Nostalgie 2.0
Pubblicato: 8 gennaio 2017 Archiviato in: calamità ilariesche, evoluzioni tecnologiche, tempus fugit, umorismo | Tags: acer aspire, computer portatile 5 commenti(Sembra incredibile ma gli ho scritto una lettera e non gli ho scattato una fotografia!)
Ho trovato questa lettera scherzosa ma non troppo che qualche anno fa avevo scritto al mio vecchio portatile quando ho dovuto sostituirlo e niente, basta leggerla per capire per quale motivo non sono consumista. Perché mi affeziono! La posto qui intanto perché fa sorridere, poi perché tra le righe è condensata la nostra storia recente, in cui molti possono rispecchiarsi: da quando il computer era grosso, fisso e da condividere col resto della famiglia a quando è diventato uno strumento più agile, leggero e realmente personale, e soprattutto del quale non si può più fare a meno. Erano ancora tempi in cui per comprare un elettrodomestico si andava direttamente in negozio e non su Google a cercare opinioni! E infine ci siamo dentro anche noi blogger qui, con la nostra evoluzione. Tutto ciò mi fa sentire tanto una vecchia nonna. Di quelle 2.0, però.
In effetti, però, più che una lettera a un computer è una lettera alla Me che in quei nove anni era nel frattempo cresciuta.
“Caro Acer Aspire,
sei entrato nella mia vita nel lontano dicembre di nove anni fa e l’hai – almeno in parte – cambiata. Fino allora l’unico computer presente in casa era collocato nello studio di mio padre (all’epoca vivevo ancora coi miei) e lo utilizzava principalmente lui, per quasi tutto il giorno. Tranne quando mi serviva per studio o per lavoro, mi riducevo a poterlo usare per svago solo alcune sere, dovendolo dividere anche con mia sorella. Questo mi impediva di tenere un blog, per esempio. Lo desideravo e ci avevo provato, ma l’impossibilità di poterlo aggiornare quando mi era più comodo o quando mi sentivo ispirata era un grosso ostacolo. Ora sembra strano ma all’epoca scrivevo ancora prevalentemente a mano su quaderni e taccuini. Quando fu chiaro che, per esigenze di studio e lavoro, non potevo più fare a meno di un pc personale, arrivò il momento del nostro incontro. All’epoca non ero dipendente da google e dalle ricerche di mercato pre-acquisto-di-qualsiasi-cosa, pertanto io e mio padre un pomeriggio ci limitammo a salire in macchina e andare da Mediaworld con l’obiettivo di acquistare un pc portatile. Ci trovammo circondati da innumerevoli opzioni, persi in questo mondo per lo più ignoto. Al contrario di oggi non sapevo niente di marche, modelli, requisiti tecnici. Trovammo un commesso preparato e gentile che impiegò una buona mezzora del suo tempo per illustrarci le caratteristiche dei vari modelli e per suggerire l’acquisto migliore in base alle mie esigenze. Alla fine la scelta ricadde su di te. Eri allora l’ultimo modello, appena uscito, e costavi parecchio più della maggior parte degli altri ma mio padre, considerandolo un investimento, acconsentì a regalarmi proprio te. Tornati a casa, con timore quasi reverenziale ti ho appoggiato, ancora nella tua scatola, sul tavolo della sala. Il giorno dopo è arrivato il Tecnico del Computer, di cui oggi sono amica ma che allora mi sembrava depositario di sacri misteri, e col suo aiuto ti ho configurato. Windows mi ha chiesto di darti un nome e ti ho chiamato Emeraldas, come l’eroina di un manga di Leiji Matsumoto. Finalmente ti ho portato in camera mia e lì è iniziata la nostra avventura insieme, anche se in realtà la prima cosa che feci fu prendere il mio diario cartaceo e scrivere che avevo un pc tutto mio. La seconda cosa fu scrivere un post sul mio blog* che, per i motivi detti prima, esisteva già ma non era più aggiornato da quasi un anno. Da allora e per parecchio tempo, ho scritto un post al giorno e, potendo finalmente navigare quando e come mi pareva, ho conosciuto i miei blog-amici, con parecchi dei quali sono tuttora in contatto e con alcuni dei quali sono passata dall’amicizia virtuale a quella fisica.
