Una frusta da cucina
Pubblicato: 19 marzo 2017 Archiviato in: esercizi spirituali, morte, nonna, prozia, riflessioni, storie di famiglia | Tags: cimeli di famiglia, il magico potere del riordino, marie kondo 14 commentiQuando qualcuna mi trilla entusiasta su Il magico potere del riordino, quel manuale che insegna a fare ordine in casa desertificandola, io penso sempre che, per chi ha problemi di accumulo, ben più terapeutico di qualsiasi manuale è svuotare la casa di un parente morto. Non lo penso in modo cinico; lo penso in modo dispiaciuto e infatti ovviamente non lo auguro nessuno, anche se purtroppo è una di quelle cose che prima o poi possono capitare.
Questo collegamento mi scatta automaticamente in mente a causa di una delle esperienze più choccanti (probabilmente perché non mi aspettavo proprio, prima di viverla, di restarne così turbata) sostenute negli ultimi anni e cioè liberare la casa di mia nonna e mia zia – le mie amatissime nonna e (pro)zia – dopo la loro morte. Nella mia mente ingenua, pensavo che si trattasse di un’operazione pratica e che comunque non sarebbe stata più dolorosa della perdita delle persone care. Mi sbagliavo. Gli oggetti parlano delle persone che li hanno utilizzati, accumulati, amati. Gli oggetti stanno lì, fermi, solidi, impertinenti, mentre i loro proprietari non ci sono più. In quel vuoto gli oggetti piantano un urlo nel tuo cuore: Non è giusto! Con disperazione li guardi e ti accorgi che è proprio finita.
La cosa peggiore fu ritrovare in un cassetto tutti i biglietti e le cartoline che fin da piccole io e mia sorella avevamo scritto e inviato alla nonna e alla zia; da quelli in cui le nostre calligrafie infantili risultavano ancora buffe e tremolanti a quelli in cui eravamo ormai ragazze e scrivevamo pensieri più adulti ma sempre scherzosi e strabordanti d’amore. Ritrovarmeli in mano – come se tutto quello scrivere fosse stato perfettamente inutile e vano, come fossero tornati alla casella di partenza e in mezzo non ci fosse stato niente – è stato semplicemente orribile.
Non ho voluto condividere con nessuno dei miei familiari quello stato d’animo e quell’angoscia (e la prima volta che sono riuscita a parlarne con qualcuno è stata una settimana fa, perché sapevo che quel qualcuno stava per affrontare un’esperienza analoga) ma il risultato è stato che per parecchio tempo ho smesso di comprare oggetti che non fossero strettamente indispensabili e se qualcuno mi regalava un soprammobile o un souvenir, appoggiandolo su un ripiano il mio pensiero andava a tutti i ninnoli accumulati dalla nonna (ognuno aveva una storia che conoscevo) e alla fatica di chi resta e deve sgombrare la casa. In un attimo di follia ho perfino avuto la tentazione di buttare via tutti i miei preziosi diari ma per fortuna non l’ho fatto. Poi col tempo me ne sono fatta una ragione e ho capito che è un po’ stupido e anche inutile privarsi di quelle cose belle e magari anche superflue (con buona pace di Marie Kondo) che possono impreziosire la nostra casa e la nostra vita. Se dopo la mia morte a qualcuno toccherà trovarcisi in mezzo, be’, mi dispiace per lui ma c’est la vie.
Tuttavia, quando morì anche la mia seconda nonna e i miei genitori e mia sorella mi annunciarono che quella tal domenica sarebbero andati assieme agli altri zii e cugini a svuotare la casa, io decisi serenamente di non andare e me ne restai a casa mia.
Quel pomeriggio mia sorella mi telefonò:
“Sono a casa di nonna. Ci stiamo dividendo le sue cose… C’è qualcosa in particolare che vuoi prenda per te?”.
Sì, una cosa c’era; mi balzò subito alla mente. Non gioielli, abiti o argenteria. Una frusta da cucina. Quella frusta che, quando ero piccola, usavo come fosse un microfono quando giocavo dalla nonna con mia cugina. Ero una presentatrice televisiva, ero una cantante, ero un’astronauta intervistata al ritorno da un viaggio nello Spazio: il microfono era sempre quello.
Sì, avrei voluto quella frusta ed ero stata lì lì per dirlo a mia sorella. Ma poi, no. L’idea di ritrovarmela in mano e il timore di risentire lo sgomento provato tra gli oggetti dell’altra nonna mi fecero subito desistere dalla tentazione e risposi a mia sorella che no, grazie, non desideravo niente. In cuor mio però ero molto combattuta e anche un po’ pentita.
Il giorno dopo, il campanello di casa mia ha suonato. Era mia sorella. Strano, pensavo mentre aprivo la porta, di solito non viene mai senza prima avvisare.
Mi sono trovata di fronte mia sorella, sorridente, con la frusta di mia nonna in mano.
Non dimentico l’esplosione che in quel momento ha allargato il mio cuore: un botto di sorpresa perché mia sorella all’epoca era piccola e mai avrei pensato mi osservasse e ricordasse questi miei giochi; di gratitudine perché non solo si era ricordata ma, nonostante io le avessi detto che non volevo niente, ha preso proprio quella frusta e me l’ha portata; di amore, per lei, per mia nonna, per me, per tutti i momenti belli vissuti insieme. Quell’oggetto mi parlava sì di una persona amata che non c’era più ma attraverso una persona amata che capiva e sapeva.
