi nella nebbia, tormente di neve, valanghe, incendi.

M.Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi, Torino 2011 (pp. 21-23)

Apprezzo questo comportamento di Turner; oltre a implicare una sorta di “pedagogia della bellezza e dello sguardo” ha in sé – e trasmette – la consapevolezza del valore della propria opera e della dignità del proprio lavoro. Quanto diverso da certi “spiattellamenti” odierni e aggressivi…
Anche se, a dire il vero, la potenza espressiva dei suoi quadri ti inonda, ti rattrappisce e ti schiaffeggia anche senza l’adozione di particolari riti; non dimenticherò mai l’impressione profonda e lancinante e lo stordimento che ho provato quando sono entrata svagata e chiacchierina nella sala della Tate Gallery a lui dedicata e per la prima in volta in vita mia mi sono trovata davanti le sue opere dal vivo. Giganti, maestose, vive, incombevano su di me quasi senza pietà togliendomi favella e respiro.

 

 

 


Visioni

edward-gorey(illustrazione di Edward Gorey)

China sulla bici mentre la sto parcheggiando, vedo un ragno sul manubrio e mi allontano d’istinto. Un uomo che sta passando di lì si avvicina e mi chiede se c’è qualcosa che non va.
– No, niente… – rispondo ostentando nonchalance – Be’, c’è un grosso ragno sul manubrio.-
– Un grosso ragno sul manubrio? Vediamo un po’! – esclama lui divertito.
Lo osservo chinarsi sul manubrio della mia bici ed ecco, prende il ragno in mano e me lo mostra.
Il “ragno” era un misto di fili leggeri lasciati sul manubrio dai miei guanti nuovi.

Mentre ringraziavo il mio gentile soccorritore pensavo a tutte le volte che siamo proprio convinti di avere visto, sentito o capito qualcosa quando invece era tutt’altro. E non sempre passa un buon Samaritano a illuminarci. Quanto è importante tenere le porte aperte al dubbio, perché anche quando siamo convinti di avere ragione potremmo avere torto (il che non toglie che invece magari abbiamo proprio ragione!).


Vivere strabici

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Mi capita spesso di pensare che probabilmente l’ideale sarebbe vivere un po’ strabici. Lo penso per esempio quando incappo nell’elogio della “felicità nelle piccole cose”, un vero evergreen anche nel mondo dei blog, soprattutto quelli femminili; che è giustissima, di per sé e, tutto sommato, anche se non ne faccio un Manifesto, nella pratica è anche alla base del mio personale modo di vivere. Però, se ci si ferma solo lì, diventa una gabbia, comoda e dorata ma sempre gabbia che ti isola dal mondo, dalla vita, dal tempo storico mentre ti chini solo su te stesso, sulla tua famiglia, nel chiuso del tuo piccolo mondo. Allora bisognerebbe essere strabici, e tenere un occhio ‒ e parte del cuore ‒ sulle piccole cose del presente per le quali essere grati ogni giorno e l’altro occhio ‒ e il resto di noi ‒ teso invece al fuori, all’Altro, a ciò che è grande e spesso anche triste, ingiusto, doloroso e a cui non restare indifferenti. Anche perché in molti modi, più di quanto non si pensi, possiamo fare qualcosa anche per quella Dimensione Grande. La Storia cammina anche sulle nostre gambe.


L’aria delle lontananze

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Due giornate di viaggio allontanano l’uomo dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai più di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. […] Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità.
(T. Mann, La montagna incantata)

Detto a modo mio: non ti accorgi di avere bisogno di una vacanza finché non sei in vacanza. Era da tre anni che restavo in città tutte le estati, convinta che non sarei stata meglio altrove. Poi, questo agosto, mi sono decisa ad andare a Pesaro, forzandomi enormemente. Solo una volta lì, a un certo punto, mi sono accorta di quanto mi sentissi rilassata, serena e vitale, di come anche i più stacanovisti hanno bisogno a un certo punto di cambiare spazio (almeno per un po’), perché vedere cose nuove o semplicemente diverse da quelle in cui sei immerso tutti i giorni è come dare una rinfrescata al cervello, anche se poi non sei neanche così lontano da casa. Il mio iniziale timore di “perdere tempo” è risultato completamente infondato: ho potuto leggere, scrivere, pensare, studiare molto meglio che nell’afa bolognese; ho camminato e pedalato, ho mangiato e dormito; mi sono goduta i miei momenti di preziosa solitudine ma ho anche trovato un piccolo amabile cenacolo di amici con cui ho potuto conversare e trascorrere ore libere e felici. E mi è sembrato assurdo, ripensandoci, avere passato le precedenti tre estati sempre inchiodata nel pure amabile cemento bolognese. Il mio amico P., quando sono tornata, mi prendeva in giro ridendo come un matto perché secondo lui sono tornata più entusiasta io da Pesaro che non un paio di suoi amici dalla Thailandia (è anche vero che l’entusiasmo non mi manca in generale). Insomma… ricordatevelo: non ti accorgi di avere bisogno di una vacanza finché non sei in vacanza. Anche solo due giorni, una piccola pausa. Per quanto mi riguarda, è bello sapere che anche in inverno, in qualunque momento, potrò “salire in carrozza” e andare a contemplare il mare, che fuori stagione è anche più rasserenante e romantico. Ma, intanto, sono tornata.