Caro Acer, il blog mi ha aiutata tantissimo ed è stato possibile grazie a te. Ma non solo. Su di te ho scritto la mia tesi di laurea, nonché i miei primi articoli e tutti i testi di lavoro. Hai vissuto tutti i patemi della novellina alle prime armi nel mondo del lavoro. Inoltre contieni preziosi e romantici carteggi sentimentali, racconti e testi di diario che non avevo voglia di scrivere a mano, per non parlare delle fotografie che si sono accumulate nel tempo e che registrano fedelmente i cambiamenti intercorsi in questi lunghi anni. Per tutto questo tempo non mi hai mai dato un problema: mai un virus, una malattia, un inceppamento. Sei stato un compagno così fedele e leale che, quando nonostante tutto è giunta la tua ora, anziché morire all’improvviso come fanno molti tuoi colleghi, lasciando nel panico i loro proprietari che si trovano – non avendo improvvidamente salvato i dati – ad avere perso tutto, tu mi hai dato chiari segnali della tua prossima dipartita e ciò mi ha consentito di mettere al sicuro con tutta calma tutto ciò che negli anni avevo riposto in te e che intendevo conservare, nonché ovviamente di salvare i testi cui sto lavorando attualmente. E ora dobbiamo lasciarci. Ho tergiversato tanto ma alla fine ho ceduto; tu, ormai lento, rantolante e rumoroso, non riuscivi più a starmi dietro. A volte dovevo prenderti a pugni per zittire temporaneamente il lamento del tuo motore ormai stremato. Ora ho qui sulla mia scrivania il tuo successore: un Asus, abbastanza simile a te nell’aspetto, ma al quale devo ancora affezionarmi.
Ma non temere perché tu mi resterai nel cuore, caro vecchio Acer. Le emozioni collegate a te sono quelle di tante Prime Volte… e in queste prime volte c’eri sempre tu.
Grazie e addio, fedele compagno del mio passaggio dalla giovinezza all’età adulta.
La tua affezionata e devota
Ilaria”
* Una prima versione di Ali d’Argento (non ricordo neanche più come si chiamasse) dalle cui ceneri è poi nato l’attuale “Ali”.
Pessimismo cosmico in prima serata
Pubblicato: 19 dicembre 2016 Archiviato in: cinema, tempus fugit | Tags: ettore scola, film, la famiglia, matrimonio 6 commentiPlaisir d’amour ne dure qu’un moment,
chagrin d’amour dure toute la vie.
Il film comincia e finisce con una fotografia di famiglia ma le persone in posa, tranne quella al centro che nella prima fotografia era un neonato e ora compie ottant’anni, sono cambiate perché generazioni sono passate, altre sono arrivate ma la Famiglia rimane.
