Viva gli sposi
Pubblicato: 28 Maggio 2017 Archiviato in: felicità, feste | Tags: amore, matrimonio 4 commenti
Marc Chagall, Gli sposi della torre Eiffel
I matrimoni, per chi è invitato, possono essere una gran noia (diciamo una vera e propria gran palla) o un’occasione di profonda gioia, a seconda soprattutto del rapporto che si ha con gli sposi. Io personalmente non sono una grande fan delle cerimonie (sto parlando del contorno di festeggiamenti e banchetti, non del significato dei riti di per sé) quali battesimi, comunioni, cresime e appunto matrimoni. Quando però si sposa una delle tue amiche più care, quando tutto – sia in chiesa che fuori – si svolge all’insegna della semplicità, della spontaneità e della condivisione gioiosa; quando non ci sono trecento invitati ma quelli che veramente conoscono e amano gli sposi; quando il posto prescelto per il pranzo insieme non è distante 60 chilometri rispetto alla chiesa ma lo si raggiunge comodamente a piedi tutti insieme e quando poi ci si mette pure il sole a regalare una splendida giornata e un cielo azzurro che qui a Bologna non è poi così frequente poiché più spesso, anche col sole, è offuscato di umidità e foschia risultando biancastro, tutto congiura verso la perfezione.
Così la sottoscritta, cui ultimamente venivano in mente solo post seri a tema mortifero (perché del tutto casualmente – ma sarà poi davvero un caso? – ho letto dei gran libri intrisi di morte a ogni riga), si trova oggi nello stato d’animo più lontano e avulso da pensieri di stasi, a riprova del fatto che in genere la nostra realtà del momento non coincide con tutta la realtà – o non è una buona, nel senso di unica valida, lente attraverso cui guardare il mondo fuori – e che sani bagni di folla fanno pur bene.
I post mortiferi comunque arriveranno pure quelli… 😉
Intanto lunga vita agli sposi, al loro bambino di nove mesi che nell’occasione è stato battezzato e che, vedendo e sentendo battere le mani, se le è spellate pure lui applaudendo felice in prima fila ai genitori sposi, e ammettiamo che ascoltare tra le letture l’inno alla carità di San Paolo fa solo bene al cuore, considerando il contesto in cui viviamo; perdoniamo anche il prete per il suo guardare evidentemente un po’ troppa televisione, date le citazioni durante l’omelia.
Una buona Pasqua
Pubblicato: 16 aprile 2017 Archiviato in: feste 8 commenti
(illustrazione di Maxfield Parrish per L’età d’oro)
“Erano ciechi a tutto tranne che alle apparenze. Per loro il frutteto (un luogo prodigioso abitato dai folletti!) non era nient’altro che il posto dove gli alberi producevano tante mele e tante ciliegie. Mai che mettessero piede nell’abetaia o nel boschetto di noccioli, e nemmeno si immaginavano le meraviglie che vi erano nascoste.”
Con questa citazione dallo splendido L’età d’oro di Kenneth Grahame, auguro a chi passa di qui buona Pasqua. Cos’è una buona Pasqua? Sicuramente trascorrere una giornata serena in famiglia e/o con gli amici o anche con se stessi ma in pienezza. Poi magari anche lasciarsi ispirare dal potente significato di questa giornata per aprire un po’ gli occhi sulla nostra vita e vedere le stesse cose e noi stessi con uno sguardo nuovo, uno sguardo forte e speranzoso, uno sguardo curioso. Auguri!
L’Ussaro sul rogo
Pubblicato: 31 dicembre 2016 Archiviato in: curiosità, feste, la mia città | Tags: capodanno, vecchione 10 commentiQuesta mattina, passeggiando in Centro, osservo il “vecchione” che verrà bruciato in piazza allo scoccare della mezzanotte per salutare l’anno vecchio.
‒ Ma è uno dell’Isis? Ma siamo matti a provocare così? ‒, esclama l’amica che è con me.
‒ Ma no, è un russo, un cosacco! ‒, si intromette un anziano lì vicino.
‒ Veramente è un Ussaro… ‒, dico io, ma lo so solo perché lo avevo letto su internet ieri sera.