Quella frusta ha trovato subito posto nella mia cucina. E il mio animo ha ritrovato la pace perché ha capito che il regalo più bello che le persone amate ci fanno sono i bei momenti vissuti insieme, che poi diventano nel futuro bellissimi ricordi, di cui anche gli oggetti possono parlarci; e che se hai anche qualcuno con cui condividerli, la gioia per le relazioni che hai vissuto è più forte del dolore per ciò che hai perso. Davvero, “forte come la morte è l’amore”, e anche di più.
La morte delle persone care continua a farmi paura ma gli oggetti e i ricordi non più.
Il giorno più bello della mia pre-vita
Pubblicato: 1 novembre 2015 Archiviato in: feste, storie di famiglia | Tags: anniversario, crescere, famiglia, matrimonio, vita nuova 9 commentiNel primo pomeriggio di quarant’anni fa, una Fiat 126 verde oliva affrontava per la prima volta l’autostrada, diretta da Bologna a Piacenza. Trasportava un giovane professore, nelle vesti di prossimo sposo; l’abito era stato scelto da sua mamma e sua zia, intenditrici indiscusse di stoffe e vestiti; soppesando e palpando i diversi tessuti, avevano infine scelto un abito elegante sì ma che potesse essere utilizzato anche in seguito al giorno del matrimonio, nella vita normale. Molto più in ansia del solito, il quasi sposo era stato dal barbiere il giorno prima e inspiegabilmente anche quella mattina stessa ‒ benché di capelli in testa non ne avesse poi tanti, a parte un ciuffetto svolazzante sulla fronte ‒ e ora si recava all’appuntamento più importante della sua vita.
Nel frattempo a Piacenza la futura sposa, calma e serena, si vestiva, pettinava e truccava da sola nella sua cameretta di ragazza; osservandosi allo specchio nel semplice abito bianco, infilava un fiore tra i capelli, unica concessione alla vanità.
In chiesa, i parenti raccolti erano tutti sorridenti; soprattutto erano raggianti le madri degli sposi, che senza saperlo erano state a lungo accomunate dal terrore che i rispettivi figli restassero nubile e scapolo. L’unico che per tutta la cerimonia pianse a dirotto per la commozione fu il nonno della sposa, anziano ufficiale di cavalleria pluridecorato e reduce della Grande Guerra ma dal cuore tenero.
Dopo il matrimonio, uno snello ma elegante rinfresco al Circolo Ufficiali ‒ con repentina ricomposizione del suddetto nonno, che lì era di casa ‒ e poi di corsa alla 126, per salirci stavolta in due, diretti all’inizio della vita insieme. Nel cuore della sposa, romanticamente, sono ancora nitide le sensazioni provate nel salutare la famiglia e lasciare la sua città: iniziava una vita completamente nuova. Lo sposo ricorda invece l’ansia di riuscire a riportare se stesso, la sposa e l’automobile sani e salvi a casa, a Bologna.
La mattina dopo la coppia partiva per Taormina in viaggio di nozze; avrebbero trovato gli unici dieci giorni di freddo, pioggia e financo nebbia di quel mese, con sbigottimento dei siciliani stessi che assicuravano loro che solitamente in quella stagione si faceva ancora il bagno in mare. Nasceva così la mia famiglia.
Epopea culinaria con finale triste
Pubblicato: 28 luglio 2015 Archiviato in: storie di famiglia 7 commentiIn coincidenza col mese di Ramadan, mia sorella Linda, che vive e lavora a Khartoum, ha avuto le ferie, che ha trascorso in Italia. Qui ha rivisto gli amici, ha trovato lo stesso clima cui ‒ a costo di plurimi attacchi di orticaria ‒ si era abituata in Sudan e si è dedicata a delle gran mangiate. Scaduto il mese di ferie, la nostra prode ha preparato le valigie riempiendole non tanto di vestiti quanto di alimenti. Perché da quel che si è capito, benché lei in Sudan si trovi benissimo (orticaria a parte), la cucina lascia un po’ a desiderare.* Con grave sgomento del padre, sempre teso a vedere pericoli ovunque (“Ma Linda, e se in aeroporto ti trovano tutto quel salume, non finirai nei guai?”), Linda ha così riempito i bagagli oltre che di confezioni di farina, passata di pomodoro, biscotti e formaggio, anche di piadine, wursteloni e tre salami Milano, pronta a sfidare controlli ed eventuali tribunali islamici pur di soddisfare almeno per un po’ i piaceri della gola. Dopo essersi fermata al Cairo ‒ con tutto il suo carico di cibo ben mimetizzato in valigia ‒ proprio nel giorno di Eid al-Fitr (la festa di fine Ramadan), la golosa Linda è finalmente approdata nella sua casa di Khartoum riuscendo a riporre nel segreto del frigorifero il suo tesoro culinario, senza che la vista né i sentimenti di alcuno fossero stati nel frattempo turbati. Ma questa casa lei l’aveva affittata pochi giorni prima di partire per l’Italia e, nonostante gli accordi col proprietario prevedessero che nel mese di assenza di Linda lui avrebbe fatto dei lavori di ristrutturazione e acquistato un frigorifero nuovo, tutto ciò non era invece stato eseguito (a onor del vero, un suo corteggiatore sudanese l’aveva avvisata che durante il Ramadan i lavori vanno molto a rilento). Risultato? Poche notti dopo il suo arrivo, una serie di desolati messaggi da Khartoum ci avvisavano che un’invasione di formiche aveva fatto strage dei suoi preziosi Pan di stelle del Mulino Bianco prima ancora che lei ne avesse mangiato uno, mentre la contemporanea rottura del frigorifero (e i 40° di temperatura ambiente) aveva gravemente nuociuto a salami e piade. Finiva così l’avventura intercontinentale di tre salami e dei loro compagni. Ci auguriamo almeno che il famigerato olio di palma contenuto nei Pan di stelle sia andato di traverso alle formiche sudanesi.