Quando guardo questo film di Ettore Scola ‒ “La famiglia” – e lo guardo tutte le volte che viene trasmesso in tv, perché evidentemente mi piace, provo sempre quel po’ di tristezza, nostalgia, rassegnazione e nervosismo ma ogni volta distribuite in dosi diverse. Per esempio l’ultima volta avevano prevalso la tristezza e la malinconia e sul finale ero scoppiata a piangere come una povera derelitta. Stasera fino a un certo punto è stato il nervosismo a guidare la carretta delle emozioni: il nervoso nel vedere il protagonista (interpretato da Vittorio Gassman, sempre ottimo nel ruolo dell’antipatico) stare perennemente nel mezzo: non si espone mai in politica (mentre il fratello si arruola, va in guerra e tornerà menomato nella psiche e il cugino, sul fronte opposto, morirà volontario nella guerra di Spagna), non si espone nei sentimenti (sposa una donna, Beatrice, pur amando per tutta la vita la sorella di lei, con la quale però non è mai felice), domina silenziosamente tutti quelli che lo circondano e ha anche il coraggio di fare a tratti la vittima. Tuttavia verso la fine del film, durante l’ennesimo litigio con Adriana, la donna-mito amata/odiata, il nostro Carlo se ne esce con una grande verità, seppur detta alla donna sbagliata: e cioè che senza la moglie (che nel frattempo, poveretta, è pure morta) niente sarebbe stato costruito, non ci sarebbe stato niente di buono nella sua vita, niente famiglia, niente figli, niente affetti, niente equilibrio, solo vuoto ed egoismo. Nessuna Adriana, nessuna grande passione può essere più forte e autentica di quel che un matrimonio di anni (per quanto senza grandi emozioni) riesce a mettere in piedi. E infatti è grazie a queste unioni, felici o infelici che siano, che la famiglia (cioè il mondo) va avanti. È la forza della natura e della storia che prevale sul singolo, a meno che il singolo non sia così forte da resistere ma a rischio di condannarsi alla solitudine e all’isolamento, come osserva Adriana stessa.
E poi, perché mai resistere?
Adriana è cosciente di tutto ciò e vive con saggezza questo sentimento dal quale infatti sa tenere le distanze. Peccato vi siano tante “Adriana” molto meno risolute e più romanticamente ingenue, alle quali questo concetto non è affatto chiaro e che, inseguendo una felicità illusoria, si condannano da sole a un’infelicità molto concreta.
Resta il fatto che questo film, più lo vedo più lo trovo tremendamente pessimista. Non si salva niente e nessuno. Non c’è il buon Antonio di quel capolavoro che è “C’eravamo tanto amati” (lui, un uomo medio sì ma non mediocre e anzi l’unico che con la sua pragmatica dirittura si salva in quel contesto) né per contro la forza di vivere i sentimenti di un altro film di Scola che amo tanto e che si chiama “Passione d’amore” (tratto da “Fosca” di Iginio Ugo Tarchetti).
C’è solo un cupo corridoio nel quale si nasce, si vive di velleità e si viene spazzati inesorabilmente via mentre ci sarà sempre qualcun altro a prendere il nostro posto davanti a un obiettivo freddo e indifferente.
Una Piacenza da chiamare
Pubblicato: 9 novembre 2015 Archiviato in: morte, nonna, tempus fugit 3 commentiPer tutta la vita ho avuto l’abitudine, ogni volta che mi accadeva una cosa bella, di prendere il telefono e chiamare “Piacenza”, cioè telefonare a mia nonna e a mia zia (prozia) per comunicargliela. Era diventato un riflesso automatico. Loro erano sempre le prime a sapere, prima ancora dei miei genitori. Con il loro entusiasmo, amplificato dall’amore per me, sapevano sempre accogliere nel modo migliore la novità: gioendo con me, incoraggiandomi, lanciandosi in previsioni gloriose quanto esagerate. Si definivano “le mie prime fan”, e lo erano. Anche nei momenti di difficoltà, di scoraggiamento, erano sempre loro a ricevere le mie confidenze; anche in questo caso, avevano la parola giusta: non semplicemente di consolazione ma propositiva: riuscivano ogni volta a farmi vedere le cose da una prospettiva diversa, feconda. Sapevano rimettermi in carreggiata. Mia nonna Fanny poi era speciale nel coniare slogan semplici quanto efficaci (le dicevo sempre che sarebbe stata un’ottima pubblicitaria); ancora oggi questi slogan mi accompagnano nella vita; a seconda della situazione in cui mi trovo ecco che dalle profondità della mia memoria risale preciso lo slogan adatto al caso. E, di nuovo, mi aiuta.