Fatto sta che, a giudicare dai commenti, i più sono convinti che quel tipo minaccioso alto 10 metri sia “un russo” e non si capacitano del fatto che stasera noi pacifici bolognesi metteremo al rogo un cittadino russo, coi tempi che corrono, poi. Mi sa che qui più della conoscenza della storia militare poté lo Zecchino d’Oro col suo Popoff.
Per quanto mi riguarda, questo Vecchione per essere bello è bello, proprio ben fatto, tuttavia mi fa un po’ impressione andare a bruciare un Ussaro in piazza anziché un classico “vecchio” o “vecchia” indistinto. Anche vedendola come provocazione, contro le chiusure delle frontiere e i nazionalismi (come è nell’intenzione dichiarata dall’autore qui), mi pare un po’ stantia.
In ogni caso, tutto finirà in fumo (fumo che non vedrò perché mi guardo bene dall’andare in piazza stasera) e domani ce ne saremo già dimenticati.
Però eccomi con gli auguri di rito… come Snoopy sono pronta ad accogliere l’anno nuovo. Saluto con gratitudine il 2016 che per quanto mi riguarda è stato davvero tanto bello e auguro a me e a chi legge di poter vivere il nuovo anno coltivando la gioia del quotidiano e gli affetti, perché qualunque cosa ci succeda saremo più forti se abbiamo in noi e attorno a noi la protezione giusta. Auguri! 🙂
Il giorno più bello della mia pre-vita
Pubblicato: 1 novembre 2015 Archiviato in: feste, storie di famiglia | Tags: anniversario, crescere, famiglia, matrimonio, vita nuova 9 commentiNel primo pomeriggio di quarant’anni fa, una Fiat 126 verde oliva affrontava per la prima volta l’autostrada, diretta da Bologna a Piacenza. Trasportava un giovane professore, nelle vesti di prossimo sposo; l’abito era stato scelto da sua mamma e sua zia, intenditrici indiscusse di stoffe e vestiti; soppesando e palpando i diversi tessuti, avevano infine scelto un abito elegante sì ma che potesse essere utilizzato anche in seguito al giorno del matrimonio, nella vita normale. Molto più in ansia del solito, il quasi sposo era stato dal barbiere il giorno prima e inspiegabilmente anche quella mattina stessa ‒ benché di capelli in testa non ne avesse poi tanti, a parte un ciuffetto svolazzante sulla fronte ‒ e ora si recava all’appuntamento più importante della sua vita.
Nel frattempo a Piacenza la futura sposa, calma e serena, si vestiva, pettinava e truccava da sola nella sua cameretta di ragazza; osservandosi allo specchio nel semplice abito bianco, infilava un fiore tra i capelli, unica concessione alla vanità.
In chiesa, i parenti raccolti erano tutti sorridenti; soprattutto erano raggianti le madri degli sposi, che senza saperlo erano state a lungo accomunate dal terrore che i rispettivi figli restassero nubile e scapolo. L’unico che per tutta la cerimonia pianse a dirotto per la commozione fu il nonno della sposa, anziano ufficiale di cavalleria pluridecorato e reduce della Grande Guerra ma dal cuore tenero.
Dopo il matrimonio, uno snello ma elegante rinfresco al Circolo Ufficiali ‒ con repentina ricomposizione del suddetto nonno, che lì era di casa ‒ e poi di corsa alla 126, per salirci stavolta in due, diretti all’inizio della vita insieme. Nel cuore della sposa, romanticamente, sono ancora nitide le sensazioni provate nel salutare la famiglia e lasciare la sua città: iniziava una vita completamente nuova. Lo sposo ricorda invece l’ansia di riuscire a riportare se stesso, la sposa e l’automobile sani e salvi a casa, a Bologna.
La mattina dopo la coppia partiva per Taormina in viaggio di nozze; avrebbero trovato gli unici dieci giorni di freddo, pioggia e financo nebbia di quel mese, con sbigottimento dei siciliani stessi che assicuravano loro che solitamente in quella stagione si faceva ancora il bagno in mare. Nasceva così la mia famiglia.