*Credo lasci molto a desiderare, considerando le capacità di adattamento di mia sorella, che dovunque abbia vissuto ha sempre mangiato il cibo locale.
Il blush, questo sconosciuto
Pubblicato: 2 ottobre 2012 Archiviato in: figuracce, papi, storie di famiglia, umorismo | Tags: kenya, make up 12 commentiUna sera di giugno, al telefono con mia mamma:
– E poi tua sorella ha scritto dicendo che ha urgente bisogno di un blüs [pronunciato con la u lombarda di mia mamma e la s di “sogliola”] –
– Cos’è un blüs? Un giubbino? –
– No… un blus! [pronunciato come blues] –
– Non ti capisco, mamma –
– Un… B-L-U-S-H! –
– Aaah! Un blush! –
– …ecco, quello. Cos’è, esattamente? –
– Un blush è un fard –
– E perché lo chiamate in quel modo, se si è sempre chiamato fard? –
– Perché prima non impazzavano le beauty guru americane, mamma. Comunque, possibile che Linda non trovi un blush a Nairobi? È una metropoli! –
– Se è per questo le serve anche un fondotinta. Sembra strano anche a me ma in tutta Nairobi non ha trovato trucchi adatti alla sua carnagione europea. Sembra che abbia setacciato tutta la città alla ricerca di questo… fard. –
Io immaginavo mia sorella – che tra l’altro in quei giorni era alle prese con simpatici quanto aggressivi batteri intestinali kenyani – girare per il traffico disumano di Nairobi alla ricerca di un blush… vanitas vanitatum. A ogni modo, appurato che io in quei giorni lavoravo dieci ore al giorno e non avevo il tempo materiale di andare in profumeria e considerando che mia madre aveva l’influenza, la sua serafica conclusione su chi dovesse acquistare questo blush e il fondotinta fu la solita:
– Ci mandiamo papà. –
Papà. Papà è quella stessa persona che, pur vivendo fra tre donne e avendo passato la maggior parte della vita ad acquistare cose da donne, cade ogni volta dalle nuvole e sbaglia prodotto. Tanto per intenderci, ecco un esempio tra i tanti che potrei fare: eravamo appena arrivati a Riccione per le vacanze e la casa era ovviamente vuota; mio padre si offre di andare al supermercato e io gli chiedo per favore di comprarmi uno shampoo, con la seguente raccomandazione:
– Non importa la marca [non volevo complicargli le cose], basta che sia da donna –
– Perché, che differenza c’è? –
– Gli shampoo da donna hanno un buon profumo, quelli da uomo no. Per non sbagliarti prendi una confezione rosa o color pastello, così vai sicuro. Mi raccomando, eh? –
Ebbene, dopo mezzora mio padre, di ritorno dal supermercato, ha estratto tutto orgoglioso il “mio” shampoo dal sacchetto. Trattavasi di un flacone enorme di colore grigio scuro, sul quale campeggiava una gigantesca scritta a caratteri argentati: FOR MEN, e con la classica profumazione di pino silvestre (che non ho mai capito perché gli uomini debbano andare in giro tutti odorosi di quel pungente pino silvestre).
Inutile dire che quando, subito dopo, mi sono recata di persona presso lo stesso supermercato, ho trovato interi scaffali ricolmi di graziosi flaconi di shampoo di color rosa e di altri tenui colori pastello; scaffali occupati al 99,9% da codesti delicati prodotti femminili e di cui solo il restante 0,1% – un angolino oscuro e seminascosto – ospitava gli shampoo per uomini.
Pertanto, il solo immaginare mio padre entrare in profumeria, chiedere un blush e magari fare pure lo swatch per individuare quello più adatto alla carnagione di mia sorella era un’idea semplicemente esilarante. Aggiungiamoci pure che mio padre queste cose le fa da una vita ma si vergogna sempre tantissimo, per una questione di “virilità”. E, come detto, regolarmente sbaglia.
Per farla breve, il papi si è recato in almeno tre profumerie, dotato di cellulare attraverso il quale consultare mia mamma in tempo reale, ha esasperato le commesse pretendendo di saggiare tutto l’armamentario di blush et similia presente in negozio, ne è uscito con la mano e il polso segnati da strisce di varie tonalità di rosa – mani con le quali si è poi recato in banca e dal benzinaio – e ha infine acquistato ben tre confezioni di blush, per andare sul sicuro, più una di fondotinta, sulle quali ovviamente mia mamma ha trovato da ridire ma che sono state comunque inviate a Nairobi assieme a rossetti, ombretti e cipria. Chi ha portato personalmente a Nairobi tutto questo po’ po’ di make up? Ovviamente un amico (rigorosamente maschio) di mia sorella, che doveva recarsi lì per lavoro e che è partito da Bologna dotato di una trousse di trucchi che qualunque ragazza avrebbe invidiato.
Il problema del servizio inservibile
Pubblicato: 9 marzo 2010 Archiviato in: casa nuova, desperate housewife, storie di famiglia, umorismo 9 commentiMia nonna e sua sorella hanno passato tutta la vita ad accumulare oggetti preziosi di vario tipo per gli eredi. Ora che entrambe non ci sono più, gli eredi hanno provveduto a un’estenuante spartizione – estenuante a causa del tempo da devolvere alla causa per via della quantità di oggetti, ma svolta in grande armonia – e ora io mi ritrovo con vari servizi di piatti. Due interi mobili del salotto sono ormai intasati di vassoi, tazzine e piatti preziosi. Solo che mi è stata fatta una testa così sui servizi ereditati, al punto che ormai ho paura solo a guardarli.