Come i miei lettori più “anziani” sanno, mia zia e mia nonna ‒ che hanno anche ispirato tanti dei post migliori di questo blog ‒ non ci sono più. Mia zia, da sette anni; mia nonna, sono sei anni oggi (e l’altra mia nonna ‒ il mio terzo grande pilastro ‒ quattro). Come accade normalmente in queste situazioni, questi anni sembrano contemporaneamente pochissimi e tantissimi e non è vero che il tempo sistema tutto. Il tempo può attutire il dolore, la quotidianità può spingerti nella cieca marcia sempre avanti e l’incontro con nuove persone e nuove esperienze ‒ insomma, la vita ‒ ti riempirà di quella benzina fatta di stupore, meraviglia ed entusiasmo ma le persone importanti che hai perso ti mancheranno sempre perché sono insostituibili e indispensabili; lo spazio non solo affettivo ma in qualche modo “fisico” che hanno lasciato vuoto nel nostro cuore resterà sempre spalancato come una voragine e dolorante come una ferita. Ed è giusto e sacrosanto che sia così. Non è vero infatti che “siamo tutti utili e nessuno indispensabile”; le persone che amiamo sono indispensabili e quando non ci sono più lasciano uno spazio che non sarà mai rimpiazzato.
Per fortuna, queste grandi persone che hanno riempito la nostra vita riescono in qualche modo a esserci anche dopo la morte. Così, quando sabato ho saputo di avere superato una prova importante, il mio istinto è stato quello di prendere il telefono e chiamare Piacenza. E quando, come ogni volta negli ultimi sei anni, ho dovuto rendermi conto che lì non c’è più nessuno da chiamare, più della tristezza ha vinto in me la gioia per avere mantenuto intatto questo mio riflesso condizionato. Nel mio cuore resta sempre una Piacenza da chiamare.
*In foto: il Facsal, il grande viale alberato nel verde, che è uno dei miei luoghi affettivi piacentini. Foto di Alessandro Prati (presa da qui).
Modi di sprecare il tempo
Pubblicato: 15 febbraio 2012 Archiviato in: desperate housewife, tempus fugit | Tags: spreco 9 commentiIeri, verso metà mattina, ero immersa in un testo sul Cinquecento quando ho sentito un vociare dalle scale. A volte i miei vicini scambiano quattro chiacchiere incrociandosi tra un pianerottolo e l’altro. Tuttavia quello non mi sembrava proprio il tono da “quattro chiacchiere”. Passato del tempo, arrivata l’ora di preparare il pranzo scaldarmi una scaloppina avanzata, le voci erano ancora lì; decisamente non era una amabile conversazione, ma mi son ben guardata dal prestare orecchio, non volevo saperne nulla. Ho acceso invece lo stereo e fatto partire i Rolling Stones. Nei giorni scorsi avevo messo su questa raccolta di hits degli Stones riesumata tra i miei cd e il risultato è che da circa quattro giorni ascolto solo loro e li ballo pure; una bella botta d’energia in questo assedio bianco. Ritornata alla mia scrivania, il litigio sulle scale, sospeso durante l’ora del pranzo, era già ripreso. Mentre poi mi preparavo per uscire, ho iniziato a temere che per quando fossi stata pronta quelli non avrebbero ancora finito; insomma si faceva sempre più probabile la prospettiva di dovere affrontare il nugolo di vicini litiganti e venire interpellata. Inutilmente ho temporeggiato sulla soglia del mio appartamento, sperando in una “pausa merenda” durante la quale poter sfrecciare giù dalle scale indisturbata. Macché merenda, quelli continuavano e io non potevo più aspettare, avevo una riunione importante e dovevo raggiungere il dipartimento in bici nella città ancora in molti punti ghiacciata. Così, scese le scale, sono arrivata al fatidico primo piano, dove i litiganti erano raccolti. Divisi su due fronti, al mio apparire, hanno voltato tutti il viso verso me (aiuto!). Io ho cercato di cavarmela con un Buonasera, ci vediamo!, ma è stato inutile. La Vicina Rognosa del secondo piano – quella che, ho scoperto poi, ha provocato tutta la discussione – mi si è parata di fronte chiedendomi, col tono del tipo “qualunque cosa tu risponda potrà essere rivolta contro di te”:
«Hai visto o non hai visto l’uomo delle pulizie venire a pulire le scale negli ultimi martedì?»
