Donne in sella

ladies on bycicle
Minacce su due ruote, da una foto del 1895

Da che mondo è mondo esistono categorie di persone che sprecano gran parte del loro tempo nello sforzo di limitare la libertà o anche solo i più semplici diletti di altre persone e un buon esempio di questo atteggiamento, dal quale – in quanto ciclista – mi sento particolarmente toccata, è rappresentato dal caso della “bycicle face”, la terribile quanto immaginaria sindrome della “faccia da bicicletta”.

Verso la fine del 19° secolo, infatti, nei paesi anglosassoni, quando le biciclette erano diventate diffuse e accessibili ai più, anche le donne avevano scoperto l’ebbrezza di una bella pedalata da sole o in compagnia. Abiti sportivi – se non addirittura un comodo paio di pantaloni! -, capelli al vento, eccole sfrecciare allegramente sulle due ruote. Immaginiamo che parecchi damerini avranno anche apprezzato la novità, che gettò tuttavia il panico tra i vecchi tromboni i quali, dall’alto della loro egemonia, si sentivano gravemente minacciati da queste donzelle pedalatrici. Si sa che le due ruote favoriscono un’autonomia e una mobilità davvero impensate a fronte di tutta la disponibilità di spazi e mezzi di cui godevano lorsignori. Bisognava dunque correre ai ripari e, data la gravità della situazione, si decise di chiamare in campo la Scienza Medica, che in quanto ad autorevolezza cominciava a non essere seconda a nessuno. Medici di professione, in spregio a Ippocrate, inventarono dunque di sana pianta una sindrome, che chiamarono “bycicle face”, per scoraggiare le donne dall’andare in bicicletta. Si diffuse così la notizia che, per la fragile costituzione femminile, pedalare fosse nefasto al punto da modificare i lineamenti del volto: lo sforzo dovuto alla pedalata, infatti, avrebbe provocato nelle cicliste in modo permanente occhi e menti sporgenti, labbra tese e sottili, guance paonazze e rugose; tratti del viso, questi, considerati decisamente poco femminili e pertanto da evitare. In un’epoca nella quale la bellezza per una donna era in genere la più importante se non talvolta l’unica dote su cui contare per sistemarsi nella vita, chissà quante ragazze e quante donne avranno rinunciato all’innocuo piacere di una pedalata all’aria aperta.

Chissà come avrei reagito io, se fossi vissuta all’epoca. Il mio carattere attuale mi fa sperare che forse sarei stata tra le ribelli, tra quelle che avrebbero rischiato di imbruttirsi pur di sentirsi un po’ autonome… ma è facile ragionare col senno di poi.
Resta da notare come, in simili casi, coloro che vogliono affermare il proprio predominio e il proprio potere soffocando il prossimo si rivelino invece tremendamente fragili (ma non per questo meno dannosi), temendo tanto le piccole libertà altrui e sentendosene così minacciati; e questa, purtroppo, è storia ancora tremendamente attuale

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Un’immagine di Frederick Burr Opper pubblicata sulla rivista satirica “Puck” del 1895.

Per le notizie storiche sulla “bycicle face” mi sono ispirata principalmente a questo articolo, ma se volete divertirvi cercate “bycicle face” su google e su google immagini e ne vedrete delle belle.
Qui un esempio di donne in tenuta da ciclista, all’epoca.


L’amara verità.

post 11a_2016(illustrazione di Gil Elvgren)

Il cellulare serve per essere chiamati quando si è fuori casa. Purtroppo io, quando sono in giro, se il telefono suona, sette volte su dieci non lo sento. Due volte su dieci lo sento ma non posso rispondere perché sono in bici in prossimità di una rotonda con un autobus che mi supera a sinistra e uno scooter che mi sorpassa a destra. Quell’unica volta che odo la suoneria e riesco a rispondere farò comunque fatica a sentire il mio interlocutore perché il mio smartphone naviga su internet anche nei sotterranei della biblioteca Salaborsa ma il volume delle telefonate è bassissimo. Quindi niente, al cellulare mi si trova di sicuro quando sono a casa e mi si potrebbe tranquillamente chiamare sul fisso.


