Le magagne dell’uomo maturo ;-)

Oggi ho voglia di scrivere un post ma non ho mezza voglia di stare a ragionare e a strutturare il testo, quindi attenzione – allarme rosso! – perché mi sto accingendo a scrivere un post a ruota libera, che di solito, quando ne leggo nei blog altrui, trovo un genere di post potenzialmente noiosissimo; quindi se vi annoiate smettete pure di leggere e io non ve ne vorrò, anche perché insomma, alla fine questo è il mio blog e non posso stare sempre a preoccuparmi di non annoiare gli altri, giusto? 😉 Oggi voglio scrivere così, senza limiti di battute e per me stessa, perché questo posto, questo blog, era nato prima di tutto per contenere i miei pensieri; il renderli pubblici è solo perché boh, non si sa mai che possano tornare utili a qualcuno.

Bene. Cominciamo. Il fatto è che negli ultimi due giorni e mezzo sono stata aggredita da un leggero raffreddore e mal di gola e io, pur essendo – ve lo assicuro! – incontestabilmente femmina, quando mi ammalo sono come la maggior parte dei maschi: una vera palla! Non sono come quelle donne che, seppur malate, continuano a vivere le loro giornate come carri armati tenendo dietro a tutto e tutti e senza neanche un lamento; no, io sono come quegli uomini che se appena hanno una gola un po’ arrossata o due linee di febbre vanno in stato comatoso, si lagnano a oltranza e non sono in grado di muovere un dito. Che poi, in realtà, io non sono una donna-carro armato praticamente mai! Io non sono la tipica donna di cui si favella tanto al giorno d’oggi, la donna multitasking, quella che riesce a trasformare ogni giornata da 24 ore in una giornata da 50 ore, quella che fa dieci cose alla volta e poi se ne vanta sui blog o coi colleghi e va in depressione se si accorge che qualcuna è più multitasking di lei; no, io a queste donne di oggi in competizione per chi è più fessa efficiente dico: «Ok, prego, fate pure!». In realtà, se voglio o se sono costretta, riesco anch’io a trasformarmi in questi mezzi robot, come credo possa fare, peraltro, qualunque pirla, maschio o femmina che sia, all’occorrenza: per esempio, in situazioni di emergenza lavorativa mi trasformo – se ce n’è bisogno – in Super Ilaria, non mangio, non dormo e faccio tremila cose alla volta, come periodicamente succede, e ok. Poi però torno in modalità ordinaria e mi raccolgo nella mia modesta condizione. E appunto in tale modesta condizione versavo in questi giorni, mentre accoccolata sul divano mi dolevo dei miei mali di stagione. E devo dire che in questo intontimento da raffreddore, mi venivano a flash, come accade nel dormiveglia, delle bellissime idee per dei post, solo che, stando così male, mi costava troppa fatica scriverli, questi post; ma le idee me le sono tutte appuntate nel mio quadernino degli appunti e nei prossimi giorni saranno tradotte in altrettanti post. Leggi il seguito di questo post »


Dove sono i miei mammuth?

Soltanto oggi mi sono resa conto che mia mamma i Moon boot li chiama mammuth. Ih ih, non ci avevo mai fatto caso, forse perché di solito li chiama “stivali da neve”. Invece oggi l’ho sentita chiaramente urlare: “Dove sono i miei mammuth, che devo andare a scuola?”.

Esemplare di moon boot:                                                   Esemplare di mammuth:

580_0_mb-nylon-001-1


I nostri litigiosi 25 aprile

Rattazzi

[Nella foto: una giovane staffetta partigiana fotografata con la sua fedele bicicletta: sarei stata capace di essere al suo posto, se fossi vissuta allora?]

Fin da quando ero piccola, le storie relative alle due guerre mondiali, alla vita sotto la dittatura fascista e alla resistenza contro l’orrore nazifascista, mi hanno sempre appassionata. Soprattutto quelle raccontatemi a voce dai parenti anziani e dai vecchi del quartiere, uomini e donne che avevano vissuto in prima persona, giovani adulti o ancora ragazzini/e, quegli anni tremendi. Mi è sempre piaciuto anche studiare le stesse vicende sui libri, e Le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea è uno dei libri che mi hanno molto segnata, nel corso della mia formazione come cittadina, oltre che come persona. Ci aggiungo sicuramente anche le testimonianze raccolte da Nuto Revelli, altre pietre miliari per me. Tutte queste vicende non sembrano poi così lontane, in realtà sono inscritte nella memoria visiva, oltre che in quella orale, del territorio in cui vivo, per certi versi ci sono cresciuta dentro. Vicino a casa mia c’è da un lato il cimitero dei polacchi e degli inglesi (cioè i soldati alleati che entrarono a Bologna per liberarla, morirono per noi e sono sepolti qui; questa cosa fin da piccola mi ha sempre fatto molta impressione, perché sono soldati morti per noi e restano sepolti in una terra straniera), dall’altro ogni due passi c’è un cippo con su scritti i nomi dei partigiani caduti per la libertà in quel punto esatto. Quando andavo a scuola ne incontravo due, oggi per andare in casa editrice ne incontro un altro. E quante sono le lapidi che nelle strade del centro rimandano ad analoghi elenchi o ricordano che in quel punto avvenne la tal battaglia o il tale eccidio!