La battaglia dei presepi
Pubblicato: 15 dicembre 2009 Archiviato in: camminando, feste 6 commentiNatale, tempo di presepi e di gare tra i creatori dei suddetti. Magari non siamo più ai mitici tempi evocati regolarmente da mio padre, tempi in cui la gara tra i presepi vedeva masse di partecipanti ed era gestita direttamente dalla diocesi, che inviava giudici scrupolosi a valutare presepi casa per casa onde poi decretare il vincitore (e un glorioso anno il vincitore fu proprio il mio papi allora adolescente con i suoi fratelli), tuttavia anche oggi chi vuole gareggiare trova pane per i suoi denti. E così ecco che domenica scorsa, negli avvisi finali della messa, il parroco ha annunciato che, nel centro commerciale del nostro quartiere, sono stati esposti cinque presepi, ognuno di una parrocchia diversa. Chi si troverà a passare in questo periodo per il centro commerciale potrà ammirare i presepi e votare quello che gli piace di più. Il presepe vincitore frutterà alla parrocchia che lo ha allestito una cospicua offerta da parte dei negozianti del centro commerciale.
Ora, a parte che magari io sono troppo integralista e non mi piace granché questo invito implicito dei parroci ad andare al centro commerciale a votare (e ti credo poi che i commercianti fanno l’offerta, non mi sembra un atto disinteressato di generosità, francamente, ma più… una compravendita?), comunque oggi l’ho fatta grossa. Mi sono recata al centro commerciale, non per vedere il presepe ma diretta al Brico center, che è ormai la mia seconda casa, tanto che se mi assumessero come commessa sarei preparatissima, e così sono ovviamente incappata in questi benedetti presepi. Tra l’altro io amo i presepi e ogni anno a Natale faccio il tour dei presepi esposti nelle chiese della città. Mi sono sempre divertita anche a creare presepi, comprese le statuine e non solo l’ambientazione, di solito assieme ai miei cugini. Quindi ho anche un po’ l’occhio clinico, volendo. Ebbene, tale occhio clinico mi ha portata a giudicare che sì, il presepe della mia parrocchia non è niente male; ma mi piaceva molto di più quello di un’altra parrocchia. E siccome, nonostante le obiezioni sovraesposte, se c’è da votare o dare un’opinione adoro farlo (mi sa che sono la gioia di quelli che ti fermano per strada per fare sondaggi), ho votato. Solo che ho votato per il presepe della parrocchia “rivale”. E non mi sento in colpa neanche un po’… D’altra parte, dovere fondamentale di un bravo cristiano è quello di essere sempre sincero e disinteressato, no?
Follie contemporanee
Pubblicato: 24 febbraio 2009 Archiviato in: feste 15 commenti
Ditemi voi se vi sembra normale questo:
Cerimonie di laurea: un invito al rispetto
I laureandi, i familiari e i convenuti alle lauree sono invitati a mantenere un atteggiamento corretto e rispettoso, conforme alla dignità del momento istituzionale, evitando manifestazioni inurbane.
In particolare sono da evitare:
– il lancio di farina, uova, coriandoli e altri prodotti che possano sporcare o danneggiare gli edifici, cortili e portici
– l’abbandono di bottiglie o altri oggetti di vetro al di fuori degli apposititi contenitori
– l’affissione sui muri di locandine, foto e messaggi di alcun tipo
– gli schiamazzi ed i cori che possano disturbare il regolare svolgimento delle attività in corso.
Il Preside della Facoltà ringrazia per la collaborazione che certamente non mancherà.
(avviso ufficiale tratto dal sito della mia facoltà).
Nei periodi delle lauree, a chi frequenta la zona universitaria può capitare di dover camminare su uova rotte, cocci di bottiglie e altre schifezze di provenienza non ben identificata, ascoltando canzoncine di “festeggiamento” infarcite di parolacce e imbattendosi in neolaureati in mutande ma col capo cinto della classica corona d’alloro, al centro di infiniti cortei urlanti e gaudenti costituiti da amici e parenti momentaneamente incapaci di intendere e di volere.
Ecco perché i presidi di facoltà si trovano costretti a diramare avvisi ridicoli e regolarmente disattesi, come questo che ho riportato.