Oddio, cosa rispondo adesso? Dove vorrà andare a parare, questa?, mi sono chiesta in quei tragici secondi cercando disperatamente con lo sguardo la Signora Gentile del primo piano e il Vicino Tuttofare Buono per capire loro da che parte stessero. [Il Vicino Tuttofare Buono è stato da me identificato così fin dal primo momento in cui ho messo piede nel mio condominio; ho questa spontanea attitudine, tutte le volte che mi inserisco in un nuovo gruppo, a individuare subito la persona di riferimento nei casi di difficoltà. E il Vicino Tuttofare Buono è la salda roccia cui riparare in caso per es. di allagamento casa, ragni grossi o imprevisti casalinghi vari. Ho già avuto modo di testarlo nel corso di questo anno e mezzo, restandone enormemente soddisfatta. Ovviamente anch’io cerco di essere una Brava Vicina, nell’ambito delle mie competenze, sia chiaro!]. Alla fine mi sono pronunciata; un po’ mentendo:
«Il signore delle pulizie? Be’, è venuto tutti i martedì. Forse forse – ma potrei sbagliare – può darsi che non sia venuto martedì scorso, ma era il martedì della neve, nessuno è andato al lavoro…».
La Rognosa, che ovviamente sostiene che il tale signore ogni tanto faccia il furbo e salti dei martedì, si è messa a sbraitare sul “difendere i fannulloni pagati coi nostri soldi” e via dicendo. Secondo lei bisognerebbe denunciarlo subito all’amministratrice di condominio affinché venga licenziato. Sembrava di essere alle elementari, quando il perfettino di turno minacciava ogni secondo di “dirlo alla maestra”.
Il Salomone (o il Centrista) che c’è in me ha affermato che non è giusto che paghiamo un fannullone ma che magari, visto che non siamo sicuri di queste presunte assenze ingiustificate, prima di chiamare in causa l’amministratrice sarebbe meglio parlare direttamente con lui, chiedergli se ha fatto delle assenze o no e, se sì, perché (può avere avuto dei motivi diversi dalla pigrizia, nel caso), facendogli così capire che è osservato e vedere come si comporta. Mi sembra una cosa normale, no? Ma ciò non ha placato il litigio; io però ho salutato e mentre pedalavo verso il dipartimento pensavo all’assurdità di perdere tutto un pomeriggio per un litigio del genere. Per me il tempo è prezioso; a volte mi capita di ripromettermi di fare un giro per il web di “un quarto d’ora” e dopo poco mi accorgo che invece è già passata un’ora; e mi sento in colpa, perché di certo in quell’ora potevo fare qualcosa di più costruttivo. Ebbene, confronto allo sprecare quasi un’intera giornata a dare aria alla bocca sulle scale, mi sono sentita un po’ meno in colpa per i miei sprechi. Almeno io, tempo per litigare, non ne perdo mai!