Mi sono sempre chiesta se, se fossi vissuta allora, sarei stata capace di fare la scelta giusta. Non un dissenso silenzioso, ma una resistenza attiva, a rischio della mia vita. Conoscendomi per come sono ora direi di sì perché per me la vita ha senso solo se hai dei valori grandi per cui potresti anche sacrificarla, però è anche facile dirlo stando davanti a un pc. Tra i miei parenti da parte di padre, diversi ne furono capaci e divennero partigiani. Invece i miei parenti da parte di madre erano in parte fascisti, in parte disinteressati, che era come dire fascisti ma “passivi” (sto parlando ormai di nonni/e e bisnonni, prozii/e, molti dei quali ormai morti).

Per questo, il 25 aprile a casa mia è uno stress. Mia mamma quando era piccola sentì dire da suo nonno che i partigiani erano i responsabili indiretti delle rappresaglie contro i civili (nella nostra regione, come in buona parte del Nord Italia, ci furono eccidi atroci da parte dei tedeschi, che ancora oggi restano una ferita aperta, e stragi spropositate). Da allora questa cosa le è rimasta incisa nella testa. Sapete come accade da piccoli: si orecchiano discorsi e si prende per oro colato tutto quello che esce dalla bocca degli adulti. Certe cose, è vero, ti restano più impresse di altre e sono davvero difficili da abbandonare, anche di fronte all’evidenza. Ammettere che anche i propri genitori possono avere torto è un passo così grande che compierlo è davvero complicato. Ciò non toglie che ormai, alla sua età, mia madre dovrebbe essere in grado di distinguere tra quella che era pura propaganda ideologica (cioè una balla fascista) e quella che è la verità storica. Tanto più che ormai sono passati più di 60 anni. Lei, nata negli anni ’50, era ben lungi dal venire al mondo quando succedevano quelle cose, non ha neanche la scusa di essere stata emotivamente coinvolta, come poteva averla suo nonno, che dopo la guerra ha perso tutto. E così, morale della favola, anche oggi ho dovuto sopportare l’annuale litigio tra mio padre e mia madre sul senso del 25 aprile (gli altri anni partecipavo attivamente anch’io, rovinandomi la digestione, ma quest’anno sono stata capace di tenermene fuori, mettendo su un po’ di buona musica rock e alzando il volume onde coprire le urla dei genitori in guerra, tanto ormai le posizioni sono chiare e nessuno cambierà idea). Il litigio non verte ovviamente sul fascismo – mia madre non è fascista e concorda sul fatto che sia giusto festeggiare la liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista – ma sulla bontà o meno dei partigiani: per mia madre dobbiamo ringraziare solo gli americani (e i loro alleati) per la liberazione del nostro paese, invece per mio padre, oltre agli americani, anche quei cittadini e quei militari italiani che si sono opposti ai fascisti e hanno lottato per il loro paese, anche ricorrendo a mezzi offensivi logicamente. Io sono d’accordo con mio padre anche se questi litigi mi sembrano una cosa da pazzi. Io non le capisco queste polemiche, quindi lasciamo perdere i miei genitori (che all’epoca dei fatti in questione non erano neanche nati) e le loro famiglie e parlo per me.

Io sono forse una povera pivella che, quando in quinta elementare la maestra spiegò il Risorgimento e le lotte per l’unità d’Italia, ho provato un’emozione e sono diventata patriota, patriota infervorata di Garibaldi e Mazzini e Cavour e di tutte le problematiche connesse all’unità d’Italia. Io che avevo la fissa dei romanzi d’avventura e delle grandi epopee, mi sembrava un po’ il nostro West.  Ho avuto questo imprinting, l’idea che uno deve amare il suo paese (ero, sempre in quinta elementare, una fanatica del libro Cuore, c’è stato un periodo in cui parlavo come Bottini e De Rossi e mi sentivo molto Garrone). Allora poi la Resistenza per me è stata la continuazione del voler bene al proprio paese al punto da esporsi, lottare e morire, ma non solo per un patriottismo stracco, ma in nome di un’idea di giustizia e di valori che dovrebbero fare parte proprio del nostro DNA e della nostra storia comune. Quindi non solo sono grata ai resistenti ma sono anche fiera che il nostro paese, pur dopo venti anni di dittatura, ne abbia prodotti. Sono i padri della nostra democrazia, cosa possiamo dire di male? Il fatto che ci siano stati talvolta degli eccessi non inficia l’importanza di un fenomeno così importante.
Per me il significato del 25 aprile sta nel chiedersi sempre se anche oggi siamo disposti a esporci e se saremmo pronti a pagare in prima persona per difendere dei valori forti e comuni, nel caso ce ne fosse bisogno. È l’importanza del saper “prendere parte” anziché restare a guardare il corso degli eventi; la lucidità e l’onestà di riconoscere che di fronte a certi scenari, esistono scelte giuste e scelte sbagliate; l’una non vale l’altra, anche se è importante capire le motivazioni di entrambe le scelte. Perché anche se situazioni così tragiche come quelle di allora non ci capiteranno (speriamo) più, è sempre importante stare allerta e pronti a difendere quei valori che, grazie al sacrificio di uomini e donne giusti, hanno poi potuto essere scritti nero su bianco sulla nostra bella Costituzione. Mi sembrano banalità, ma siccome in giro c’è gente (soprattutto giovani) che non sa neanche cosa si festeggia oggi, meglio una banalità in più che una reticenza. Meglio anche i litigi in casa mia: se non altro fin da piccola ho avuto ben chiaro cosa si festeggiasse in questa data!


