Viva gli sposi

marc-chagall-weddingMarc Chagall, Gli sposi della torre Eiffel

I matrimoni, per chi è invitato, possono essere una gran noia (diciamo una vera e propria gran palla) o un’occasione di profonda gioia, a seconda soprattutto del rapporto che si ha con gli sposi. Io personalmente non sono una grande fan delle cerimonie (sto parlando del contorno di festeggiamenti e banchetti, non del significato dei riti di per sé) quali battesimi, comunioni, cresime e appunto matrimoni. Quando però si sposa una delle tue amiche più care, quando tutto – sia in chiesa che fuori – si svolge all’insegna della semplicità, della spontaneità e della condivisione gioiosa; quando non ci sono trecento invitati ma quelli che veramente conoscono e amano gli sposi; quando il posto prescelto per il pranzo insieme non è distante 60 chilometri rispetto alla chiesa ma lo si raggiunge comodamente a piedi tutti insieme e quando poi ci si mette pure il sole a regalare una splendida giornata e un cielo azzurro che qui a Bologna non è poi così frequente poiché più spesso, anche col sole, è offuscato di umidità e foschia risultando biancastro, tutto congiura verso la perfezione.
Così la sottoscritta, cui ultimamente venivano in mente solo post seri a tema mortifero (perché del tutto casualmente – ma sarà poi davvero un caso? – ho letto dei gran libri intrisi di morte a ogni riga), si trova oggi nello stato d’animo più lontano e avulso da pensieri di stasi, a riprova del fatto che in genere la nostra realtà del momento non coincide con tutta la realtà – o non è una buona, nel senso di unica valida, lente attraverso cui guardare il mondo fuori – e che sani bagni di folla fanno pur bene.
I post mortiferi comunque arriveranno pure quelli… 😉

Intanto lunga vita agli sposi, al loro bambino di nove mesi che nell’occasione è stato battezzato e che, vedendo e sentendo battere le mani, se le è spellate pure lui applaudendo felice in prima fila ai genitori sposi, e ammettiamo che ascoltare tra le letture l’inno alla carità di San Paolo fa solo bene al cuore, considerando il contesto in cui viviamo; perdoniamo anche il prete per il suo guardare evidentemente un po’ troppa televisione, date le citazioni durante l’omelia.


Andiamo in centro?

Avevo promesso che il mio blogghino avrebbe ricominciato a dispiegare le sue ali argentee in autunno e l’autunno è arrivato; anzi, più che autunno, sembra arrivato direttamente l’inverno. Così, eccomi qui. E non mi interessa di dover scrivere ogni volta chissà quale post elaborato, dato che non ho più il tempo di una volta; scriverò quello che mi viene, ma sempre seguendo la mia regola e cioè che, essendo questo un posto pubblico, quel che scrivo qui, anche quando nasce da spunti autobiografici, deve poter avere almeno un minimo di significato e di interesse per chi legge; per tutto il resto c’è il mio diario personale. E pazienza se non avrò il tempo di limare tutto e scrivere narrazioni mirabolanti; in fondo lo scopo (devo orgogliosamente dire perseguito con successo, nel mio piccolo, in questi anni) del blog è sempre stato quello di donare a chi legge di volta in volta – e, nel migliore dei casi, tutto insieme – un sorriso, un momento sereno, uno spunto di riflessione, una storia in cui immedesimarsi o trovare conforto (dalle statistiche del blog vedo che i miei post più “tragici” – vicissitudini ospedaliere e sentimentali in testa – sono sempre i più gettonati), tutto qui; per i capolavori c’è… Masterpiece! 😛

 Fine della premessa.