Bambini per sempre

Oggi ho visto un bambino di 120 anni. Tenuto stretto dal papà mentre in bilico sul tavolo sperimenta l’equilibrio avvolto in una vestina di pizzo bianco (lo avevo infatti scambiato per una bambina); seduto a tavola tra il papà e la mamma, imboccato insieme con affetto e veemenza; nel cortile di casa, tutto concentrato nel muovere i primi incerti passi. Sarà cresciuto, diventato un uomo; avrà avuto figli? Sarà stato un adulto felice? Qualunque cosa gli sia accaduta, ora non è più, eppure attraverso questo schermo davanti ai miei occhi è bambino per sempre.

Ecco i lieti pensieri che attraversavano la mia mente mentre mi aggiravo tra le sale della mostra “Lumière – L’invenzione del cinematografo”, seguendo la bravissima guida che con grande competenza ci ha accompagnato nell’avvincente percorso del cinema e delle sue origini.

La mostra si snoda su due livelli: quello tecnologico – vi sono tutti i marchingegni del cosiddetto Precinema, dalla Lanterna magica al Kinetoscopio di Edison passando per prassinoscopio e teatro ottico – e quello dei filmati con i loro contenuti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato davvero interessante potere toccare e utilizzare questi strumenti antenati del cinema moderno, con la commozione di constatare come da sempre gli uomini, che senza storie, racconti e immaginazione non possono vivere, abbiano cercato di creare immagini in movimento. È sempre emozionante, inoltre, constatare come nessuno inventa nulla dal nulla: le invenzioni che hanno segnato la nostra cultura sono sempre frutto di un percorso costituito dal contributo di molti e illuminato sì da qualche scintilla di genio, ma sempre debitore del contesto. La cosa più buffa è stata quando, aggirandomi tra gli svariati modelli di cineprese creati dai Lumière, tra esse ho notato una “cinepresa” che era uguale a una macchina da cucire, una di quelle portatili.

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“Una cinepresa a forma di macchina da cucire?”, mi sono detta, non volendo ammettere che quella fosse proprio una macchina da cucire. Dopo poco sento la guida spiegare che ormai all’epoca era chiaro a tutti che per creare la percezione del movimento occorreva che immagini simili si susseguissero velocemente ma come fare? A Louis (il più inventivo dei due Lumière) la soluzione decisiva fu ispirata osservando lavorare sua madre alla macchina da cucire: occorreva “cucire” le immagini tra loro. Nasce da qui il concetto della pellicola cinematografica, un nastro costituito da immagini “cucite” tra loro. Quindi quella che stavo osservando era proprio una macchina da cucire e nell’invenzione del cinematografo c’è pure lo zampino inconsapevole di mamma Lumière.

E a proposito di mamma, l’altro aspetto, come dicevo, è quello dei filmati: dal primo “film” (questi film duravano tutti pochi secondi), che mostra l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière a un tentativo di film comico (un ragazzino preme con un piede la canna con la quale un contadino sta innaffiando un orto, bloccando il flusso dell’acqua per poi rilasciarlo tutto d’un colpo) a film che mostrano cavalli, ciclisti, uomini alla moda… tra tutti spiccano i filmati di famiglia. E io osservandoli ritrovo un clima che conosco: sono scene felici di una famiglia numerosa e unita. La guida ci spiega che i Lumière erano progressisti per l’epoca: nei filmati mariti e mogli si divertono insieme, alla pari, giocano insieme; i padri sono affettuosi con i figli piccoli e giocano con loro, li imboccano, li sostengono nei primi passi. Io osservo questi volti sorridenti, queste persone ben vestite, e rivedo i vecchi filmati, girati proprio con la cinepresa, in cui la mia nonna, le sue sorelle e i fratelli, giovani, baldanzosi, si mostrano spensierati all’obiettivo. Filmati che a guardarli ora, col tempo che intanto ha portato via tutti, mi si spezza anche un po’ il cuore.