Buon 25 aprile!

L’esaurimento nervoso dei professori

Don Milani e i suoi ragazzi, nella loro Lettera a una professoressa, proponevano il celibato/nubilato come condizione ideale per gli insegnanti, in modo che questi potessero dedicarsi totalmente ai propri alunni.
Senza arrivare a simili eccessi, voglio però portare all’attenzione dei miei lettori una piaga che nei nostri tempi va sempre più aggravandosi: l’esaurimento nervoso degli insegnanti ricade pesantemente sui figli e sui coniugi degli insegnanti stessi. A loro sono riservate le urla e gli epiteti che l’insegnante non può pronunciare in classe, a loro vengono inflitte le bocciature peggiori, loro sono costretti a sottomettersi a quella rigida disciplina che l’insegnante non riesce più a imporre in classe.
Chi vive con un’insegnante sa, senza bisogno di chiederlo, quando si avvicinano gli scrutini o i collegi docenti o quando è tempo di correggere verifiche. Se per pranzo ti ritrovi un toast o un surgelato riscaldato in fretta, se la cestina dei panni da lavare strabocca e se non trovi una camicia stirata neanche rovistando in tutto l’armadio, se quando ti rivolgi alla persona in questione o non ti sente neanche o ti risponde con un ringhio, è uno di quei momenti.

Che dire, poi, della correzione a conduzione familiare delle verifiche e dei compiti in classe? Tutti i figli di insegnanti di lettere che io conosco sono forzatamente reclutati come consulenti nell’attribuzione di voti e giudizi; inutile dire che, dopo essersi spremuti le meningi nel decifrare calligrafie impossibili e nell’individuare contenuti spesso abilmente nascosti sotto nugoli di scempiaggini, il loro suggerimento non verrà comunque accolto. Ma ciò non toglie che interi pranzi e cene vengano impiegati nel discutere se il tale alunno meriterebbe un 5 o se non fosse meglio piuttosto, tenuto conto anche del voto dato al suo compagno nello stesso compito, un 5+. Questione di poco conto? Ma no, per un quarto di voto in più o in meno l’insegnante rischia di sollevare polemiche che tenderanno, nei casi più gravi, a espandersi oltre le mura scolastiche, finché un genitore che, poniamo il caso, non sa neanche cosa sia un “testo descrittivo”, si sentirà comunque in diritto di presentarsi al ricevimento dando dell’ignorante (ma anche molto peggio) all’insegnante stesso.

Mia mamma quest’anno deve fare i conti con una classe particolarmente contestatrice e con una preside che, pur di non fare cattiva pubblicità alla scuola, le dà tutte vinte ai ragazzi (anche quando hanno palesemente torto). Mia madre ha dovuto piegarsi a fare lezione di storia leggendo riga per riga il libro in classe perché così vogliono gli alunni. Quando ha provato a ribellarsi le hanno messo in classe un cosiddetto counsellor che controllava il suo operato per riferirlo alla preside. Non le è mai capitato di avere problemi con gli allievi in più di ventanni di professione e questa situazione la sta stressando molto (si è messa perfino a piangere davanti agli alunni!). Ma nessuno può capire quanto, di riflesso, sia stressata l’intera famiglia! Meno male siamo forti, ma qui, tra progetti continui, verifiche formative e sommative, studenti riottosi e genitori minacciosi, le famiglie rischiano di entrare in crisi! Ci vorrebbe un counsellor anche per le famiglie dei docenti. Aiutooo!!!


BUON NATALE!

Domani è Natale, e come ogni Natale andrò a Piacenza dalla nonna materna. Noi non siamo dei gran mangioni, in famiglia, ma il pranzo di Natale (come quello di Pasqua) ha sempre avuto un suo menu fisso: antipasto, agnolotti in brodo (gli agnolotti sono una pasta con ripieno di carne), cappone ripieno e dolci (panettone, più torta di meringa con panna e cioccolato, quest’ultima non c’entra niente col Natale in sé ma c’entra con me che non amo il panettone e i torroni).

Da due anni a questa parte mia nonna – ossia la cuoca unica e ufficiale del pranzo natalizio – ha dato forfait: non ha più la forza e la voglia di cucinare e qui subentra il problema, nelle vesti di mia mamma.