C’è il Servizio del Castello, che risale a quando i miei vivevano appunto in un castello, che poi hanno perso dopo la guerra; questo servizio di piatti è antichissimo e in realtà non serve a niente: il suo unico scopo consiste nel venire tramandato di generazione in generazione fino alla fine dei tempi. Così quando verrà l’Apocalisse e ogni umano verrà spazzato via, il nostro servizio di piatti sarà comunque presente all’evento. Poi c’è il Servizio Prezioso: questo servizio di piatti in fine porcellana sembrerebbe un po’ più accessibile, ma è da riservare agli ospiti particolarmente di riguardo, tipo la regina d’Inghilterra (che però dubito verrà mai a casa mia; ma vallo a spiegare a mia madre), quindi anche questo lo vedo poco fruibile. Infine c’è il Servizio Bello, che è quello che usavamo per i pranzi di Natale e Pasqua, al quale sono affezionata: questo lo userò per amici e ospiti; in realtà – dato che più che Bello mi sembra Simpatico – inizialmente pensavo di usarlo anche per mangiarci io stessa tutti i giorni; alla fine chi sono io? Un cane? Anche io avrò diritto di mangiare con delle stoviglie dignitose. Ma quando en passant ho espresso questa mia intenzione, ho visto mia madre manifestare i primi sintomi di un attacco di cuore e quindi mi è venuto lo scrupolo e ho deciso che non lo userò tutti i giorni, ma la domenica (o in qualche altro giorno speciale) sì; anche se sarò da sola. Ed è così che ho realizzato che pur avendo una casa piena di piatti e piattini, non ho un piatto in cui mangiare. Mi rifiuto infatti di considerare adatti all’uopo quel po’ di piatti spaiati, sbeccati e usurati dal tempo che mia mamma mi ha passato riesumandoli tra gli scarti di casa. Onde per cui, stamattina ho inforcato la bici e mi sono recata al centro commerciale; impresa ardua perché era in corso l’ennesima bufera di neve, e per giunta, per variare un po’, oggi la neve non scendeva in verticale ma, sospinta da violente raffiche di vento, percorreva un tragitto orizzontale grazie al quale mi si ficcavano fiocchi negli occhi e nel naso. Ciononostante, ne è valsa la pena: al Conad ho trovato un bel servizietto di otto piatti, quattro fondi e quattro lisci, bianchi con una fantasia arancione e gialla sul bordo: costavano solo 6 euro (!!!) e me ne sono subito impossessata. Il colore e la fantasia mi piacciono e, in barba a tutti i servizi e servizioni che posseggo, me ne sono tornata a casa felice come una Pasqua: ora ho i miei piatti di tutti i giorni e mi sembrano bellissimi! Proprio perché mi piacciono, ci farò mangiare anche i miei amici intimi, e qui ho realizzato il paradosso: per noi stessi e per gli amici intimi (cioè quelli che sono “di casa”, e quindi i più preziosi e importanti) tendiamo a usare i servizi meno pregiati, mentre quelli pregiati vengono riservati, non so, ai parenti snob che vedi una volta ogni dieci anni e che ti sono anche antipatici, al collega importante davanti a cui non sfigurare o a persone che non si conoscono bene. Non è un grosso controsenso?
L’ostinato fuggire
Pubblicato: 8 gennaio 2010 Archiviato in: nonna, storie di famiglia, umorismo 10 commentiOgni tanto le mie giornate sono inframmezzate da qualche piccolo dramma. Non stupiamoci se poi il mio carattere tende al drammatico. L’ultimo, martedì mattina.
Ero beatamente in panciolle con un buon libro sotto agli occhi, seduta in poltrona al calduccio mentre fuori nevicava abbondantemente. Ha squillato il telefono, era mia nonna che chiedeva se mio padre passava a prenderla per andare a messa. Questo perché mia nonna – novantaquattrenne – ultimamente tende a perdere il calendario, come dice lei, cioè a confondere i giorni della settimana, o meglio a credere che ogni giorno sia domenica. A parte questo e a parte il fatto che cucina ogni giorno per suo marito (morto quarantanni fa), per il resto è ancora in forma. Ora il problema è che se lei si convince che è domenica e che bisogna andare a messa, se non c’è nessuno che l’accompagna, esce di casa (eludendo la sorveglianza di mia zia) e scappa. Altre volte scappa per andare incontro a mio nonno (sempre quello morto quarantanni fa). E bisogna dire che è bravissima a cogliere fulmineamente l’attimo giusto per sgattaiolare fuori di casa nonostante tra figli e nipoti cerchiamo di tenerla abbastanza sotto controllo. Ammetto di fare sotto sotto il tifo per lei e per queste astute e ostinate fughe. Ma siccome le gambe non la reggono più tanto bene per lunghi tragitti, è molto pericoloso che esca da sola, basta un soffio per farla cadere.