Sono impressionanti le bolge di parenti e amici che affollano la mia facoltà durante le sessioni di laurea, peggio che ai matrimoni. Me ne sono sempre chiesta il perché. Inutile dire che io mi presenterò da sola (o forse solo con la mia dada di quand’ero piccola, che ci tiene tanto a essere presente).
BUON NATALE!
Pubblicato: 24 dicembre 2008 Archiviato in: feste, mia mamma, storie di famiglia 19 commentiDomani è Natale, e come ogni Natale andrò a Piacenza dalla nonna materna. Noi non siamo dei gran mangioni, in famiglia, ma il pranzo di Natale (come quello di Pasqua) ha sempre avuto un suo menu fisso: antipasto, agnolotti in brodo (gli agnolotti sono una pasta con ripieno di carne), cappone ripieno e dolci (panettone, più torta di meringa con panna e cioccolato, quest’ultima non c’entra niente col Natale in sé ma c’entra con me che non amo il panettone e i torroni).
Da due anni a questa parte mia nonna – ossia la cuoca unica e ufficiale del pranzo natalizio – ha dato forfait: non ha più la forza e la voglia di cucinare e qui subentra il problema, nelle vesti di mia mamma.
Mia mamma, a cui cucinare non piace per niente (pur fingendo di seguire con attenzione le ricette della Clerici e commentandole da grande esperta), vuole però portare avanti la tradizione. Perciò è da circa cinque giorni che fa delle prove per il ripieno del cappone. Gli assaggiatori, oltre a lei stessa, siamo io e mio padre. Ogni giorno mi ritrovo nel piatto una porzione di ripieno, anzi diverse varianti di ripieno (benché, se variazioni ci sono, debbano essere di natura infinitesimale, nonostante l’opposta convinzione di mia madre), con mia mamma che mi interroga, nel modo terribile in cui solo noi donne sappiamo farlo, ossia:
– È venuto meglio questo o questo? –
Tutti sappiamo che di fronte a una domanda simile, qualunque sia la risposta, essa:
- verrà vissuta come un’offesa;
- sarà ignorata perché chi ha posto la domanda in genere ha già la propria risposta in mente.
E infatti, non c’è una volta che io o mio padre, nonostante lo sguardo angosciato che ci scambiamo e che rivolgiamo supplichevole al ripieno stesso, rispondiamo nel modo giusto.
– A me questo ripieno sembra veramente mooolto buono [captatio benevolentiae] ma non noto grosse differenze tra una prova e l’altra [NdA: non ne trovo nessuna], è gustosissimo in ogni modo! –, ho risposto io.
– Guarda, Eva, comunque tu lo faccia, ti viene sempre bene, è uguale a quello di tua madre! –, rincara la dose mio padre.
Ma nonostante tutto questo nostro entusiasmo, veniamo accusati di non avere il palato, perché non sentiamo le differenze. Allora ci riprova la sera, e stavolta magari provo a dire che qui ci aggiungerei più formaggio. Macché, se mai andrebbe diminuito!
Insomma, dopo queste prove sfiancanti, stamattina i miei sono partiti per Piacenza armati di una ricetta per ogni variante, e io li raggiungerò domani.
Non so come sarà alla fine il ripieno del povero cappone, ma vi posso garantire che io, ripiena, lo sono già!
Cari amici, vi auguro con tutto il cuore di trascorrere un Natale sereno e luminoso.
Bilancio di fine feste
Pubblicato: 6 gennaio 2008 Archiviato in: feste 19 commentiChe stress, le feste sono finite e da domani ricomincia la dura vita feriale.
Quest’anno me la sono proprio goduta, questa lunga bolla festiva che mi ha avvolto per queste due settimane, tant’è che, mentre tutti (o quasi) hanno fatto il loro bilancino di fine anno, io farò quello delle mie feste.