Mia mamma, a cui cucinare non piace per niente (pur fingendo di seguire con attenzione le ricette della Clerici e commentandole da grande esperta), vuole però portare avanti la tradizione. Perciò è da circa cinque giorni che fa delle prove per il ripieno del cappone. Gli assaggiatori, oltre a lei stessa, siamo io e mio padre. Ogni giorno mi ritrovo nel piatto una porzione di ripieno, anzi diverse varianti di ripieno (benché, se variazioni ci sono, debbano essere di natura infinitesimale, nonostante l’opposta convinzione di mia madre), con mia mamma che mi interroga, nel modo terribile in cui solo noi donne sappiamo farlo, ossia:

– È venuto meglio questo o questo? –

Tutti sappiamo che di fronte a una domanda simile, qualunque sia la risposta, essa:

  1. verrà vissuta come un’offesa;
  2. sarà ignorata perché chi ha posto la domanda in genere ha già la propria risposta in mente.

E infatti, non c’è una volta che io o mio padre, nonostante lo sguardo angosciato che ci scambiamo e che rivolgiamo supplichevole al ripieno stesso, rispondiamo nel modo giusto.

– A me questo ripieno sembra veramente mooolto buono [captatio benevolentiae] ma non noto grosse differenze tra una prova e l’altra [NdA: non ne trovo nessuna], è gustosissimo in ogni modo! –, ho risposto io.

– Guarda, Eva, comunque tu lo faccia, ti viene sempre bene, è uguale a quello di tua madre! –, rincara la dose mio padre.

Ma nonostante tutto questo nostro entusiasmo, veniamo accusati di non avere il palato, perché non sentiamo le differenze. Allora ci riprova la sera, e stavolta magari provo a dire che qui ci aggiungerei più formaggio. Macché, se mai andrebbe diminuito!

Insomma, dopo queste prove sfiancanti, stamattina i miei sono partiti per Piacenza armati di una ricetta per ogni variante, e io li raggiungerò domani.

Non so come sarà alla fine il ripieno del povero cappone, ma vi posso garantire che io, ripiena, lo sono già!

Cari amici, vi auguro con tutto il cuore di trascorrere un Natale sereno e luminoso.


La gioia del perdono [Ohibò, cosa m’è capitato]

Che felicità! Oggi ho vissuto un’esperienza meravigliosa, quasi mistica: forse per la prima volta in vita mia ho capito cosa significa veramente perdonare. Il mio cuore ha fatto un saltino più su! E ho pensato di raccontarla qui non per vantarmi ma perché magari può essere utile a qualcuno.

Allora, cominciamo col dire che ho sempre creduto di sapere già cos’è il perdono, perché io, per carattere, non me la prendo mai, per es., per qualche torto subìto, non coltivo rancore e di fronte a un’offesa o a un danno ricevuti sono abituata a trovare le cause del comportamento offensivo (es.: la persona è nervosa per i fatti suoi, ha avuto una giornataccia, ragiona in modo diverso dal mio, mi ha fraintesa ecc.) in modo da agire sulle cause senza buttarla sul personale. Cerco di addormentarmi la sera non prima di essermi chiarita e riconciliata con le persone con cui ho eventualmente avuto un dissidio durante il giorno e, una volta raggiunto l’accordo, tendo a dimenticare la cosa e guardo avanti. Ed ero convinta che questo (cioè l’assenza di rabbia e di rivalsa) fosse già perdonare, per cui mi sentivo abbastanza “a posto”, da questo punto di vista.

Ma oggi ho capito che questa è solo una parte del perdono.

Ieri ho avuto una pessima giornata. Mio padre era nel panico per dei problemi al computer (di cui io sono la risolutrice ufficiale); mia sorella, che da Nairobi deve tornare a Londra (dove ora vive) riuscendo a portare con sé finalmente il fidanzato (ottenuti tutti i visti possibili e immaginabili, perché un keniano, per riuscire ad approdare in Gran Bretagna, deve superare delle barriere pazzesche), non riusciva a fare il biglietto per lui e ho dovuto risolvere io la cosa da qui. Vi dico solo che c’è stato un momento in cui avevo due telefoni (uno all’orecchio destro, l’altro al sinistro) e parlavo contemporaneamente con padre e sorella cercando di calmarli e di ragionare sul da farsi! Nel frattempo, ero indietrissimo con lo studio. E in tutto ciò, ecco mia madre che, molto nervosa per dei problemi che ha a scuola, aggrediva (verbalmente) chiunque le capitasse a tiro. Io sono il suo parafulmine personale da sempre. Le sono sempre stata antipatica, non mi ha mai amata. Quindi di fronte alla sua rabbia – che, anche quando non causata da me, si ritorce principalmente contro di me e poi contro mio padre, e questo anche negli anni in cui ho vissuto fuori casa – mi sento completamente inerme. Non so reagire come faccio con chiunque altro, cercando di ragionare e parlando, perché tutte le volte che ci provo peggioro le cose, dato che non sono in gioco questioni oggettive ma emotive. Non riesco neanche a consolarmi trovando giustificazioni, cioè le vedo e non mi arrabbio con lei, ma questo non mi impedisce di soffrire. Perciò, anche ieri, senza neanche risponderle, la mia unica reazione è stata di andare in camera mia e mettermi a piangere (“grande” reazione, eh? Purtroppo sono fatta così, un piantino lo devo fare). E da lì è cominciato il mio inferno personale, durato tutta stanotte e tutta stamattina. Cercavo di ragionare, dicendomi: Perché devo sentirmi così angosciata per l’aggressività di una persona che si stava solo sfogando? L’importante è che l’ho perdonata, no? Non sono arrabbiata, e questo è bene, ma non è giusto starci così male! Non posso lasciare che una singola persona, che ha una visione del mondo tutta sua, condizioni in tal modo la mia vita. Non è logico. Non ha senso agitarmi, dato che stavolta non ho nessuna colpa (a parte il fatto di esistere). Ma tutti questi argomenti, per quanto ragionevoli, non riuscivano a convincere il mio cuore a battere normalmente né il mio stomaco e la mia testa a rilassarsi e distendersi anziché stare lì tesi contorti e pungenti, come coltelli nel mio corpo.