Cicala forever
Pubblicato: 9 dicembre 2011 Archiviato in: calamità ilariesche, occasioni mancate, tempus fugit 12 commentiIn questi giorni, sempre per questa famosa legge del “C’è tempo”, già spiegata qui, mi trovo a dover scrivere entro lunedì una relazione che ovviamente ho iniziato a comporre solo stasera e senza ispirazione (per cui mi sta venendo farraginosa, pesante e procedo lentamente); prevedo notti bianche e giorni angosciati, polsi disarticolati a forza di digitare e neuroni arrostiti. SE ce la farò, so già che nel mio cervellino bacato si formulerà per l’ennesima volta la già citata considerazione che prima o poi mi porterà comunque a una fine ingloriosa, e cioè: “Vedi che anche se mi riduco all’ultimo, alla fine ce la faccio sempre?”. E così, tempo qualche settimana o mese, sarò di nuovo qui, con l’acqua alla gola, il cuore a mille e le meningi strizzate a dire: “Se solo avessi cominciato prima…!”. No, ormai non dico più: “Non mi ridurrò più così”, perché so che non è vero, so che con questo lato del mio carattere c’è poco da fare, mi sono rassegnata; credo addirittura che sotto sotto io me la cerco apposta, questa adrenalina da scadenza, come se godessi ad aggiungere ostacoli in più da superare rispetto a quelli già previsti. Perché in effetti in questi momenti febbrili risento in me scattare quel pungolo competitivo che provavo quando praticavo sport e gareggiavo con la voglia aguzza di vincere. Insomma forse è spirito agonistico contro me stessa. O forse sono solo e semplicemente scema (più probabile). Comunque sia, a lunedì… sperando di essere riuscita a scrivere e consegnare. UFFI.
P.S.: sono incredula: il redirect di splinder funziona!!!
In verticale
Pubblicato: 31 luglio 2010 Archiviato in: tempus fugit, umorismo 7 commentiCerte mattine d’estate è molto difficile alzarsi dal letto. Per esempio stamattina avevo messo la mia brava sveglia alle otto, ma poi c’era la forza di gravità che mi impediva di scendere dal letto. E io, sì, mi dicevo: – Dai, scendi che ci sono un sacco di cose belle da fare! –, ma per quanto mi sforzassi, il massimo che ottenevo era di cambiare posizione; è stata dura riconquistare la verticalità.
A cavalcioni della medaglia
Pubblicato: 31 dicembre 2009 Archiviato in: tempus fugit 5 commentiStremata – ma soddisfatta – per il trasloco, quest’anno abdico a qualunque festeggiamento particolare e passerò l’ultimo dell’anno in casa a sgranocchiare arachidi coi miei genitori, cosa che non accadeva da tempo immemorabile, anche perché quando accadeva, cioè da bambina, ero a Piacenza e c’erano anche sorella, cugini, nonna e prozia. Solitamente non faccio bilanci di fine anno, ma stavolta il bilancio sorge spontaneo. È stato per me un anno travolgente, nel bene e nel male. È l’anno in cui mi sono laureata e quello in cui ho perso il lavoro; l’anno della riacutizzazione ma anche della remissione della malattia; l’anno in cui ho gioito e sofferto per amore con grande intensità; l’anno in cui mi sono sentita sola e in cui ho scoperto di avere invece dei veri, preziosi, amici; l’anno dello sconforto profondo e dell’entusiasmo prorompente causati dalla casa nuova; l’anno della paura e della curiosità; l’anno in cui ho sperimentato per la prima volta uno stato d’ansia generalizzata e l’anno in cui ho imparato a dominarla anche grazie all’eccezionale scoperta della pratica della meditazione. Potrei andare avanti ancora; come avrete capito, è stato un anno vissuto a cavalcioni della famosa medaglia con un lato positivo e negativo, sballottata senza requie. È stato leggermente spossante ma anche eccitante; una cavalcata travolgente. Vorrei che il 2010 fosse un po’ più calmo e più solido. Ora che con la casa nuova e con la mia psiche ballerina mi sono un po’ stabilizzata, spero di essere più determinata nel fissare obiettivi e perseguirli (penso soprattutto al lavoro). Desidero continuare a coltivare la mia fiducia e la positività verso la vita come sto facendo; voglio provare a buttarmi di più nelle cose nuove. E se poi trovassi anche ‘sto benedetto Principe Azzurro che forse avrebbe bisogno di lasciar perdere i draghi e acquistare un buon navigatore satellitare, sarei ancor più contenta. 😉
E voi? Siete soddisfatti della rotta intrapresa?
In ogni caso, buon anno a tutti, l’ultimo di questi anni zero del nuovo secolo!
C’è tempo!