Amare sorprese

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(qui sopra: lo spirito di Ebenezer Scrooge che si è temporaneamente impossessato di me)

Ieri ho trovato due buste nella mia buchetta delle lettere. La prima che ho aperto era delle Poste e mi informava che – finalmente, dopo lunga attesa – è stato accreditato sul mio misero conto corrente il compenso per un lavoro terminato mesi fa, compenso che ormai pensavo non avrei mai più ricevuto; data la mia attuale situazione finanziaria, ho passato circa cinque minuti a esultare, ripetendomi ininterrottamente: “Ho avuto i miei soldi!”. Poi, tutta bella galvanizzata com’ero, ho aperto l’altra busta: ne è emersa una bolletta; una orribile bolletta del gas; una orribile bolletta del gas che pretende da me una cifra appena di poco inferiore a quella che solo cinque minuti prima mi aveva fatta esultare in modo fin troppo eclatante. “Doccia fredda” è un concetto troppo delicato per esprimere la brutale sensazione provata: mi sono sentita defraudata, come un bambino che riesce faticosamente a raggiungere un giocattolo tanto desiderato su uno scaffale e poi non appena ce l’ha in mano gli cade e si rompe, o un altro glielo porta via; defraudata come se l’universo mondo ce l’avesse con me. Per circa mezzora ho vissuto la mia vita in preda a questa sensazione, con la mente che rimuginava e mulinava ininterrottamente, pur sapendo che era del tutto irrazionale sentirsi così: in fondo, era stato solo un caso che bonifico e bolletta fossero arrivati insieme. Poi, eccolo: il Pensiero Soccorrevole, folgorante, ha lacerato il velo del risentimento e si è imposto alla mia mente in tutto il suo splendore: se io, che ho aperto le due buste in una successione del tutto casuale, avessi aperto prima quella della bolletta e poi quella del bonifico, la sensazione provata in quel caso sarebbe stata del tutto opposta a quella che stavo vivendo: anziché sentirmi defraudata, mi sarei sentita premiata. Come se l’universo mondo avesse un debole per me. Anche in questo caso tale impressione sarebbe stata del tutto irrazionale; dunque… perché prendermela tanto? Rasserenata da questa constatazione, mi sono messa il cuore in pace. Stamattina sono andata all’ufficio postale per pagare la malefica bolletta: chiuso per sciopero… eh eh eh (l’ottusa contentezza di potermi tenere stretti quei soldini ancora per un po’, mi ha fatta sentire molto Scrooge)! 


La gioia del perdono [Ohibò, cosa m’è capitato]

Che felicità! Oggi ho vissuto un’esperienza meravigliosa, quasi mistica: forse per la prima volta in vita mia ho capito cosa significa veramente perdonare. Il mio cuore ha fatto un saltino più su! E ho pensato di raccontarla qui non per vantarmi ma perché magari può essere utile a qualcuno.

Allora, cominciamo col dire che ho sempre creduto di sapere già cos’è il perdono, perché io, per carattere, non me la prendo mai, per es., per qualche torto subìto, non coltivo rancore e di fronte a un’offesa o a un danno ricevuti sono abituata a trovare le cause del comportamento offensivo (es.: la persona è nervosa per i fatti suoi, ha avuto una giornataccia, ragiona in modo diverso dal mio, mi ha fraintesa ecc.) in modo da agire sulle cause senza buttarla sul personale. Cerco di addormentarmi la sera non prima di essermi chiarita e riconciliata con le persone con cui ho eventualmente avuto un dissidio durante il giorno e, una volta raggiunto l’accordo, tendo a dimenticare la cosa e guardo avanti. Ed ero convinta che questo (cioè l’assenza di rabbia e di rivalsa) fosse già perdonare, per cui mi sentivo abbastanza “a posto”, da questo punto di vista.