Finché a un certo punto, la rivelazione: perdonare non è solo non arrabbiarsi e condonare all’altro il torto; perdonare è amare, andare oltre, lasciar andare, fare un salto. Mi sono resa conto che finché continuavo a soffrire per quell’episodio, continuavo a restarvi spiritualmente legata e incatenata, e dunque a patirlo, a subirlo all’infinito. Perciò continuavo a risentirne, la mia mente restava collegata a mia madre come termine negativo; non conta che non provassi astio verso di lei o che riuscissi a giustificarla, era come se quell’astio si fosse trasformato in sofferenza che riversavo contro di me. Quindi né io né lei eravamo state realmente liberate da un vero perdono. E mi sono resa anche conto che io, quindi, non ho mai veramente perdonato mia madre nonostante ne fossi ogni volta convinta. Perché pur sentendo di volerle bene non ho mai smesso di soffrire per l’esserne stata tanto spesso respinta. Comunque, quando mi sono resa conto di ciò, e cioè che perdonare significa non solo non serbare rancore ma soprattutto cessare di soffrire per il male subìto, e finché non si riesce a liberarsi del sentimento negativo (rabbia verso l’altro o sofferenza nei propri confronti è uguale, sempre violenza è) non si ha realmente perdonato a chi ci ha fatto male ma si è ancora invischiati in quel male e dunque non perdonare è anche fare del male a se stessi, ho provato un desiderio così puro di sollevarmi da quella palude, una tale voglia di liberare il mio cuore e la figura di mia madre da tutta questa angoscia così appiccicosa e opprimente che, quasi di colpo, ci sono riuscita. È stata una sensazione fisica e spirituale insieme: diventando consapevole di quel che ho detto (ed è una pappardella, a leggerlo, ma a me è bastato un secondo per coglierlo, come una rivelazione improvvisa) e sentendo che volevo amare ed essere libera, tutto il mio corpo si è rilassato, il cuore si è calmato e come svuotato di tutto quel dolore; ho sentito che non solo non soffrivo più per l’episodio di ieri ma che desideravo semplicemente stare in pace e basta, e ho provato amore, anche per mia madre, al di là di ogni considerazione.
Purtroppo non riesco a spiegarmi ma è come un piccolo salto, logico, emotivo, spirituale che ti porta a essere felice e a sentire che ti sei davvero liberato di quella cosa specifica che ti faceva soffrire, perché c’è un amore che va oltre il dolore, e noi ne siamo capaci. Siamo capaci di provare questo amore. E il vero perdono, secondo me, è questo. Non solo il gesto di condonare un torto (perdono “al negativo”), ma quello di rivestire di benevolenza quella stessa persona che te lo ha fatto. Semplicemente perché la felicità e la libertà del cuore stanno nel lasciar andare via le cose brutte senza patirle (e quindi senza essere schiavi della realtà o degli altri che te le impongono) e nel cogliere quelle belle.*

Mi rendo conto che, detta così, suona come un predicozzo pseudoevangelico, ma per me è stata un’esperienza concreta, non una teorizzazione astratta. A scriverla, però, se ne perde l’immediatezza e forse la verità. Be’, io oggi sono riuscita a perdonare un torto circoscritto. Facendolo, ho provato una gioia indescrivibile, mi è sembrato per un attimo di volare. Ho provato uno stato di beatitudine che forse è quello stato in cui vivono e sono vissute in modo permanente le grandi persone Buone di questo mondo. Auguro a me stessa di riuscire a progredire in questa scoperta, a farla pienamente mia e a perdonare mia madre completamente, e sinceramente auguro anche voi di provare questa bellezza (anche se magari tutte queste cose le sapevate già!).

Insomma, proprio come Jake dei Blues Brothers, oggi ho visto la luce!