Pubblicato: 12 novembre 2008 Archiviato in: calamità ilariesche, tempus fugit 20 commentiMi piacerebbe raccontare le mie vicissitudini con le agenzie immobiliari e parlare delle simpatiche casine che sto visitando (strappando tempo al tempo che non ho, perché cercare casa sarebbe da considerarsi un lavoro di per sé, ho scoperto); di come sia ormai molto abile nel vedere le cose con gli occhi del realismo fantastico (ormai per deformazione tipica dell’aspirante acquirente di case non vedo – pur standoci dentro – davanti a me solo un appartamento spoglio e con lavori da fare ma vedo quel medesimo appartamento tutto bello splendente, arredato come piacerebbe a me (e qui – almeno per il momento – siamo proprio nel fantastico puro) e con me che offro il tè da perfetta padrona di casa agli ospiti che inviterò spesso e volentieri); oppure potrei narrare qualche aneddoto divertente che non manca mai di allietare le mie simpatiche giornate.
Vorrei, ma non posso.
E sapete perché? Per colpa del mio difetto principale, il mio peggior Nemico, quello contro cui finora ho sempre avuto le armi spuntate, e cioè: la mia irrimediabile (per ora) tendenza a procrastinare sempre fino all’ultimo le cose che devo fare.
Se io posso rimandare una faccenda a domani pur potendola fare oggi, state certi che la rimanderò. Ma io faccio di peggio. Io rimando al domani anche ciò che avrei dovuto fare ieri! Il mio slogan (clamorosamente errato) è: c’è tempo!
Quindi non stupiamoci se, a forza di ripetere C’è tempo!, a un certo punto mi ritrovo regolarmente con l’acqua alla gola, assediata da doveri che, iniziandoli prima, avrei potuto sbrigare con calma e senza problemi; affondata dai classici imprevisti che decidono di piombarti addosso tutti insieme (e tu te la sei cercata perché, se ti fossi messa avanti con le altre cose, gli imprevisti sarebbero bazzecole), aggredita dall’ansia perfino di notte, nei sogni.
E in tutto ciò, quel che mi fa impazzire è che continuo a dirmi: Ah! Se lo avessi fatto prima a quest’ora non sarei ridotta così! Sempre lo stesso errore! La prossima volta non succederà, non rimanderò più!, ma tale saggio proponimento è però immediatamente seguito dal subdolo retropensiero che lo vanifica sul nascere: In fondo tutte le altre volte m’è sempre andata bene, si vede che son fatta così, funziono bene sotto pressione, quindi… non preoccupiamoci troppo… C’È TEMPO!
Di vanità, di belle fole e strani pensieri
Pubblicato: 17 settembre 2008 Archiviato in: tempus fugit 9 commentiCirca un anno e mezzo fa mi è nata una vicina di casa (grazie alla quale per alcuni mesi ho trascorso alcune notti insonni) e qualche settimana dopo è nata un’altra vicina di casa, che abita tre piani sopra di me (il che mi ha permesso di dormire regolarmente). Ora queste due vicine di casa sono diventate amiche (oggi ho potuto osservarle mentre si contendevano un triciclo: quando l’una riusciva a salirci, l’altra piangeva e viceversa, finché non è spuntato un secondo triciclo, il che ha permesso a entrambe di scambiarsi baci e abbracci prima di montare ognuna sul suo bolide per scorrazzare, ora appaiate ora ciascuna per i fatti suoi, per tutto il cortile) e, assieme agli altri bambini del caseggiato, popolano il cortile facendolo risuonare di urla, strilli, risate, pianti, litigi. Per me, che tra pochi giorni darò finalmente gli ultimi due esami universitari e quindi sono reclusa in casa a studiare non avendone la minima voglia, è una gioia ascoltare (e, ogni tanto, guardare) tutto questo movimento di persone felici; persone con i loro dolori e le loro sofferenze, certo, ma di sicuro più capaci di tanti altri di godersi la vita scoprendola sempre nuova. Persone che possono anche essere molto crudeli tra loro, come ben sappiamo, ma senza una vera intenzionalità e con la capacità di chiedere scusa. Come alcune di queste persone incantevoli, gioiose e fiduciose possano poi trasformarsi, crescendo, in certi orrendi individui gretti, grigi, violenti e prepotenti come quelli che popolano le cronache dei giornali e spesso anche la nostra vita quotidiana, è un mistero che neanche centomila manuali di pedagogia riusciranno a spiegare.
