Amare sorprese
Pubblicato: 12 marzo 2010 Archiviato in: calamità ilariesche, crudeltà, esercizi spirituali 8 commenti(qui sopra: lo spirito di Ebenezer Scrooge che si è temporaneamente impossessato di me)
Ieri ho trovato due buste nella mia buchetta delle lettere. La prima che ho aperto era delle Poste e mi informava che – finalmente, dopo lunga attesa – è stato accreditato sul mio misero conto corrente il compenso per un lavoro terminato mesi fa, compenso che ormai pensavo non avrei mai più ricevuto; data la mia attuale situazione finanziaria, ho passato circa cinque minuti a esultare, ripetendomi ininterrottamente: “Ho avuto i miei soldi!”. Poi, tutta bella galvanizzata com’ero, ho aperto l’altra busta: ne è emersa una bolletta; una orribile bolletta del gas; una orribile bolletta del gas che pretende da me una cifra appena di poco inferiore a quella che solo cinque minuti prima mi aveva fatta esultare in modo fin troppo eclatante. “Doccia fredda” è un concetto troppo delicato per esprimere la brutale sensazione provata: mi sono sentita defraudata, come un bambino che riesce faticosamente a raggiungere un giocattolo tanto desiderato su uno scaffale e poi non appena ce l’ha in mano gli cade e si rompe, o un altro glielo porta via; defraudata come se l’universo mondo ce l’avesse con me. Per circa mezzora ho vissuto la mia vita in preda a questa sensazione, con la mente che rimuginava e mulinava ininterrottamente, pur sapendo che era del tutto irrazionale sentirsi così: in fondo, era stato solo un caso che bonifico e bolletta fossero arrivati insieme. Poi, eccolo: il Pensiero Soccorrevole, folgorante, ha lacerato il velo del risentimento e si è imposto alla mia mente in tutto il suo splendore: se io, che ho aperto le due buste in una successione del tutto casuale, avessi aperto prima quella della bolletta e poi quella del bonifico, la sensazione provata in quel caso sarebbe stata del tutto opposta a quella che stavo vivendo: anziché sentirmi defraudata, mi sarei sentita premiata. Come se l’universo mondo avesse un debole per me. Anche in questo caso tale impressione sarebbe stata del tutto irrazionale; dunque… perché prendermela tanto? Rasserenata da questa constatazione, mi sono messa il cuore in pace. Stamattina sono andata all’ufficio postale per pagare la malefica bolletta: chiuso per sciopero… eh eh eh (l’ottusa contentezza di potermi tenere stretti quei soldini ancora per un po’, mi ha fatta sentire molto Scrooge)!
NOOOOOOOOO!!!!!!!
Pubblicato: 13 febbraio 2010 Archiviato in: crudeltà, desperate housewife, tv 10 commenti
È vero che l’ultima puntata si era conclusa con la suddetta Edie che giaceva per strada fulminata da un cavo della luce in una pozza di benzina e con una contusione cranica, ma è anche vero che nella scorsa stagione si era impiccata per sbaglio e nonostante la mancanza di ossigeno e il collo torto, dopo un po’ di degenza ospedaliera era tornata più smagliante che mai; non succede sempre così, nei telefilm e nelle soap? Un po’ d’ospedale, magari anche un po’ di coma, poi esci come nuovo. E invece Edie c’è rimasta secca, e definitivamente. Le altre casalinghe hanno diligentemente cosparso le sue ceneri in tutto il quartiere: un po’ nei loro giardini, un pochino sulle rose a lato della strada, poi sulla veranda dove chiacchieravano prendendo un tè, così, per averla vicina. E poi tutto è continuato come se niente fosse. Ma a me Edie mancherà tantissimo. Uffi! Lei era uno dei motivi per cui amavo/amo le Desperate Housewives… be’, è la prima volta che mi affeziono così tanto a un personaggio di fiction, bravi gli sceneggiatori ma cattivi e crudeli. Fine dello sfogo.