Le parole della guida tornano a catturare la mia attenzione di lettrice di romanzi per ragazzi quando raccontano un episodio vero della vita dei fratelli Lumière, che in quei romanzi ci starebbe benissimo: da ragazzini, Louis e Auguste rimasero intrappolati in una grotta che a causa dell’alta marea si stava inesorabilmente riempiendo d’acqua: terrorizzati, si promisero solennemente che se si fossero salvati sarebbero rimasti insieme per tutta la vita. E mantennero la promessa: non solo perché lavorarono sempre insieme, creando e inventando, ma vissero anche tutti nella stessa casa con le rispettive famiglie.

In una sala, negli schermi scorrono i film dei vari operatori che, formatisi alla scuola dei Lumière, andarono poi in giro per il mondo a effettuare riprese. Sono tanti ma in uno di questi una particolare scena colpisce la mia attenzione e mi si imprime nel cuore divenendo la mia preferita: in un villaggio dell’allora Indocina francese, Namo, una folla di bambini corre allegra verso l’obiettivo, quindi verso noi che guardiamo. Tra questi c’è un piccolo dal visino allegro; un ragazzino più grande gli si avvicina e gli dà un colpetto sulla nuca; il piccolo ci resta male, si cruccia, resta offeso. Con le manine a proteggere la parte toccata, resta fermo e teso mentre prima correva leggero. Poi passa un adulto che con delicatezza lo invita a riprendere il passo. Quante volte ‒ basta osservare dei bambini al parco o in cortile ‒ capita di osservare una scena identica a questa, con comportamenti e reazioni, espressioni e atteggiamenti perfettamente uguali? A dispetto della distanza di tempo e di spazio, io osservo l’infanzia nella sua essenza immutabile. E allora potrà avere anche 120 anni questo bambino (ne ha 117 perché il film è del 1900) ma è davvero un bambino per sempre.

L’autore del filmato è l’operatore Lumière Gabriel Veyre.

Nostalgie 2.0

acer-aspire

(Sembra incredibile ma gli ho scritto una lettera e non gli ho scattato una fotografia!)

Ho trovato questa lettera scherzosa ma non troppo che qualche anno fa avevo scritto al mio vecchio portatile quando ho dovuto sostituirlo e niente, basta leggerla per capire per quale motivo non sono consumista. Perché mi affeziono! La posto qui intanto perché fa sorridere, poi perché tra le righe è condensata la nostra storia recente, in cui molti possono rispecchiarsi: da quando il computer era grosso, fisso e da condividere col resto della famiglia a quando è diventato uno strumento più agile, leggero e realmente personale, e soprattutto del quale non si può più fare a meno. Erano ancora tempi in cui per comprare un elettrodomestico si andava direttamente in negozio e non su Google a cercare opinioni! E infine ci siamo dentro anche noi blogger qui, con la nostra evoluzione. Tutto ciò mi fa sentire tanto una vecchia nonna. Di quelle 2.0, però.
In effetti, però, più che una lettera a un computer è una lettera alla Me che in quei nove anni era nel frattempo cresciuta.