Ma oggi ho capito che questa è solo una parte del perdono.

Ieri ho avuto una pessima giornata. Mio padre era nel panico per dei problemi al computer (di cui io sono la risolutrice ufficiale); mia sorella, che da Nairobi deve tornare a Londra (dove ora vive) riuscendo a portare con sé finalmente il fidanzato (ottenuti tutti i visti possibili e immaginabili, perché un keniano, per riuscire ad approdare in Gran Bretagna, deve superare delle barriere pazzesche), non riusciva a fare il biglietto per lui e ho dovuto risolvere io la cosa da qui. Vi dico solo che c’è stato un momento in cui avevo due telefoni (uno all’orecchio destro, l’altro al sinistro) e parlavo contemporaneamente con padre e sorella cercando di calmarli e di ragionare sul da farsi! Nel frattempo, ero indietrissimo con lo studio. E in tutto ciò, ecco mia madre che, molto nervosa per dei problemi che ha a scuola, aggrediva (verbalmente) chiunque le capitasse a tiro. Io sono il suo parafulmine personale da sempre. Le sono sempre stata antipatica, non mi ha mai amata. Quindi di fronte alla sua rabbia – che, anche quando non causata da me, si ritorce principalmente contro di me e poi contro mio padre, e questo anche negli anni in cui ho vissuto fuori casa – mi sento completamente inerme. Non so reagire come faccio con chiunque altro, cercando di ragionare e parlando, perché tutte le volte che ci provo peggioro le cose, dato che non sono in gioco questioni oggettive ma emotive. Non riesco neanche a consolarmi trovando giustificazioni, cioè le vedo e non mi arrabbio con lei, ma questo non mi impedisce di soffrire. Perciò, anche ieri, senza neanche risponderle, la mia unica reazione è stata di andare in camera mia e mettermi a piangere (“grande” reazione, eh? Purtroppo sono fatta così, un piantino lo devo fare). E da lì è cominciato il mio inferno personale, durato tutta stanotte e tutta stamattina. Cercavo di ragionare, dicendomi: Perché devo sentirmi così angosciata per l’aggressività di una persona che si stava solo sfogando? L’importante è che l’ho perdonata, no? Non sono arrabbiata, e questo è bene, ma non è giusto starci così male! Non posso lasciare che una singola persona, che ha una visione del mondo tutta sua, condizioni in tal modo la mia vita. Non è logico. Non ha senso agitarmi, dato che stavolta non ho nessuna colpa (a parte il fatto di esistere). Ma tutti questi argomenti, per quanto ragionevoli, non riuscivano a convincere il mio cuore a battere normalmente né il mio stomaco e la mia testa a rilassarsi e distendersi anziché stare lì tesi contorti e pungenti, come coltelli nel mio corpo.

Finché a un certo punto, la rivelazione: perdonare non è solo non arrabbiarsi e condonare all’altro il torto; perdonare è amare, andare oltre, lasciar andare, fare un salto. Mi sono resa conto che finché continuavo a soffrire per quell’episodio, continuavo a restarvi spiritualmente legata e incatenata, e dunque a patirlo, a subirlo all’infinito. Perciò continuavo a risentirne, la mia mente restava collegata a mia madre come termine negativo; non conta che non provassi astio verso di lei o che riuscissi a giustificarla, era come se quell’astio si fosse trasformato in sofferenza che riversavo contro di me. Quindi né io né lei eravamo state realmente liberate da un vero perdono. E mi sono resa anche conto che io, quindi, non ho mai veramente perdonato mia madre nonostante ne fossi ogni volta convinta. Perché pur sentendo di volerle bene non ho mai smesso di soffrire per l’esserne stata tanto spesso respinta. Comunque, quando mi sono resa conto di ciò, e cioè che perdonare significa non solo non serbare rancore ma soprattutto cessare di soffrire per il male subìto, e finché non si riesce a liberarsi del sentimento negativo (rabbia verso l’altro o sofferenza nei propri confronti è uguale, sempre violenza è) non si ha realmente perdonato a chi ci ha fatto male ma si è ancora invischiati in quel male e dunque non perdonare è anche fare del male a se stessi, ho provato un desiderio così puro di sollevarmi da quella palude, una tale voglia di liberare il mio cuore e la figura di mia madre da tutta questa angoscia così appiccicosa e opprimente che, quasi di colpo, ci sono riuscita. È stata una sensazione fisica e spirituale insieme: diventando consapevole di quel che ho detto (ed è una pappardella, a leggerlo, ma a me è bastato un secondo per coglierlo, come una rivelazione improvvisa) e sentendo che volevo amare ed essere libera, tutto il mio corpo si è rilassato, il cuore si è calmato e come svuotato di tutto quel dolore; ho sentito che non solo non soffrivo più per l’episodio di ieri ma che desideravo semplicemente stare in pace e basta, e ho provato amore, anche per mia madre, al di là di ogni considerazione.
Purtroppo non riesco a spiegarmi ma è come un piccolo salto, logico, emotivo, spirituale che ti porta a essere felice e a sentire che ti sei davvero liberato di quella cosa specifica che ti faceva soffrire, perché c’è un amore che va oltre il dolore, e noi ne siamo capaci. Siamo capaci di provare questo amore. E il vero perdono, secondo me, è questo. Non solo il gesto di condonare un torto (perdono “al negativo”), ma quello di rivestire di benevolenza quella stessa persona che te lo ha fatto. Semplicemente perché la felicità e la libertà del cuore stanno nel lasciar andare via le cose brutte senza patirle (e quindi senza essere schiavi della realtà o degli altri che te le impongono) e nel cogliere quelle belle.*