Voglio cominciare questa nuova stagione con un ricordo tra i più dolci e cari che ho; mi è capitato di rievocarlo un paio di sere fa, durante una specie di cena di lavoro in cui si parlava di letture obbligatorie, imposte ai bambini da insegnanti o genitori; quelle che ti fanno passare la voglia di leggere. E il mio pensiero va al mio meraviglioso padre, a lui che ogni tanto, fin da quando ero molto piccola, prima ancora che sapessi leggere bene da sola, mi diceva: “Andiamo in centro?”. Andare in centro era allora praticamente il Paradiso; significava che io e lui da soli uscivamo mano nella mano e andavamo a prendere un meraviglioso autobus; durante il viaggio – in realtà breve ma che a me sembrava sempre lunghissimo ed emozionante – ci saremmo seduti o collocati accanto al finestrino e avremmo chiacchierato di tante cose nostre mentre il paesaggio noto del quartiere lasciava spazio a quello meno noto che conduceva verso il centro. Ma, soprattutto, andare in centro significava scendere sotto le due torri e tuffarci in libreria, spesso in più di una libreria. Qui, come per la verità sempre e ovunque quando c’era/c’è di mezzo mio padre, venivo educata a diventare una persona libera, col diritto-dovere di sviluppare gusti personali assumendomene le conseguenze: venivo lasciata libera di girovagare da sola tra gli scaffali del settore bambini per scegliere un libro da acquistare, mentre mio padre andava da tutt’altra parte, in genere nel reparto filosofia e teologia, a scegliere i suoi libri. Ecco. Anche se ormai sono passati parecchi anni, ricordo perfettamente com’era liberatoria e inebriante quella sensazione di potenza che provavo: ero una bambina piccola ed ero lasciata completamente sola a sfogliare libri, leggerne la quarta di copertina, perdermi tra tutti quei colori e con la responsabilità di dover scegliere tra tutti un libro che mi sarei portata a casa. Insomma, ci si fidava di me! A volte mi divertivo a esplorare la libreria col rischio di perdermi tra stanze e scaffali. Di altri bambini soli così piccoli non ce n’erano quasi mai; tutti avevano il loro bravo adulto a controllarli.
Quando mio padre tornava, coi suoi libri sotto braccio, mi chiedeva quale libro avessi scelto. A volte avevo scelto, senza saperlo, un libro di valore; altre volte avevo scelto qualche stupidaggine; papà non giudicava. Mi chiedeva se ero sicura, magari lo sfogliava con me, mi invitava a confrontarlo con qualche altro libro; ma quando mi decidevo, la mia scelta veniva rispettata. Lui in più sceglieva per me anche un libro di testa sua, di solito un classico per l’infanzia che ancora non conoscevo; in questo modo, indirizzava comunque le mie letture proponendomi, dall’alto della sua esperienza, libri importanti che io da sola non potevo conoscere.

La soddisfazione di uscire dalla libreria con i nostri sacchetti, ardenti dal desiderio che arrivasse la sera per tuffarci subito nella lettura, era grande. Ma prima di tornare a casa c’era un’altra tappa irrinunciabile: andavamo in un bel bar, ci sedevamo a un tavolino come due gran signori e ordinavamo due calde cioccolate in tazza con panna. Fuori, come ora mentre scrivo, calava la sera, il freddo si faceva sentire. Noi due, i volti allegri illuminati dalla luce elettrica del bar, gustavamo la nostra cioccolata; usciti da lì, se era la stagione, compravamo un sacchetto di caldarroste in uno di quei baracchini per strada, poi tornavamo a casa. Papà, libri, libertà, evasione e cioccolata calda: con associazioni di tal fatta è abbastanza ovvio che la lettura per me abbia sempre rappresentato un momento caldo ed emotivamente ricco, oltre che intellettualmente stimolante. Senza contare il fatto che mio padre, da quando ero neonata fino più o meno ai miei dieci anni (ma, grazie a mia sorella più piccola che stava in camera con me, ho approfittato delle sue letture serali anche ben oltre quell’età), ha passato ogni benedetta sera seduto sul mio letto a raccontarmi fiabe prima e a leggermi – a puntate – romanzi poi… ma questa è un’altra storia.


P.S.: rileggendo questo post, mi è tornato in mente quest’altro episodio raccontato qui. È davvero bello notare come i libri abbiano accompagnato tappe importanti della mia conquista dell’autonomia personale… persino quella degli spostamenti (trasloco compreso)!