La legge del più forte
Pubblicato: 14 giugno 2009 Archiviato in: crudeltà, educazione, guerra civile familiare 5 commentiStamattina ero al parco vicino a casa. Avevo trovato una panchina collocata in posizione strategica: le fronde degli alberi intorno, arrivando fino a terra, creavano una cupola verde che proteggeva la panchina dal caldo e dagli sguardi altrui. Potevo respirare l’aria fresca e profumata e dedicarmi in pace alla lettura del libro che avevo portato con me. Ma a un tratto, mentre i miei pensieri si intonavano con l’armonia della natura che mi circondava, involandosi eterei, sono stata richiamata alla dura realtà dal pianto di un bambino e dagli improperi di un padre. Non riuscendo a ignorarli ed essendo comunque ora di tornare a casa, mi sono alzata e uscendo da quell’oasi di pace mi sono trovata davanti una scena alquanto inconsueta, tanto che, non essendoci abituata, ci ho messo un po’ per capire che non si trattava di un gioco o di uno scherzo: un omaccione sculacciava il figlioletto (che avrà avuto a malapena tre anni), ma non una o due volte (come può anche capitare), no, più e più volte; anche quando il bambino ormai gli camminava arrendevole al fianco quello continuava con gli scapaccioni. Non forti da fare troppo male, no, ma violenti; erano un chiaro sfogo: qualunque capriccio il bambino avesse potuto fare (probabilmente non voleva tornare a casa per restare sull’altalena), la reazione del padre andava molto oltre quel capriccio, sembrava uno al quale fosse saltato il tappo della rabbia repressa e questa scorresse tutta fuori senza freno.
Ma il peggio doveva ancora venire: un altro padre non molto distante gli ha gridato:
“Ehi, adesso basta picchiarlo, calmati!”.
Il picchiatore si è girato come una belva e si è messo a urlare degli insulti irripetibili verso l’altro; altre voci lo hanno invitato con pacatezza a calmarsi e ragionare, facendogli notare che aveva perso lucidità, ma quello era ormai fuori di sé, addirittura si è messo a correre verso il primo che gli aveva rivolto la parola, per picchiarlo. La gente lo ha bloccato e fatto ragionare. Tutto questo davanti al bambino, rimasto solo in mezzo al prato mentre il padre dava brutta mostra di sé. Mentre tornava verso il figlio, sempre imprecando contro gli altri, ma a bassa voce, tutti gli sguardi delle persone presenti (me compresa) lo hanno squadrato con disapprovazione. Aveva gli occhi di tutti addosso e li ha avuti finché non è scomparso dalla vista.
Questo piccolo episodio mi ha lasciato un senso come di spavento, sul momento. Mi sono resa conto che da anni e anni non vedevo un bambino preso a sculacciate. Io stessa sono caduta vittima di scapaccioni solo due volte in vita mia, e perché avevo portato mio padre a un punto di esasperazione obiettivamente esagerato. Ma dopo mi ha chiesto scusa e si è messo a piangere, più disperato di me. E dopo ancora, abbiamo parlato e ci siamo spiegati. Lui mi ha spiegato che anche se ero una bambina piccola lui non aveva nessun diritto di alzare le mani su di me, neanche a fin di bene, neanche se mi ero comportata molto male. E questa lezione (che bisogna sempre spiegarsi a parole e mai con la violenza) mi si è incisa nella testa come poche altre. Ero fiera che mio padre avesse riconosciuto un suo errore, anche se aveva ragione a essere arrabbiato con me.
Vedendo quell’uomo picchiare quello scricciolino in quel modo mi sono resa conto che picchiare un bambino non serve a niente. Gli mostri solo che sei fuori controllo, che non sai gestire le tue emozioni, che non hai la situazione in pugno, che sei uno sconfitto. Non gli dai una lezione, gli instilli a tua volta rabbia repressa. Rabbia che prima o poi esploderà. Poi con tristezza ho pensato che quando queste cose avvengono in pubblico, come oggi, c’è un forte controllo sociale che interviene prontamente; ma nel chiuso delle quattro mura domestiche, purtroppo, questo controllo non c’è. In certe famiglie vige la legge del più forte (fisicamente) sul più debole. Che amarezza.
E vabbe’…
Pubblicato: 21 settembre 2008 Archiviato in: crudeltà, curiosità 12 commentiOgni ragazza troppo amante della letteratura resterà zitella per tutta la vita, finché sulla terra ci saranno soltanto uomini sensati.
J.J.Rousseau, Emilio (1762)
Le altre perle sull’educazione di Sophia, la degna compagna di Emilio, ve le risparmio (però mi sta venendo l’ulcera). Meno male che sono nata in questa epoca!