*Ovviamente qui parlo del perdono di quei piccoli torti o offese che ci fanno soffrire ma che riguardano la vita quotidiana o i rapporti tra persone civili. Credo che per quanto riguarda i grandi drammi, i torti orribili che esulano dalla vita ordinaria, il discorso sia forse lo stesso, ma che occorra molto più tempo, più “lavoro” spirituale e soprattutto che il perdono non sia un “dovere”, un obbligo. È solo qualcosa che libera prima di tutto chi ha subìto il torto, ma probabilmente esistono torti imperdonabili. E un’altra cosa: perdonare non è “dimenticare” con indifferenza, ma saper guardare oltre, sotto una luce diversa, l’ingiustizia subìta. Non significa che se perdono non voglio giustizia. Lo preciso perché ho in mente i genocidi, le vittime del terrorismo, gli omicidi eccetera, cioè cose molto gravi di cui ho ben presente la problematicità.


Storia ridicola di una tragedia mancata

Ogni tanto mia madre, presa da golosità, si fa comprare dei cioccolatini che poi nasconde (queste sarebbero le sue intenzioni, vane perché il “nascondiglio” lo conosciamo tutti) in un mobiletto della cucina. Anche se, appunto, quello non può più essere considerato un nascondiglio, il messaggio è chiaro: le cibarie che vi si trovano sono sue (guai a chi le tocca).

Ora è accaduto che la settimana scorsa mia madre si sia fatta comprare dei meravigliosi e scioglievolissimi cioccolatini Lindor al latte, li abbia “nascosti” e sia poi partita alla volta di Piacenza, dove sarebbe rimasta almeno fino a domenica.

Nella casa vuota, seduta alla mia scrivania, cercavo di dimenticare la presenza dei succulenti cioccolatini.

Non sono per me, intimavo a me stessa. Eppure… vi sembra giusto che una madre di famiglia sia così egoista da togliere il cioccolato di bocca ai suoi cari? A me no! Forte di questa convinzione – prima scacciata dalla mente, in seguito pian piano osservata con distacco, infine accolta con arrendevolezza prima e con determinazione poi – mi sono diretta verso il mobiletto proibito, sentendomi pienamente legittimata a questo esproprio filial-proletario (i tempi son cambiati e questo è ciò che possiamo permetterci). In realtà più che un esproprio mi riproponevo una innocua sottrazione; Se mangio un solo cioccolatino, non se ne accorgerà neanche, pensavo. E così ho fatto. Fin qui, tutto bene.
Il giorno dopo, stessa storia. L’immagine del sacchetto di cioccolatini abbandonato in un triste mobiletto ha ricominciato a tentarmi. Ne ho mangiato un altro (se anche ne mangio un altro, non se ne accorgerà).
È andata così ogni giorno, finché ormai restavano troppo pochi cioccolatini per non accorgersi delle ripetute sottrazioni, cioè del furto.

Be’, ormai li finisco; – mi son detta saggiamente – gliene ricomprerò un altro sacchetto prima che torni.

Sabato pomeriggio – mia madre era già in treno sulla via del ritorno – tranquilla e serena mi sono avviata al supermercato del mio quartiere. Approdata nella corsia cioccolatosa con la sicurezza di chi sa il fatto suo, ho scorso con tranquillità l’invitante scaffale per tutta la sua lunghezza; l’ho scorso una seconda volta con un po’ meno tranquillità; l’ho scorso la terza volta con impazienza mista a inquietudine. Non l’ho scorso una quarta volta solo perché il panico, il terrore e l’angoscia mi avevano completamente paralizzata e il sorriso serafico di pochi secondi prima era ormai irrigidito in una smorfia straziata: dei cioccolatini che cercavo, nessuna traccia. Finiti.
Non potevo neanche prendermela con gli avidi saccheggiatori che me li avevano inconsapevolmente sottratti, data la bontà dei cioccolatini stessi.
Uscita dal supermercato mi figuravo nella mente l’immagine di mia madre che quella sera stessa, dopo cena e prima di ipnotizzarsi davanti al televisore, si sarebbe diretta verso il suo mobiletto provando quel vivificante brivido di golosità all’idea di mangiarsi il suo cioccolatino, avrebbe aperto lo sportello e… sarebbe stata la mia fine. Vedevo già i titoli sui giornali del giorno dopo:

Solare professoressa uccide figlia. Il raptus scatenato da futili motivi.

Mi restava una sola speranza; provare in un altro mini-market poco distante. Ma era una speranza davvero flebile e infatti, alla prova dei fatti, si rivelò vana.
Ormai diretta verso casa, un’illuminazione mi trafisse; forse avevo ancora una possibilità.
Sono entrata nella “Bottega del caffè” come un fuggitivo che spera di avere trovato la salvezza. Con un’incontrollabile espressione di panico in volto ho chiesto alla commessa, con voce rotta dall’angoscia, se avevano i preziosi cioccolatini.

Li avevano.

L i  a v e v a n o !