Durante le quali:
- non ho toccato un libro di studio né scartoffie/volumi di lavoro neanche per sbaglio
- in compenso ho letto quattro romanzi e cominciato il quinto
- ho mangiato a quattro palmenti, soprattutto dolci di ogni tipo, qualità e consistenza
- dormito un po’ più del solito
- frequentato persone (senza esagerare, però, ricordiamoci che sono un Orso o come-cavolo-si-dice)
- guardato filmetti leggeri però divertenti e rilassanti
- ho ascoltato buona musica ma mi sono anche dedicata al revival di compilations adolescenziali scadentissime qualitativamente ma emotivamente sublimi
- scritto su ben due diari diversi
- vivendo in una famiglia un po’ nevrotica, ho trovato un nuovo espediente per calmarmi nel caos generale: restare in contemplazione del presepe africano portato da mia sorella, nel quale, per prima cosa, ci sono degli animali strani, dal nostro punto di vista, come per es. una giraffa. Poi, tutti i membri di questo presepe, compresi i tre protagonisti principali e i tre Re Magi, hanno lineamenti decisamente africani (Masai, per la precisione) – niente madonnine col nasino all’insù e fluenti capelli biondi – e un atteggiamento composto e ieratico molto diverso rispetto ad altri presepi nostrani dotati di pastori agitati che sventolano mani o spalancano le fauci, per esempio. Non dico che sia più bello o più brutto, ma mi colpisce la rigida immobilità di ogni personaggio; sono tutti in rigida adorazione, non ce n’è uno rappresentato in movimento, e tutto ciò mi ispira calma e serenità (oltre che una maggiore spiritualità)
- mi son concessa anche una puntatina in ospedale e ho fatto due conti col mio corpo (del tipo: Non vorrai piantarmi in asso proprio durante le feste, vero?): indovinate chi ha vinto, per il momento? Eh eh… (sta’ a vedere che quella cosa del pensiero positivo un pochino funziona…)
- Boh, poi ho fatto anche altre cose, per es. ho compiuto gli anni.
Va be’, la pianto qui perché i bilanci mi hanno sempre annoiata. Comunque, direi che la parola d’ordine di queste mie feste è stata: dolce far niente, anzi (nobilitiamoci): otium (Cicerone & C. sarebbero fieri di me).
Ah!, un’altra cosa che ho fatto è stata digitare trecentomila volte sul blog mio e altrui, la parola “auguri”.
Ma secondo me, più che degli auguri per le feste, c’è bisogno degli auguri per affrontare la ripresa della quotidianità. Quindi, buon ritorno alla normalità a tutti!
C’est une chanson qui nous ressemble
Pubblicato: 4 gennaio 2008 Archiviato in: feste, prozia, storie di famiglia 10 commentiE dopo avervi narrato il triste epilogo di un anno invece felice, vi dirò cosa ci facevo alle ore nove del mattino, pedalando per una Bologna meravigliosamente fredda e deserta, una città silenziosa e addormentata in modo quasi irreale, il primo gennaio di quest’anno nuovo di zecca. Avevo dormito poco meno di tre ore, accartocciata su un divano, dopo essermi esibita in vari giochi di società. Mi ero alzata e, raccattando a casaccio le mie cose, scavalcando corpi addormentati, salutando il padrone di casa che comunque non si è svegliato, sono uscita in strada e, salita in bici, mi sono diretta come una sonnambula verso la stazione.
Avete mai avuto un colpo di sonno in bicicletta? Io sì.
Arrivata in stazione, ho parcheggiato la bici pregando con ardore di ritrovarla lì (intatta) al mio ritorno e di lì a poco mi sono ritrovata sul treno regionale, diretta a Piacenza, dove mi sarei riunita a tutta la mia famiglia.
Piacenza: nonna e prozia, infanzia, calore, parenti strampalati, resti di un mondo ormai vinto.
A Reggio Emilia è salita mia sorella, con la sua chitarra e il suo sacco a pelo, il suo sorriso di chi sta bene nel mondo.
Mi lasciavo cullare dal rumore del treno, lungo questo percorso che conosco a memoria, desiderando e temendo il mio ingresso in casa. La mia prozia non è più lucida, ormai, e cercavo di immaginare cosa avrei provato trovandomi davanti a una persona che mi ha sempre amata più della sua stessa vita e che ora non mi riconosce più.
A volte provo il desiderio di morire prima dei miei cari, anche se d’altra parte non vorrei morire mai.