Tornando a martedì mattina, se io fossi stata una nipote scrupolosa, non mi sarei limitata a risponderle che non era domenica e che mi raccomandavo non uscisse ché fuori c’era la neve; avrei previsto che lei sarebbe uscita lo stesso e quindi avrei preso il mio cappottino, avrei attraversato la strada e sarei andata a casa sua a tenerle compagnia. Invece ho scelto la mia poltrona e sono stata punita. Mezzora dopo, il telefono ha squillato di nuovo: mia zia in allarme annunciava che la nonna era fuggita. Noi abitiamo tutti nella stessa strada (io ancora per poco) e quindi io, zia e cugini ci siamo precipitati fuori. Quando ho detto che secondo me era in chiesa, tutti mi hanno dato della pazza: mia nonna, con la neve alta per strada e con quella che continuava a scendere, non poteva certo essere riuscita a spingersi fin lì. Ma io so quanto è testarda mia nonna e anche quanto potente è la scarica di adrenalina che inspiegabilmente la pervade alla sola idea di uscire da sola per andare a messa… quindi, lasciati i cugini a perlustrare la nostra strada, mi sono messa a correre (be’, correre, sotto quella nevicata, è una parola grossa, diciamo ad accelerare) più veloce che potevo, col cuore che mi batteva fortissimo per il senso di colpa; mi sentivo responsabile e mentre attraversavo il prato dribblando slittini, bambini e pupazzi di neve, continuavo a guardarmi intorno, aspettandomi di vedere mia nonna riversa in mezzo alla neve, semiassiderata o con un femore rotto. Approdata invece in chiesa senza essere incappata in corpi giacenti a terra, ho scannerizzato in due secondi l’intero ambiente ed eccola lì, mia nonna, viva e vegeta, unica figurina in quel grande edificio silenzioso. Sedeva assorta in preghiera su una delle prime panche davanti all’altare.
Ho resistito all’impulso di correre subito da lei perché quando si è così agitati e arrabbiati con se stessi si rischia di essere sgarbati. Me ne sono restata lì a sbollire l’ansia e ho telefonato ai cugini per rassicurarli. Poi, calma, le sono andata incontro.
Mi sono seduta accanto a lei sulla panca, dove si è svolto il seguente dialogo:
«Ciao nonna».
«Ah, ciao cara, ma che brava, sei venuta a messa!».
«Ma no, nonna, adesso non c’è nessuna messa, non è domenica, non vedi che la chiesa è vuota? Hai perso il calendario!»
«Ah… davvero?», ha risposto stupita; poi è rimasta un attimo in silenzio, pensierosa, e mi ha detto:
«Ma scusa… se oggi non è domenica e non c’è messa… tu cosa ci fai qui? Non avrai perso il calendario alla tua età?!»
Eh eh, in effetti come ragionamento non fa una piega.
Dopo averla rassicurata sulla mia salute mentale e averle spiegato che ero venuta lì a cercare lei e che la prossima volta non deve scappare di nascosto, l’ho riaccompagnata, non senza qualche rimostranza da parte sua, a casa. E anche stavolta, missione compiuta.
Lo zio fantasma
Pubblicato: 8 dicembre 2009 Archiviato in: lo zio fantasma, occasioni mancate, storie di famiglia, umorismo 9 commentiGli zii di Milano (fratello di mia mamma e sua moglie) sono due ingegneri, mentre noi di Bologna siamo gli umanisti. Quando ci si incontra, non è raro che gli ingegneri prendano bonariamente in giro gli umanisti, sempre tecnologicamente due passi indietro e sicuramente più imbranati e nevrotici di loro. A loro volta gli umanisti non risparmiano frecciatine sull’esagerato pragmatismo degli ingegneri nell’affrontare la vita. E così, di sberleffo in sorriso, da anni si procede con questa allegra diatriba.
Finché qualcuno non ha deciso di mischiare le carte.
A un certo punto, infatti, timidi accenni prima e sempre meno velate allusioni in seguito, fino alla esplicita richiesta di aiuto, sono giunti dagli zii ingegneri. Con grande sgomento, accompagnato da ilarità, degli umanisti, si annunciavano infatti da Milano avvistamenti di fantasmi, o meglio, di un fantasma. Un fantasma particolarmente cortese, per la verità, che si premurava per esempio di portare giù la spazzatura, ma non disdegnava di fare anche qualche dispetto innocente in particolare allo zio ingegnere: era lui la vittima predestinata. Immaginate l’imbarazzo dello zio nel confessare la cosa e lo stupore degli umanisti nel ricevere tale confidenza.
– Ma come? Se mai dovremmo essere noi a vedere fantasmi! –, ironizzavano gli umanisti, sotto sotto però sghignazzando e ben felici che a perdere la bussola fossero gli ingegneri.