Mi rendo conto che, detta così, suona come un predicozzo pseudoevangelico, ma per me è stata un’esperienza concreta, non una teorizzazione astratta. A scriverla, però, se ne perde l’immediatezza e forse la verità. Be’, io oggi sono riuscita a perdonare un torto circoscritto. Facendolo, ho provato una gioia indescrivibile, mi è sembrato per un attimo di volare. Ho provato uno stato di beatitudine che forse è quello stato in cui vivono e sono vissute in modo permanente le grandi persone Buone di questo mondo. Auguro a me stessa di riuscire a progredire in questa scoperta, a farla pienamente mia e a perdonare mia madre completamente, e sinceramente auguro anche voi di provare questa bellezza (anche se magari tutte queste cose le sapevate già!).

Insomma, proprio come Jake dei Blues Brothers, oggi ho visto la luce!


*Ovviamente qui parlo del perdono di quei piccoli torti o offese che ci fanno soffrire ma che riguardano la vita quotidiana o i rapporti tra persone civili. Credo che per quanto riguarda i grandi drammi, i torti orribili che esulano dalla vita ordinaria, il discorso sia forse lo stesso, ma che occorra molto più tempo, più “lavoro” spirituale e soprattutto che il perdono non sia un “dovere”, un obbligo. È solo qualcosa che libera prima di tutto chi ha subìto il torto, ma probabilmente esistono torti imperdonabili. E un’altra cosa: perdonare non è “dimenticare” con indifferenza, ma saper guardare oltre, sotto una luce diversa, l’ingiustizia subìta. Non significa che se perdono non voglio giustizia. Lo preciso perché ho in mente i genocidi, le vittime del terrorismo, gli omicidi eccetera, cioè cose molto gravi di cui ho ben presente la problematicità.


Esercizio di autopreservazione quotidiana [sorvolare l’assedio]

Io certe volte mentre cammino per strada – per esempio mentre vado al lavoro – vedo o ascolto delle cose, e mi dico:
non voglio credere di vedere/ascoltare quello che vedo/ascolto (e vedo brutture, tipo muri scrostati, ragazze ciccione con rotoli di pancia in vista, impalcature, ponteggi, camion della spazzatura rumorosi e puzzolenti, carcasse di bici mezze smontate legate ormai inutilmente ai pali, bambini che chiedono l’elemosina invece di giocare o studiare, locandine vicino alle edicole con titoli allarmanti, escrementi canini e umani, aria satura e grigia di smog eccetera, tutto ciò che potete bene immaginare).

Non voglio crederci ma lo vedo. Allora mi succede che mi viene un’esasperazione che fa sì che un’Ilaria continui a camminare per la sua strada e a vedere le brutture, un’altra si solleva un po’ e prende un’altra direzione.
Alla fine ci troviamo al luogo dov’eravamo dirette, ci ricomponiamo e facciamo quel che dobbiamo fare.


Caro diario

Oggi vi propongo uno dei miei quesiti: voi tenete un diario? Intendo non un diario-blog, ma proprio un diario (un quaderno, un’agenda o simili) su cui scrivete con la penna. L’avete mai tenuto? E, se no, perché? Secondo voi il blog sostituisce/può sostituire un diario?