Poi, come sempre, la forza delle abitudini – quella ritualità familiare che a volte si odia e altre volte ci protegge come una coperta calda dagli urti del mondo – ha reso tutto più facile: trovare mia nonna, benché stanca, in attesa sulla soglia, sorridente, come sempre; sprofondare nel suo abbraccio, avvolta nel suo profumo; rivedere gli ambienti familiari – il salone sempre perfetto, immobile nel tempo – e correre con gioia lungo il corridoio verso la saletta, per abbracciare mia zia, come al solito: trovarmela davanti, seduta sulla sua poltrona, chinarmi verso di lei e baciarla come ho fatto per tutta la vita. Sì, mi riconosceva a sprazzi (o meglio, intuiva che fossi una di famiglia) ma era felice di essere abbracciata, perché lei per tutta la vita ha sempre goduto moltissimo nel ricevere baci e abbracci; da persona espansiva e passionale qual è, in una famiglia invece piuttosto contenuta dal punto di vista delle effusioni fisiche, ci ha sempre affettuosamente rimproverato di essere poco affettuosi.
Non è che si riuscisse a fare discorsi molto logici, ma a parlare, sì. E l’aspetto è sempre il suo, le sue espressioni, il suo modo di guardare e sorridere. È sempre la mia cara zia Nena, insomma.
Dopo il pranzo tradizionale tipicamente piacentino, sono arrivati gli altri zii, compreso lo zio “artista” con un registratore. A un certo punto, mentre cantavamo tutti insieme alcune vecchie canzoni francesi, ho sentito mia zia cantare anche lei; sempre stonata come una campana, ma le parole erano giuste, e il sorriso inconfondibilmente suo.
Concludere l’anno depressi è il modo migliore per iniziarne un altro allegri
Pubblicato: 2 gennaio 2008 Archiviato in: cinema, feste 25 commenti[questo non è un post triste; è umoristico (meglio precisare…)]
L’ultimo giorno dell’anno mi son svegliata depressa (per alcuni motivi ben precisi che nulla hanno a che vedere con lo snobismo da ricorrenze; sono favorevole ai festeggiamenti nelle “feste comandate”!).
Be’, magari porta fortuna essere tristi l’ultimo giorno dell’anno, mi son detta, e su questa ondata d’ottimismo (l’unica della giornata) ho trovato la spinta per alzarmi dal letto.
Ho cominciato a ricevere telefonate d’auguri e mi sono sforzata di risultare allegra e positiva, con scarsi risultati, credo (chiedo scusa agli sventurati interlocutori). L’unica persona da cui desideravo essere sommersa di messaggini non me ne mandava. In compenso ero travolta da Timspot giornalistici riportanti orribili notizie su eccidi in Kenya o donne fatte a pezzi in Italia.
Nel corso della mattinata i miei familiari sono partiti chi per Piacenza chi per Reggio Emilia, dove avrebbero festeggiato l’arrivo del nuovo anno. Sono così rimasta sola in casa e mi sono esibita in alcuni monologhi consolatorii passeggiando per il corridoio.
Poi mi son messa a cucinare il mio dolce, immersa in varie recriminazioni tra me e me.
Mi sentivo anche obbligata a pubblicare un post d’auguri: mi son messa a scrivere e mi veniva fuori un augurio più triste dell’altro; alla fine ci sono più o meno riuscita e l’ho postato (sostituendo all’ultimo momento la parola “orrore” con la parola “dolore”).
A questo punto, dovevo prepararmi per uscire. E non ne avevo voglia. L’unica cosa che mi andava di fare era accasciarmi sul divano del salotto e restare lì immobile fino a ora indefinita, lasciando che attorno a me calassero dolci le ombre della sera, portando via il giorno, l’anno e la mia coscienza. Ma non potevo farlo: il divano è completamente cosparso di reperti africani – tutti duri e appuntiti, tra l’altro – portati e abbandonati lì da mia sorella; e anche le poltrone.
Per un fugace istante una sbornia solitaria mi è parsa un’alternativa non disprezzabile; il necessario l’avevo. Mi è bastato però ricordare come sono stata male l’unica volta che mi sono pesantemente ubriacata in vita mia (purissima vodka) per rinsavire immediatamente dall’insano proposito.
Precipitando ulteriormente, ho dato un’occhiata alla programmazione televisiva della serata: trasmettevano “Il diario di Bridget Jones”.