Amore in farmacia

Come non divertirsi in questa vita quando viviamo in una contraddizione infinita? E la contraddizione, l’ossimoro, i vari inciampi di questo mondo sono alla base del sense of humour, al quale sono stata iniziata da mio padre fin dalla nascita e di questo lo ringrazio, poiché altrimenti vivrei molto male. Questo è certo. No, perché, mettiamo che io non avessi questo senso dell’umorismo, per esempio. Se così fosse, come acciderbolina mi sarei sentita poco fa quando, prenotando alcuni esami un po’ delicati al tavolino del CUP in farmacia, mi sono trovata davanti un’impiegata dal tono di voce decisamente potente che elencava tutti gli affari miei singoli personali individuali e oserei dire intimi declamandoli a tutta la numerosa e varia clientela in attesa al bancone? Il massimo è stato quando, non contenta, poiché non sapeva un codice o che so io, ha preso il telefono per consultare un tipo alla sede centrale del CUP. E proprio mentre lei aspettava che il tipo rispondesse, io notavo un uomo sui quarant’anni, lungo lungo, magro magro e con la pettinatura da Beatle (nel senso del gruppo musicale, non di beetle, eh?) che, non si sa perché e con tutto lo spazio che aveva – metri e metri di pavimento tra lui e il resto della fila al banco – sostava al mio fianco, appollaiato a mo’ di avvoltoio esattamente al di sopra di me, che ero seduta e speravo che il tipo del CUP non rispondesse all’altro capo del filo. O che il Beatle si allontanasse. Una delle due, insomma. Invece il tipo ha risposto e così la farmacista è ripartita a elencare i miei casi; il Beatle, con questi occhiali da sole che gli davano un’aria da vero sbruffone, ascoltava e mi guardava; mentre io, dopo avere cercato invano di far capire all’impiegata che era più gentile non urlare, diventavo improvvisamente un Maestro Zen e visualizzavo me stessa in forma di ieratica e indifferente candela onde evitare di redermi colpevole di aggressione. Alla fine l’esame è stato prenotato… ad aprile 2013 (credo sia una strategia onde evitare che la gente arrivi viva a farsi visitare, in modo da alleggerire il SSN). E qui, io dico: ci rompono le scatole con la privacy; a scuola o all’università, ormai, per vedere i risultati di un esame devi sottostare a complicate procedure di riconoscimento onde evitare – non sia mai – che tu veda che Tizio è stato bocciato; siam sempre lì a firmare liberatorie, tra un po’ pure per andare a un bagno pubblico… e poi la nostra salute è sempre sbandierata davanti a tutti, perché il caso qui descritto capita di continuo, nelle farmacie, negli ospedali, ovunque, e anche per cose ben più gravi dei miei banali esami di routine (di cui pazienza se tutta una farmacia viene informata). Ecco la contraddizione, l’ossimoro, l’inciampo. Vi dico solo che tempo fa andai in ospedale a trovare un’amica che aveva subìto un piccolo intervento chirurgico e quando mi affacciai nella guardiola delle infermiere per chiedere il numero di stanza della mia amica (non: entrai; mi affacciai restando sulla soglia) vidi, scritto in rosso e sottolineato, su un foglio appeso appunto vicino alla porta, il nome della mia amica e accanto la scritta: HIV+. Questa secondo me era da denuncia. E ne avrei da raccontare ancora!

Comunque questa irritante storia ha un epilogo romantico: il nostro allampanato e ficcanaso Beatle, mentre io ero sempre al tavolino ad attendere di avere i miei fogli e poter scappare da lì, aveva nel frattempo acquistato quel che doveva al banco e, tornando verso l’uscita, mi ha superata e si è fermato proprio alle mie spalle (No, ancora???, ho lamentato dentro me); ma mentre io ricominciavo a innervosirmi, l’ho sentito dire Ciao, dopodiché una voce femminile lo ha salutato con tono distratto; era una farmacista che stava ordinando uno scaffale. Lui l’ha aggiornata (senza che lei lo avesse chiesto) sulle condizioni di salute della propria madre; l’impiegata che mi stava stampando la prenotazione nel frattempo ammiccava con eloquenza verso la collega, che immagino stesse ricambiando l’occhiata. Poi lui ha detto: “Sai, stanotte ti ho sognata”. Be’. A questo punto mi sono voltata io. A guardare lui. Così, per godermi la scena. Tanto, privacy per privacy… Il Beatle, benché lo guardassi (essendo seduta) da sotto in su, mi sembrava improvvisamente piccolo piccolo, gobbo gobbo, un fuscello al vento. E quell’aria sprezzante di prima non l’aveva più, ora che guardava la sua interlocutrice. La farmacista si è messa a ridere, ha esclamato: “Davvero?” e ha subito soggiunto: “Ora però ho da fare. Magari me lo racconti un’altra volta”. Lui si è voltato ed è uscito. Mentre la porta del negozio si chiudeva, l’impiegata del CUP, ridendo anche lei, esclamava: “Non ci posso credere, è proprio cotto!”. “Senza più ritegno, ormai. Voglio vedere fin dove arriva”, le confermava l’altra.

E mentre io raccoglievo finalmente le mie scartoffie, mi pervadeva quella sensazione – non triste – che ogni tanto mi prende: a volte siamo poco più che insetti di fronte all’Universo mondo, alla salute, all’amore. Così è la vita.