Ogni cosa al suo posto
Pubblicato: 3 luglio 2008 Archiviato in: tempus fugit 20 commentiRagazzi, sono commossa. Io, da sempre in lotta contro l’inesorabile passare del tempo che tutto travolge e porta via, oggi ho avuto la prova della persistenza delle piccole cose (ché quelle grandi sappiamo che possono persistere ma è la dissolvenza dei dettagli che solitamente mi sgomenta).
Stamattina, per cambiare la batteria del mio orologio da polso, sono andata da un orologiaio che si trova nella strada in cui ho abitato nei miei primi dieci anni di vita. Il negozio si trova in una mini-galleria, all’interno di un edificio, sulla quale si affacciano altri negozietti e al centro, lungo il corridoio, c’è un baretto, anzi un semplice bancone da bar con dietro il barista.
Fu davanti a questo bancone che vidi per la prima volta nella mia vita un’immagine un po’ erotica che mi turbò.
Giunta alla mia veneranda età mi rendo conto che tale immagine è praticamente innocente, ma all’epoca avevo circa quattro o al massimo cinque anni ed ero facile allo scandalo verso i comportamenti non ortodossi (dal mio limitato punto di vista) degli adulti, come ogni bambino che si rispetti.
Raffigurava una candelina accesa tenuta stretta tra un paio di seni prorompenti (non si vedevano integralmente ovviamente, al punto che da bambina all’inizio avevo pensato che si trattasse di un’altra parte del corpo e solo dopo attento studio pervenni alla verità) ed era appesa su una colonnina nel muro alle spalle del barista, in evidenza. All’epoca l’immagine mi provocò interrogativi piuttosto sconvolgenti, qualche sogghigno, alcune fantasie ardite, un modo diverso di guardare le mie Barbie e un certo stupore: non si vergognava, quel barista, di tenere davanti a tutti una foto di quel genere? (quel povero barista non sa di essere stato in quel momento considerato da me alla stregua di un criminale e tale il suo ricordo si è cristallizzato nella mia mente).
Considerate poi che, essendo quel posto di fronte alla mia casa di allora, ci passavo praticamente ogni giorno e davo sempre un’occhiatina divertita alla cartolina. Questa cartolina in qualche modo ha significato molto per me.
Da allora, di acqua ne è passata sotto i ponti ma il ricordo di quell’immagine (in quanto collegato a una “prima volta”) è rimasto vivo nella mia mente.
Bene, quando stamattina sono passata di lì, dopo anni, mi è venuto automatico lo stesso gesto di allora: girare la testa e cercare la cartolina con lo sguardo. Ma nel farlo ero convinta che non ci sarebbe stata.
E invece c’era.
Era lì. Sopra e sotto erano appese altre due cartoline da luoghi di vacanza, ma al centro restava lei, nella stessa identica posizione di allora. Mi sono sentita letteralmente investita da una cascata di ricordi e sensazioni direttamente dal passato, è stato inebriante, un’epifania piena di tenerezza.
Una fragile cartolina appesa a una parete ha resistito e resiste agli assalti del tempo.
Ora non chiediamoci cosa mai avrà pensato l’ignaro barista (era sempre lui, sempre vestito di bianco, con la stessa espressione un po’ malinconica!) vedendo una giovane donna soffermarsi a contemplare chiaramente quell’immagine per un lasso di tempo che spero sia stato breve nella realtà ma a me è parso lungo!