“Caro Acer Aspire,
sei entrato nella mia vita nel lontano dicembre di nove anni fa e l’hai – almeno in parte – cambiata. Fino allora l’unico computer presente in casa era collocato nello studio di mio padre (all’epoca vivevo ancora coi miei) e lo utilizzava principalmente lui, per quasi tutto il giorno. Tranne quando mi serviva per studio o per lavoro, mi riducevo a poterlo usare per svago solo alcune sere, dovendolo dividere anche con mia sorella. Questo mi impediva di tenere un blog, per esempio. Lo desideravo e ci avevo provato, ma l’impossibilità di poterlo aggiornare quando mi era più comodo o quando mi sentivo ispirata era un grosso ostacolo. Ora sembra strano ma all’epoca scrivevo ancora prevalentemente a mano su quaderni e taccuini. Quando fu chiaro che, per esigenze di studio e lavoro, non potevo più fare a meno di un pc personale, arrivò il momento del nostro incontro. All’epoca non ero dipendente da google e dalle ricerche di mercato pre-acquisto-di-qualsiasi-cosa, pertanto io e mio padre un pomeriggio ci limitammo a salire in macchina e andare da Mediaworld con l’obiettivo di acquistare un pc portatile. Ci trovammo circondati da innumerevoli opzioni, persi in questo mondo per lo più ignoto. Al contrario di oggi non sapevo niente di marche, modelli, requisiti tecnici. Trovammo un commesso preparato e gentile che impiegò una buona mezzora del suo tempo per illustrarci le caratteristiche dei vari modelli e per suggerire l’acquisto migliore in base alle mie esigenze. Alla fine la scelta ricadde su di te. Eri allora l’ultimo modello, appena uscito, e costavi parecchio più della maggior parte degli altri ma mio padre, considerandolo un investimento, acconsentì a regalarmi proprio te. Tornati a casa, con timore quasi reverenziale ti ho appoggiato, ancora nella tua scatola, sul tavolo della sala. Il giorno dopo è arrivato il Tecnico del Computer, di cui oggi sono amica ma che allora mi sembrava depositario di sacri misteri, e col suo aiuto ti ho configurato. Windows mi ha chiesto di darti un nome e ti ho chiamato Emeraldas, come l’eroina di un manga di Leiji Matsumoto. Finalmente ti ho portato in camera mia e lì è iniziata la nostra avventura insieme, anche se in realtà la prima cosa che feci fu prendere il mio diario cartaceo e scrivere che avevo un pc tutto mio. La seconda cosa fu scrivere un post sul mio blog* che, per i motivi detti prima, esisteva già ma non era più aggiornato da quasi un anno. Da allora e per parecchio tempo, ho scritto un post al giorno e, potendo finalmente navigare quando e come mi pareva, ho conosciuto i miei blog-amici, con parecchi dei quali sono tuttora in contatto e con alcuni dei quali sono passata dall’amicizia virtuale a quella fisica.
Caro Acer, il blog mi ha aiutata tantissimo ed è stato possibile grazie a te. Ma non solo. Su di te ho scritto la mia tesi di laurea, nonché i miei primi articoli e tutti i testi di lavoro. Hai vissuto tutti i patemi della novellina alle prime armi nel mondo del lavoro. Inoltre contieni preziosi e romantici carteggi sentimentali, racconti e testi di diario che non avevo voglia di scrivere a mano, per non parlare delle fotografie che si sono accumulate nel tempo e che registrano fedelmente i cambiamenti intercorsi in questi lunghi anni. Per tutto questo tempo non mi hai mai dato un problema: mai un virus, una malattia, un inceppamento. Sei stato un compagno così fedele e leale che, quando nonostante tutto è giunta la tua ora, anziché morire all’improvviso come fanno molti tuoi colleghi, lasciando nel panico i loro proprietari che si trovano – non avendo improvvidamente salvato i dati – ad avere perso tutto, tu mi hai dato chiari segnali della tua prossima dipartita e ciò mi ha consentito di mettere al sicuro con tutta calma tutto ciò che negli anni avevo riposto in te e che intendevo conservare, nonché ovviamente di salvare i testi cui sto lavorando attualmente. E ora dobbiamo lasciarci. Ho tergiversato tanto ma alla fine ho ceduto; tu, ormai lento, rantolante e rumoroso, non riuscivi più a starmi dietro. A volte dovevo prenderti a pugni per zittire temporaneamente il lamento del tuo motore ormai stremato. Ora ho qui sulla mia scrivania il tuo successore: un Asus, abbastanza simile a te nell’aspetto, ma al quale devo ancora affezionarmi.
Ma non temere perché tu mi resterai nel cuore, caro vecchio Acer. Le emozioni collegate a te sono quelle di tante Prime Volte… e in queste prime volte c’eri sempre tu.

Grazie e addio, fedele compagno del mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta.

La tua affezionata e devota
Ilaria”

* Una prima versione di Ali d’Argento (non ricordo neanche più come si chiamasse) dalle cui ceneri è poi nato l’attuale “Ali”.


L’evoluzione tecnologica dei sentimenti

La mia vita sentimentale è iniziata quando ancora i telefoni cellulari non esistevano o li avevano forse  in pochissimi eletti. Ai miei tempi [ma che soddisfazione immensa provo nel poter dire finalmente: «Ai miei tempi»?!], c’era il vecchio, sano, beneamato telefono fisso. Ma proprio fisso, eh? Il cordless era di là da venire. Ai più fortunati i genitori avevano comprato un telefono fisso da mettere in camera, oltre a quello familiare; gli sfortunati – tra cui ovviamente io – avevano un solo telefono per tutta la famiglia, posizionato solitamente nell’ingresso, crocevia dell’intera casa; questo comportava che per avere un po’ di privacy bisognasse aspettare l’ora adatta per telefonare – ovvero quando non c’erano indiscrete orecchie genitoriali in giro né fratelli/sorelle pestiferi – o industriarsi per tirare al massimo il cavo del telefono in modo per esempio da potere telefonare dalla sala riuscendo anche a chiudere la porta, magari stando in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.