Ma gli zii ingegneri non avevano più tanta voglia di scherzare e invece si scervellavano su chi potesse essere il fantasma che, nel silenzio della loro casa, si divertiva ad accendere e spegnere le luci, a staccare piccole borchie dalle sedie o a spostare le tendine ricamate del bagno. Le ipotesi si sprecavano: si trattava forse dello spirito della precedente proprietaria dell’appartamento (questo sembrava giustificare l’interesse per le preziose tendine del bagno, risalenti a quando lei vi abitava)? O era forse il fantasma dispettoso di qualche antico bambino? Dopo inutili tentativi degli umanisti di riportare alla ragione gli ingegneri (sicuri che non sia uno dei vostri figli, che vi prende in giro? E se per le luci faceste controllare il vostro impianto elettrico? La borchia della sedia sarà stata già allentata di suo! Eccetera.), mio zio ebbe l’illuminazione: il fantasma doveva essere per forza suo fratello, il mio amato zio Carlo di cui ho parlato qui, venuto a punire il fratello per essersi portato a Milano uno dei suoi libri; e siccome questo zio Carlo era anche un appassionato di esoterismo e aveva tutta una sua bibliotechina sui fenomeni paranormali, compreso lo spiritismo, secondo lo zio ingegnere non c’erano più dubbi sull’identità del fantasma. E cos’ha fatto allora mio zio, oltre a correre a Piacenza per riportare a posto il libro del fratello? Ha chiamato un prete per benedire la casa! Nel frattempo anche mia mamma, pur non credendo agli spiriti, a forza di passare tutte le sere al telefono a confortare il fratello, affermava di aver visto con la coda dell’occhio una presenza non ben identificata, un pomeriggio che era sola in casa. E cominciava a ragionare sul fatto che in fondo per noi vent’anni (gli anni passati dalla morte di mio zio) sono tanti ma rispetto all’eternità sono un secondo, e che quindi mio zio poteva benissimo essere in giro, benché naturalmente lei non credesse agli spiriti… Per non parlare del fatto che un giorno, non trovando più gli occhiali, cosa peraltro del tutto abituale, le scappò detto: “Oddio, non li avrà mica nascosti il fantasma dello zio?”. Insomma anche mia mamma stava perdendo il lume della ragione e ormai anche in casa nostra era tutto un vivere sul chi-va-là.
In tutto questo, io, che non credo negli spiriti e sono un tipo razionale, ero indignata per il fatto che mio zio avesse fatto benedire la casa. Cioè se, ponendoci nella sua ottica assurda, ci fosse stato davvero in giro il fantasma di suo fratello, avrebbe dovuto essere felice, no? Altro che chiamare un prete! Così mio zio, oltre a doversela vedere con la sua paura del fantasma, doveva vedersela anche con la nipote in carne e ossa che prendeva le parti del fantasma, che solo a sentirlo nominare lo zio diventava tutto bianco dalla paura e mi diceva con voce strozzata di star zitta e non evocare certe cose.
Fantasma o no, lo zio ingegnere era ormai prossimo alla follia.
Alla fine, dopo la benedizione, il fantasma non si è fatto più sentire. Questione di suggestione, dico io. Questione di benedizione, dice lo zio ingegnere.
Nonostante il mio scetticismo, ammetto (sapete com’è, non si sa mai!) di avere comunque passato un pomeriggio in cui ero sola in casa a parlare ad alta voce in questo modo:
– Ehm… Io non credo ai fantasmi. Però, se per caso ci sei, caro zio, ti prego, vieni da me. Non mi spaventerò. Non chiamerò preti a benedire la casa come se tu fossi una maledizione. Sai che ti voglio bene. Ma poi scusa, proprio da tuo fratello dovevi andare? Si vede che la morte ti ha confuso un po’ le idee! Perché non venire dalla tua nipote preferita, che ti riserverebbe ben altra accoglienza? Insomma… non ci credo, so che sto parlando da sola… ma se invece ci sei, fatti sentire! –.
Non si è fatto sentire.
Passata la bufera, gli zii ingegneri sono tornati al loro pragmatismo e gli umanisti alla loro imbranataggine. Ma a me piace pensare che forse, da qualche parte, lo zio fantasma ci guarda e se la ride.
I nostri litigiosi 25 aprile
Pubblicato: 25 aprile 2009 Archiviato in: guerra civile familiare, mia mamma, politica, storie di famiglia | Tags: resistenza 15 commenti[Nella foto: una giovane staffetta partigiana fotografata con la sua fedele bicicletta: sarei stata capace di essere al suo posto, se fossi vissuta allora?]
Fin da quando ero piccola, le storie relative alle due guerre mondiali, alla vita sotto la dittatura fascista e alla resistenza contro l’orrore nazifascista, mi hanno sempre appassionata. Soprattutto quelle raccontatemi a voce dai parenti anziani e dai vecchi del quartiere, uomini e donne che avevano vissuto in prima persona, giovani adulti o ancora ragazzini/e, quegli anni tremendi. Mi è sempre piaciuto anche studiare le stesse vicende sui libri, e Le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea è uno dei libri che mi hanno molto segnata, nel corso della mia formazione come cittadina, oltre che come persona. Ci aggiungo sicuramente anche le testimonianze raccolte da Nuto Revelli, altre pietre miliari per me. Tutte queste vicende non sembrano poi così lontane, in realtà sono inscritte nella memoria visiva, oltre che in quella orale, del territorio in cui vivo, per certi versi ci sono cresciuta dentro. Vicino a casa mia c’è da un lato il cimitero dei polacchi e degli inglesi (cioè i soldati alleati che entrarono a Bologna per liberarla, morirono per noi e sono sepolti qui; questa cosa fin da piccola mi ha sempre fatto molta impressione, perché sono soldati morti per noi e restano sepolti in una terra straniera), dall’altro ogni due passi c’è un cippo con su scritti i nomi dei partigiani caduti per la libertà in quel punto esatto. Quando andavo a scuola ne incontravo due, oggi per andare in casa editrice ne incontro un altro. E quante sono le lapidi che nelle strade del centro rimandano ad analoghi elenchi o ricordano che in quel punto avvenne la tal battaglia o il tale eccidio!
Mi sono sempre chiesta se, se fossi vissuta allora, sarei stata capace di fare la scelta giusta. Non un dissenso silenzioso, ma una resistenza attiva, a rischio della mia vita. Conoscendomi per come sono ora direi di sì perché per me la vita ha senso solo se hai dei valori grandi per cui potresti anche sacrificarla, però è anche facile dirlo stando davanti a un pc. Tra i miei parenti da parte di padre, diversi ne furono capaci e divennero partigiani. Invece i miei parenti da parte di madre erano in parte fascisti, in parte disinteressati, che era come dire fascisti ma “passivi” (sto parlando ormai di nonni/e e bisnonni, prozii/e, molti dei quali ormai morti).