Sicuramente la commessa mi avrà scambiato per una pazza o per una poveretta affetta da golosità maniacale, da come mi ha guardato, ma credete me ne importasse qualcosa, in quel momento?
Tutto quello che ho fatto è stato stringere a me il prezioso sacchetto, avviarmi verso casa con un sorriso di beatitudine in volto e riporre i cioccolatini al loro posto nel mobiletto.
Quando la sera, come previsto, la loro legittima proprietaria si è avviata verso quel mobile e ne ha aperto lo sportello, ha trovato esattamente ciò che si aspettava. Naturalmente non ho potuto trattenere una risata e le ho raccontato tutto, il che le ha sollevato un po’ il morale (in questo periodo parecchio avvilito, e a ragione).
E così, anche questa è andata. Anzi, si è risolta perfino in una buona azione…


L’angelo (alcolizzato) del focolare

Stamattina, su Repubblica, ho letto la notizia dell’imminente ri-pubblicazione de Il saper vivere di Donna Letizia, manuale di galateo uscito per la prima volta nel 1953 con lo scopo di insegnare le buone maniere alle donne italiane perché restassero, sì, Angeli del Focolare, ma raffinati e al passo con i tempi.
Conosco abbastaza bene la mentalità dell’epoca dato che mia madre, nata nel 1951, si comporta da sempre come se negli anni ’50 avesse avuto vent’anni e da allora il tempo non fosse più passato. Non ho mai ben capito perché sia prigioniera di tale paradosso cronologico, so solo che non c’è niente da fare, bisogna accettarla così ed entrare nella “sua” epoca per comprenderla. Ecco perché, come ho già raccontato qualche mese fa, fin da piccola mi sono sorbita la lettura di tutta L’enciclopedia della fanciulla più i film hollywoodiani anteriori al 1962. Ho provato anche a leggere un romanzo di Delly ma lì non ce l’ho proprio fatta… c’è un limite a tutto.
Credevo ormai di essere vaccinata, dunque, e invece oggi ho riso per mezzora, leggendo a chiunque mi capitasse sotto tiro i piccoli brani che ora vi riporto.

Il primo è dedicato al grosso problema di accasare le figlie che cominciano a inacidire causa età avanzata:

Se, passati i ventitré o i venticinque anni, la ragazza che fino a ieri era un fiore incomincia improvvisamente ad appassire, si fa acida e nervosa, la madre accorta non tarda a “capire”. Capisce cioè che quello che angustia la poverina è il fatto di non aver ancora trovato marito, e che è giunto il momento, per lei, di intervenire. Con estrema discrezione comincerà a darsi da fare: riaggancerà i rapporti con la signora X, che forse non le è simpatica ma ha tre figli in gamba, tutti scapoli. Solleciterà il consiglio e l’aiuto dell’immancabile amica che “conosce tutti”. Spronerà il marito a invitare a teatro il giovane ingegnere Rossi che è povero ma ha una zia ricchissima e zitella, o l’avvocato Bianchi che non è più di primo pelo ma ha una vasta clientela e un appartamento arredato.

Noterete che la figlia non deve fare nulla, si limita a inacidire; è la madre che si dà da fare (e come!) per quell’ebete della figlia, spronando pure il povero marito, e mostrando un cinismo degno di Crudelia De Mon (lunga vita alla zia dell’ingegner Rossi!). L’amore poi, non esiste: cosa volete che sia di fronte a un “appartamento arredato”?

Tra l’altro questa figlia, oltre a non essere in grado di trovare un fidanzato in modo autonomo, non è neanche capace di vestirsi, benché abbia ormai superato i 25 anni (come potrà essere una buona moglie, mi chiedo io, e reggere da sola un’intera casa, allora? Meglio che non si sposi, una tale ebete!).
Leggete qui:

Giustamente persuasa che da una vacanza estiva possa fiorire l’agognato fidanzamento della figlia, la madre previdente prima di decidere la villeggiatura sottopone la sua ragazza a un lucido, spassionato esame. Ha le gambe stortine? Alta un metro e sessanta pesa ottanta chili? Montagna e gonne a campana. Ha le gambe affusolate e un busto da statua? Spiaggia e bikini. Ma anche su questo punto la madre accorta ha idee precise. Il reggiseno del “due pezzi” non avrà le proporzioni di un paio di occhiali da sole e le mutandine non saranno così piccole da potersi confondere con quelle di un neonato. La signorina protesta? Le verrà ricordato che l’immodestia, se attrae i mosconi, mette in fuga i partiti seri.

Sembra una parodia, ma è tutto vero. E c’è ben di peggio, tra l’altro, per es. un bel capitoletto dedicato a come raccomandare il proprio figliolo presso il commendatore di turno (che bel galateo!).

Ora non mi stupisco proprio del fatto che un altro consiglio sia il seguente:

La signora bene attrezzata avrà sempre a disposizione nel mobiletto bar:
una bottiglia di Carpano;
una bottiglia di Campari;
una bottiglia di Martini (secco);
una bottiglia di anisette;
una bottiglia di cognac;
una bottiglia di gin;
una bottiglia di whisky;
una bottiglia di sherry;
una bottiglia di rabarbaro per chi non beve alcolici.

Per vivere una vita come quella, soffocata tra una brillante e nuova cucina americana, qualche perfidia scambiata con le amiche e le peripezie per accasare la figlia lobotomizzata, un goccetto (anche più di uno) la brava casalinga deve pure averlo a disposizione, con la scusa ufficiale di tenerlo pronto per gli amici del marito, certo.