A quei tempi tu, romantica tredicenne, ti invaghivi di un ragazzino, trovavi il suo numero di telefono sull’elenco e poi, al momento di chiamare, c’era quel meraviglioso – a ricordarlo adesso – quarto d’ora di panico in cui, oltre a prepararti un discorso decente da fare – nei casi più importanti, con tanto di scaletta scritta; ditemi voi se almeno una volta non avete scritto la mitica scaletta pre-telefonata! –, ti preparavi psicologicamente a dover passare tramite il filtro del genitore del beneamato che, due volte su tre, rispondeva al telefono. Sì, il genitore metteva talvolta un po’ soggezione, ma faceva parte del gioco, era uno degli ostacoli da superare per raggiungere lo scopo, aveva un senso. E comunque perlomeno non sarebbe andato a spettegolare per tutta la scuola della tua telefonata. Quindi eri libera. Tra te e il tuo amore c’era solo una guida telefonica e al massimo un paio di genitori.

Libertà, questa, gravemente compromessa dall’avvento del cellulare, perché adesso se a te, romantica tredicenne, piace in segreto Pinco e questo Pinco vive attaccato al cellulare ed è chiaramente il tipo su cui non faresti una buona impressione chiamandolo sul fisso – sempre che ce l’abbia, poi, il fisso – per risalire al suo numero di telefono, non essendo il cellulare sull’elenco telefonico, devi procedere per vie traverse: di conseguenza chiederai a Tizio, Caio e Sempronio, conoscenti di Pinco; attraverso i quali – benché tu sia convinta di essere stata molto abile nel mascherare il tuo vero scopo – Pinco verrà a sapere che tu sei interessata a lui prima ancora che tu trovi il coraggio di telefonargli. E quando finalmente gli telefoni, Pinco potrebbe essere ovunque: non nel silenzioso ingresso di casa sua, bloccato a un fisso ad ascoltarti col cervello concentrato; ma magari su un autobus affollato e rumoroso dove sentirà una parola su tre di quelle che gli dici, o al campo di basket o per strada a far danni, in compagnia dei suoi amici. Non il contesto ideale per una telefonata con scaletta prefissata. Per non parlare del fatto che tramite cellulare, in molti eviteranno le imbarazzanti telefonate in favore dei più brevi e comodi messaggini. Quindi anziché ricevere una telefonata nella quale senti con piacevole orgoglio tutto l’imbarazzo di chi, dall’altro capo del filo, sfidando la propria timidezza e le orecchie genitoriali, ti chiede tremebondo se sei libera stasera, rischi di ricevere un trillo e leggere su un gelido schermo cose del tipo:
«Ciao, 6 lib stas?».
Ammetterete che non è la stessa cosa.

Ma il limite è stato superato con il malefico facebook. Prima dell’avvento di questo cosiddetto social network, se per avventura conoscevi qualcuno – a scuola, sul lavoro, per strada, in un locale, insomma nel mondo reale –, ci si scambiava un sano numero di telefono, fosse pure il cellulare, e si era a posto. Oggi no. Oggi sempre più spesso capita di conoscere qualcuno, magari proporre di vedersi qualche volta e, mentre si estrae il fido cellulare per inserire in rubrica il numero del nuovo amico/a, sentirsi dire:

“Ok, allora poi ti chiedo l’amicizia su facebook e ci mettiamo d’accordo”.

Eeehh? Ma perché devo essere costretta ad accendere il computer, andare su facebook e aspettare un tuo messaggio se esiste da centoquaranta anni quel benedetto aggeggio che si chiama telefono? Perchééé?!

Ed è così che mi sono trovata a sorridere ripensando ai tempi in cui si telefonava dal fisso, in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.