Non ho mai visto Il diario di Bridget Jones. – mi son detta – Conosco un sacco di giovani donne che vanno pazze per questa Bridget Jones e io non so neanche chi sia. Adesso do buca alla festa e resto a casa a guardare Il diario di Bridget Jones, anche se presumo che non mi piacerà e forse mi verrà anche voglia di suicidarmi.
Infatti l’unica cosa che sapevo di Bridget Jones era che si trattava di una tipa imbranata (e non immaginavo quanto) e a me, di tutti i film che ho visto, con protagoniste giovani donne imbranate e anche un po’ isteriche, finora non me n’è piaciuto neanche uno.
Sinceramente, mi sembrava davvero un’idea vomitevole, restare a casa a guardare “Il diario di Bridget Jones”.
Alla fine, le mie mani ustionate mi hanno riportata alla realtà e ho deciso di andare alla festa; se no, perché cavolo avrei dovuto passare il pomeriggio a ustionarmi le mani?
Perché – piccola parentesi – dovete sapere che questo dolce che so fare io comporta che la cuoca nell’impastarlo si ustioni le mani, ma quante cuoche conoscete al giorno d’oggi che siano disposte a ustionarsi le mani la sera di S. Silvestro? (per cuoche intendo giovani donne magari con le mani tutte ben curate, e perfino un po’ schizzinose, non le massaie come mia nonna che tiene sempre in cucina Foille, la soccorrevole pomata contro le ustioni). Ed è questo il segreto per cui il mio dolce viene così bene, perché non sarebbe la stessa cosa impastarlo aiutandosi con qualche utensile, come ha fatto chi ha provato a cucinarlo dopo che le ho dato la ricetta. E c’è un momento, quando tengo le mani sollevate al di sopra dell’impasto bollente e fumante e mi preparo psicologicamente a sentire il bruciore quando le calerò, che è un momento divertentissimo, secondo me, perché mi sembra davvero ridicola questa attività dell’ustionarsi le mani pur di fare un buon dolce (ed è poi un metodo inventato da me, non c’è scritto su nessuna ricetta) ed è ancor più ridicolo il modo da me escogitato per sopportare il dolore: cantare a squarciagola le tre sillabe Lallallà in tutte le possibili variazioni, finché le mani si abituano al calore e allora diventa piacevole modellare l’impasto.
Perciò, per rispetto alle mie mani doloranti, mi sono vestita, ho impacchettato il mio dolce, buttato nello zaino pigiama e accessori varii (il giorno dopo, senza tornare a casa, sarei andata a Piacenza), preso la bici e pedalato fino a casa del mio amico, dove si è tenuta una simpatica e semplice festicciola tra amici intimi che alla fine, come sempre, si è rivelata divertente.
Per curiosità, però, ho registrato “Il diario di Bridget Jones” e ieri l’ho guardato, in compagnia di mia nonna, poveretta (ero a casa sua): se fossi rimasta a casa a guardare quel film sarebbe stato il modo peggiore per concludere l’anno.
Bridget Jones è odiosa. Il fatto che parecchie trentenni o giù (o su) di lì si identifichino in lei (ogni giorno incappo del tutto casualmente in blog ispirati a questa tipa, per non parlare di certa devozione al personaggio udita con le mie orecchie in varie circostanze) mi deprime, anzi mi spaventa. Non vorrei avere un’amica uguale a Bridget Jones e se scoprissi di somigliarle avrei un valido motivo per suicidarmi. Bridget Jones è un’inetta per eccellenza: l’unica cosa che le interessa è farsi portare a letto da un uomo possibilmente mascalzone (usiamo un eufemismo). Per il resto: non sa parlare, non le interessa il suo lavoro (eppure lavora in una casa editrice e potrebbe gustarselo molto di più), è imbranata, goffa, impacciata e incapace di migliorarsi (anzi, non può neanche proporsi di migliorarsi, perché non sembra molto consapevole del suo stare al mondo). E in più, non fa neanche ridere, con tutti i suoi comportamenti stupidi; perché anche per far ridere di sé occorre una certa consapevolezza. Boh, capisco che qualcuno possa trovarlo un film divertente, ma farne quasi un ideale di vita mi pare un po’ degradante.
E voi, amici? Passato bene l’ultimo dell’anno?