Ora non mi stupisco neanche del fatto che mia madre al posto dell’espressione “trovare un fidanzato” tenda normalmente a dire “accalappiare un tontolone”!


Oggetti smarriti

Mia mamma, rassegnata insegnante di lettere, ha perso – e dico: perso – i compiti in classe dei suoi alunni. Si tratta dell’ultimo compito in classe prima della fine dell’anno scolastico, il compito col voto decisivo insomma, quello che potrebbe affossare del tutto o al contrario innalzare di quel tanto che basta le medie traballanti dei suoi abbastanza svogliati alunni. Domani è l’ultimo giorno di scuola, quindi i compiti devono essere trovati. Gli alunni trepidanti hanno già minacciato di fare una violenta irruzione in casa nostra se i compiti non salteranno fuori (per molti di loro si tratta dell’unico compito per il quale hanno un po’ studiato, proprio quello doveva andare perso?!).
La casa è stata messa sottosopra, modo migliore per non trovare ciò che si cerca.
Poco fa, passando in corridoio di fronte alla sua camera da letto, ho visto mia madre infilata per metà sotto il letto matrimoniale (emergeva solo il fondoschiena).
– Non vorrai farmi credere che c’è il rischio che i compiti dei tuoi alunni siano lì sotto! – ho esclamato sdegnata (dopotutto sono stata un’alunna anch’io).
– Non si sa mai – è stata la risposta.
I compiti non erano neanche lì. E non sono ancora riapparsi.

Io, invece, ho perso il sonno, o meglio mi viene regolarmente sottratto da datori di lavoro & C., perché io di mio dormirei benissimo, se potessi.
Così, per curiosità, immaginando di non essere l’unica in questa snervante situazione, vi pongo questa piccola domanda: voi, in media, quante ore dormite per notte? E quante ve ne basterebbero? A me ne basterebbero anche solo 6 o 7 per notte (non sono una dormigliona) invece attualmente ho una media di 5 ore, ma a volte anche meno; qualche volta mi capita perfino di passare la notte completamente in bianco (dopo è ovvio che scrivo post esasperati come il precedente!).

E voi?


Quando c’è la salute…

Mia madre è un medico mancato, lei ci sguazza nelle malattie, sue e altrui, vere o presunte che siano; perciò non perde una sola puntata del Tg2 Salute e, quando c’è, di Elisir. Non solo guarda e ascolta in religioso silenzio (fulminando con occhiate spaventose o minacciando con gesti inconsulti ogni familiare che incautamente si arrischi a turbare il sacro evento), ma soprattutto prende appunti. E dirò di più: in alcuni casi, videoregistra il programma. Se veniste nel salotto di casa mia e vi avvicinaste al reparto VHS, vedreste impilate numerose videocassette riportanti etichette minacciose come: sciatica, cataratta, cervicale, gastrite eccetera; sono le registrazioni delle puntate della gloriosa trasmissione Più sani più belli, che, in beati tempi di scarso o nullo allarmismo sanitario-televisivo, irruppe con le sue scomode verità e aprì la strada ai vari programmi salutistici che oggi imperversano da mattina a sera e perfino nel weekend sulle nostre reti televisive.

(Di Rosanna Lambertucci mia madre acquistò anche ben due libri di ricette salutari che tentò poi di propinare a marito e figlie, i quali però insorsero uniti vincendo la loro battaglia, che persero però anni dopo di fronte alle ricette di Suor Germana).

Io rispetto i suoi gusti, ovviamente, ma quando inizia il Tg salute di solito ho già finito di pranzare e tendo a dileguarmi; la mia teoria è: già la vita è pesante e purtroppo può capitare di ammalarsi; perché deprimersi inutilmente ascoltando in anticipo disgrazie e malanni vari? [Perché, se per caso ti vengono, sai già cosa fare e a chi rivolgerti, risponderebbe mia madre].

A volte tuttavia mi capita di arrivare a pranzo molto tardi e così mi tocca sorbirmi anch’io il temibile supplemento salutistico del tg. Oggi però mi ha fatto proprio ridere. Perché si parlava d’insonnia, e un neurologo presente in studio (di cui mia mamma ha prontamente annotato il nome, nonostante nessuno in famiglia soffra d’insonnia) ha sentenziato, con aria grave ed esageratamente mesta, che purtroppo non c’è al mondo (finora) alcun medicinale in grado di curare definitivamente questo disturbo (si metta il cuore in pace chi soffre d’insonnia. Amen). Secondo lui, l’unico rimedio valido consiste nel trascorrere tutto il giorno preparandosi a dormire, cioè: tenere ritmi blandi e lenti (grazie, se potessimo, lo faremmo tutti), evitare le occasioni di stress, evitare – soprattutto verso sera – discussioni e litigi, e predisporci fin dalla mattina al sonno che ci aspetta la sera. In pratica, come ha sintetizzato divertito mio padre, anche lui presente, bisognerebbe vivere per dormire… Di fronte a una soluzione così evidentemente ridicola neanche mia madre è riuscita a trattenere il riso, e per una volta il tremendo oracolo televisivo è stato finalmente zittito da sane, sanissime e tuttavia contagiosissime risate!