Per questo, il 25 aprile a casa mia è uno stress. Mia mamma quando era piccola sentì dire da suo nonno che i partigiani erano i responsabili indiretti delle rappresaglie contro i civili (nella nostra regione, come in buona parte del Nord Italia, ci furono eccidi atroci da parte dei tedeschi, che ancora oggi restano una ferita aperta, e stragi spropositate). Da allora questa cosa le è rimasta incisa nella testa. Sapete come accade da piccoli: si orecchiano discorsi e si prende per oro colato tutto quello che esce dalla bocca degli adulti. Certe cose, è vero, ti restano più impresse di altre e sono davvero difficili da abbandonare, anche di fronte all’evidenza. Ammettere che anche i propri genitori possono avere torto è un passo così grande che compierlo è davvero complicato. Ciò non toglie che ormai, alla sua età, mia madre dovrebbe essere in grado di distinguere tra quella che era pura propaganda ideologica (cioè una balla fascista) e quella che è la verità storica. Tanto più che ormai sono passati più di 60 anni. Lei, nata negli anni ’50, era ben lungi dal venire al mondo quando succedevano quelle cose, non ha neanche la scusa di essere stata emotivamente coinvolta, come poteva averla suo nonno, che dopo la guerra ha perso tutto. E così, morale della favola, anche oggi ho dovuto sopportare l’annuale litigio tra mio padre e mia madre sul senso del 25 aprile (gli altri anni partecipavo attivamente anch’io, rovinandomi la digestione, ma quest’anno sono stata capace di tenermene fuori, mettendo su un po’ di buona musica rock e alzando il volume onde coprire le urla dei genitori in guerra, tanto ormai le posizioni sono chiare e nessuno cambierà idea). Il litigio non verte ovviamente sul fascismo – mia madre non è fascista e concorda sul fatto che sia giusto festeggiare la liberazione dell’Italia dall’oppressione nazifascista – ma sulla bontà o meno dei partigiani: per mia madre dobbiamo ringraziare solo gli americani (e i loro alleati) per la liberazione del nostro paese, invece per mio padre, oltre agli americani, anche quei cittadini e quei militari italiani che si sono opposti ai fascisti e hanno lottato per il loro paese, anche ricorrendo a mezzi offensivi logicamente. Io sono d’accordo con mio padre anche se questi litigi mi sembrano una cosa da pazzi. Io non le capisco queste polemiche, quindi lasciamo perdere i miei genitori (che all’epoca dei fatti in questione non erano neanche nati) e le loro famiglie e parlo per me.
Io sono forse una povera pivella che, quando in quinta elementare la maestra spiegò il Risorgimento e le lotte per l’unità d’Italia, ho provato un’emozione e sono diventata patriota, patriota infervorata di Garibaldi e Mazzini e Cavour e di tutte le problematiche connesse all’unità d’Italia. Io che avevo la fissa dei romanzi d’avventura e delle grandi epopee, mi sembrava un po’ il nostro West. Ho avuto questo imprinting, l’idea che uno deve amare il suo paese (ero, sempre in quinta elementare, una fanatica del libro Cuore, c’è stato un periodo in cui parlavo come Bottini e De Rossi e mi sentivo molto Garrone). Allora poi la Resistenza per me è stata la continuazione del voler bene al proprio paese al punto da esporsi, lottare e morire, ma non solo per un patriottismo stracco, ma in nome di un’idea di giustizia e di valori che dovrebbero fare parte proprio del nostro DNA e della nostra storia comune. Quindi non solo sono grata ai resistenti ma sono anche fiera che il nostro paese, pur dopo venti anni di dittatura, ne abbia prodotti. Sono i padri della nostra democrazia, cosa possiamo dire di male? Il fatto che ci siano stati talvolta degli eccessi non inficia l’importanza di un fenomeno così importante.
Per me il significato del 25 aprile sta nel chiedersi sempre se anche oggi siamo disposti a esporci e se saremmo pronti a pagare in prima persona per difendere dei valori forti e comuni, nel caso ce ne fosse bisogno. È l’importanza del saper “prendere parte” anziché restare a guardare il corso degli eventi; la lucidità e l’onestà di riconoscere che di fronte a certi scenari, esistono scelte giuste e scelte sbagliate; l’una non vale l’altra, anche se è importante capire le motivazioni di entrambe le scelte. Perché anche se situazioni così tragiche come quelle di allora non ci capiteranno (speriamo) più, è sempre importante stare allerta e pronti a difendere quei valori che, grazie al sacrificio di uomini e donne giusti, hanno poi potuto essere scritti nero su bianco sulla nostra bella Costituzione. Mi sembrano banalità, ma siccome in giro c’è gente (soprattutto giovani) che non sa neanche cosa si festeggia oggi, meglio una banalità in più che una reticenza. Meglio anche i litigi in casa mia: se non altro fin da piccola ho avuto ben chiaro cosa si festeggiasse in questa data!
Buon 25 aprile!
BUON NATALE!
Pubblicato: 24 dicembre 2008 Archiviato in: feste, mia mamma, storie di famiglia 19 commentiDomani è Natale, e come ogni Natale andrò a Piacenza dalla nonna materna. Noi non siamo dei gran mangioni, in famiglia, ma il pranzo di Natale (come quello di Pasqua) ha sempre avuto un suo menu fisso: antipasto, agnolotti in brodo (gli agnolotti sono una pasta con ripieno di carne), cappone ripieno e dolci (panettone, più torta di meringa con panna e cioccolato, quest’ultima non c’entra niente col Natale in sé ma c’entra con me che non amo il panettone e i torroni).