Vi dico intanto cosa ne penso io:
ho iniziato a tenere un diario da quando ho imparato a scrivere decentemente (seconda elementare, più o meno); non mi sono mai imposta di scrivere tutti i giorni, e infatti in alcuni periodi (adolescenza in primo luogo) scrivevo non solo tutti i giorni ma anche più volte nello stesso giorno; in altri periodi invece poteva anche passare un mese o due tra una “puntata” e l’altra.
Non ho mai smesso del tutto, però, né mai (credo) smetterò.
Intanto, è quasi una questione di igiene mentale: appuntare su un quaderno qualcosa su di me mi aiuta a ragionare e a capirmi meglio, “oggettivandomi” su una pagina.

[Sull’oggettivarmi: forse ragiono come gli uomini primitivi, per i quali la parola era pericolosa, era vista come separazione da sé, taglio e ferita, con un valore magico (io istintivamente l’ho sempre vissuta così e infatti ci sono stati periodi, da piccola, in cui ho smesso addirittura di parlare. Capirete come sia contraddittorio il fatto che io viva praticamente di parole – per via del mio lavoro, oltre che dello studio – e che, come se non bastasse, scriva pure regolarmente su un blog)].

Poi, soprattutto, serve per non perdermi di vista. Attraverso i miei diari (che sono dei semplici quaderni e sono ormai una quantità davvero temibile, se per esempio li disponessi uno sull’altro a formare una torre) io ripercorro quasi tutta la mia vita (o il modo in cui l’ho vissuta). Non racconto fatti (a meno che non sia accaduto qualcosa di eclatante e straordinario) ma anche solo rileggere le mie riflessioni mi aiuta. Quando, attorno ai vent’anni, ho passato un periodo tremendo di crisi totale, rileggere l’Ilaria adolescente che qualche anno prima aveva riversato entusiasmi, progetti e paure sul diario che ora, depressa, tenevo tra le mani, mi aiutava a restare salda, a resistere, a non perdermi appunto.

[Questa cosa continua a commuovermi: dal passato la mia voce ritorna e mi aiuta. La frattura iniziale si ricompone. Una nuova magia che si sovrappone a quella, pericolosa, di prima].

Ci sono molti motivi che spingono a tenere un diario, e molti modi diversi di scriverlo: chi scrive due righe, chi pagine e pagine per volta; chi racconta minuziosamente esperienze vissute, chi annota riflessioni e pensieri.

Mi spaventa un po’ il fatto che molte persone (a volte capita di leggerlo) abbiano sostituito il diario col blog.
Non è la stessa cosa, secondo me. Intanto il diario lo si scrive per se stessi e nessuno lo deve leggere (se non, eccezionalmente, col nostro permesso); nel blog si scrive sapendo che altri leggeranno.

Poi, il blog non è eterno. Basta un niente perché scompaia e tutto vada perduto (questa è una riflessione che gli storici fanno per esempio a proposito della conservazione dei documenti, pensando agli storici futuri: i papiri sono arrivati fino a noi, ma si teme che i dati elettronici non avranno affatto una lunga durata. Rischiamo di tramandare molto poco di noi ai nostri posteri).

Il blog non lo si tiene in mano, non lo si sfoglia, non ci si ritrova la propria calligrafia, che varia a seconda delle emozioni provate (per es., certe volte ero così arrabbiata che scrivevo malissimo, si capiva il mio stato d’animo anche senza leggere il testo, solo guardandolo), le cancellature, gli scarabocchi.

Che grave perdita sarebbe non possedere i diari di Kafka, o di altri grandi autori, ai quali mi accosto sempre con un po’ di imbarazzo. Se un Kafka odierno (esisterà?) scrivesse un blog anziché un diario, probabilmente un tale tesoro rischierebbe di andare perduto.

E voi cosa ne pensate? Che rapporto avete (o non avete) col diario?

 

P.S.: Sull’argomento “diario/scrivere di sé” segnalo due meravigliosi saggi di Duccio Demetrio, in particolare: Raccontarsi (1996) e Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé (2003), entrambi editi da Cortina. L’autore è un professore di filosofia che ormai da anni si dedica allo studio e alla valorizzazione della pratica dello scrivere di sé, e per sé (diario, quindi, non blog). Scrive in modo poetico e suggestivo, ma anche preciso e analitico. Io lo consiglio tantissimo, se vi piace tenere un diario o se vi chiedete a cosa serva farlo.