Da due anni a questa parte mia nonna – ossia la cuoca unica e ufficiale del pranzo natalizio – ha dato forfait: non ha più la forza e la voglia di cucinare e qui subentra il problema, nelle vesti di mia mamma.
Mia mamma, a cui cucinare non piace per niente (pur fingendo di seguire con attenzione le ricette della Clerici e commentandole da grande esperta), vuole però portare avanti la tradizione. Perciò è da circa cinque giorni che fa delle prove per il ripieno del cappone. Gli assaggiatori, oltre a lei stessa, siamo io e mio padre. Ogni giorno mi ritrovo nel piatto una porzione di ripieno, anzi diverse varianti di ripieno (benché, se variazioni ci sono, debbano essere di natura infinitesimale, nonostante l’opposta convinzione di mia madre), con mia mamma che mi interroga, nel modo terribile in cui solo noi donne sappiamo farlo, ossia:
– È venuto meglio questo o questo? –
Tutti sappiamo che di fronte a una domanda simile, qualunque sia la risposta, essa:
- verrà vissuta come un’offesa;
- sarà ignorata perché chi ha posto la domanda in genere ha già la propria risposta in mente.
E infatti, non c’è una volta che io o mio padre, nonostante lo sguardo angosciato che ci scambiamo e che rivolgiamo supplichevole al ripieno stesso, rispondiamo nel modo giusto.
– A me questo ripieno sembra veramente mooolto buono [captatio benevolentiae] ma non noto grosse differenze tra una prova e l’altra [NdA: non ne trovo nessuna], è gustosissimo in ogni modo! –, ho risposto io.
– Guarda, Eva, comunque tu lo faccia, ti viene sempre bene, è uguale a quello di tua madre! –, rincara la dose mio padre.
Ma nonostante tutto questo nostro entusiasmo, veniamo accusati di non avere il palato, perché non sentiamo le differenze. Allora ci riprova la sera, e stavolta magari provo a dire che qui ci aggiungerei più formaggio. Macché, se mai andrebbe diminuito!
Insomma, dopo queste prove sfiancanti, stamattina i miei sono partiti per Piacenza armati di una ricetta per ogni variante, e io li raggiungerò domani.
Non so come sarà alla fine il ripieno del povero cappone, ma vi posso garantire che io, ripiena, lo sono già!
Cari amici, vi auguro con tutto il cuore di trascorrere un Natale sereno e luminoso.
La luna
Pubblicato: 14 dicembre 2008 Archiviato in: felicità, nonna, prozia, storie di famiglia 12 commenti
“Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più.”
Italo Calvino
“E anche se l’uomo vi ha posato i piedi la luna è rimasta la luna”.
Danilo Dolci
Stasera mi sento come un pugile suonato. Ho ricevuto una di quelle batoste che, potendo, se fossi una persona libera o incosciente, mi farei il mio bel fagottino come un qualunque Giovannino delle fiabe, me lo caricherei in spalla e partirei per il vasto mondo in cerca di fortuna. Ché qualunque bosco con annesso lupo cattivo mi procurerebbe meno dolore di quello che posso provocarmi io con il mio stesso cuore. Qualche giorno fa, in un raptus di entusiasmo, avevo deciso di fondare (per me stessa) il Comitato di Liberazione Anime Pavide, che magari per certi ambiti non lo rinnego ma, per quanto riguarda il settore emotivo, la mia anima resterà sempre quel budino tremolante in cerca d’amore, pronta a lasciarsi soggiogare pur di riceverne un po’, anche a costo di essere rimproverata di tenere poco alla propria dignità. Che magari può anche essere vero ma a me va bene lo stesso, perché quando si esagera con la dignità, rinserrandocisi dentro, si rischia di restare soli come una statua, e io non voglio, ché lo sono già anche troppo. Una statua di sicuro non rimane ferita. Io sì.
Di solito, quando sono così, anche se è notte, esco e faccio una corsa, o prendo la bici e pedalo un po’. E guardo la luna, che anche se so che è solo un freddo satellite con piantata sopra una bandiera americana, ha comunque sempre il potere di consolarmi un po’, perché è lì impassibile ma sembra lo stesso che splenda per noi, come le stelle e tutto l’ambaradàn celeste. In questo ho preso da mia nonna che ancora oggi, ogni volta che la sera fa il giro della casa per abbassare le tapparelle nelle varie stanze, a ogni finestra si sofferma un po’ in contemplazione e quindi questa operazione dura sempre molto tempo. E fino all’anno scorso, quando c’era ancora la mia prozia, che abitava con lei, mia nonna, dopo avere fatto questo giro, raccontava a mia zia com’era la luna quella sera e com’era bella in generale, e a volte citava anche i versi che qualche poeta aveva dedicato alla luna. Allora regolarmente mia zia la accusava di essere ridicola, ancora dopo ottant’anni a emozionarsi davanti alla luna, e mia nonna la accusava di essere invece una d’annunziana, per via della sua ansia di circondarsi di cose belle e lussuose, mentre a lei piaceva ammirare la natura. E così ogni sera mia nonna e sua sorella andavano a letto litigando per via delle loro divergenze sulla luna. Tranne forse quando pioveva, come in queste sere, che la luna non si vede. E così me ne andrò a letto anch’io e magari me la sognerò, la luna.