Uomini e cani
Pubblicato: 1 Maggio 2008 Archiviato in: crudeltà 14 commenti
L’amore per gli uomini che si attribuivano gli amanti dei cani gli appariva smentito dall’odio con cui lo negavano agli altri. E conosceva la loro insofferenza verso il visitatore impaurito dalla festosità dei latrati: quando sacrificavano l’essere più inerme, cioè il visitatore, imponendogli, se non di ricambiarla, almeno di subirla; e anziché frenare l’aggressività dell’animale, chiedevano all’ospite di vincere la paura. L’idea di legare il cane o di richiuderlo momentaneamente in una stanza non rientrava nell’orizzonte delle loro possibilità. E se l’ospite pallido la suggeriva, lo guardavano costernati, considerandola offensiva per la dignità dell’animale. A questo punto l’ospite ritornava a essere quello che il suo nome significava all’origine: il nemico. O si arrendeva ai latrati o si rivelava intollerante. Quanto all’esito di una scelta tra lui e l’animale non sussistevano dubbi: Almeno nell’intimo delle persone che si giudicavano sensibili.
G. Pontiggia, La grande sera
Due giorni fa, a Rimini, apprestandomi a entrare in ufficio, la mia collega mi avvisa che vi troverò un cane.
– Ma è buonissimo, non preoccuparti –, aggiunge.
Io invece mi preoccupo e infatti non faccio in tempo ad aprire la porta che il cane è già lì che scodinzolando mi si fa incontro, sicuramente con buonissime intenzioni, questo lo so ma non mi conforta. Non amo il contatto con gli animali (tranne chiocciole e cavalli), non ci sono abituata, sono schizzinosa e non credo nella bontà (né nella cattiveria) di codeste bestiole.
La mia teoria è: amici, ma a debita distanza.
Invece Filippo (così si chiamava questo cane grosso, dal pelo medio-lungo di color beige) non ne voleva sapere granché, della debita distanza. Abbiamo passato i primi minuti io a scappare e lui a inseguirmi intorno al tavolo finché la povera bestia non ha capito che proprio non ne volevo sapere di lui e – forse un po’ offeso?, penserebbe qualcuno – si è infine accoccolato a terra voltandomi le spalle con ostentazione e grande dignità.
– Senti, Filippo, devi scusarmi – mi sono ritrovata a dirgli (e non credevo alle mie orecchie) – non è niente di personale, credimi, tu sei sicuramente un cane fantastico perciò potrai compatire il mio cuore di pietra –.
Così dicendo mi sono messa al computer a lavorare. Il colmo è stato quando, essendo la mia collega uscita, sono rimasta completamente sola in compagnia di Filippo, il quale ogni tanto si risvegliava dal suo torpore abbaiando forte per qualche secondo e poi ritornando a tacere.
Immaginate il silenzio totale di una libreria deserta, interrotto a sorpresa dai poderosi latrati di un cane: il mio cuore è stato messo a dura prova, a ogni “risveglio” di Filippo facevo un balzo sulla sedia e emettevo un urletto di sorpresa, seguito da una risata (insomma, la cosa, vedendola dall’esterno, mi faceva anche ridere).
All’ora di pranzo le mie colleghe mi hanno telefonato per dirmi di raggiungerle al bar in piazza. Il cane doveva restare lì da solo, poverino. Al ritorno, dopo quasi due ore, Filippo era ancora lì, calmo e tranquillo. Davvero un bravo cane.
Sapete, io questa storia del “Non preoccuparti, è un cane buono” non la sopporto.
Prima di tutto noi non sappiamo cosa passa per la testa di un cane e non siamo in grado di prevedere i suoi comportamenti né possiamo presuntuosamente attribuirgli sentimenti umani.
Secondo, a una persona che nutre timore o diffidenza verso i cani, i cani sembrano tutti cattivi.
Terzo, buono o cattivo che sia, se voglio che il tuo cane mi stia alla larga, devi ascoltarmi (potendo) oppure persuadermi con gradualità, non impormi la belva perché è buono.
Una volta ho visto un tipo che spiegava con grande cura al suo cane che bisogna attraversare la strada sulle strisce pedonali guardando prima da una parte poi dall’altra. Povero cane.
Quando ero ragazzina c’è stato un periodo della mia vita in cui ero perennemente inseguita dal cane dei vicini di casa, il quale, appena adocchiava un bambino qualsiasi del caseggiato, si slanciava ringhiando alle sue calcagna con pessime intenzioni (non stupiamoci delle medaglie che vinsi in quel periodo nelle gare di corsa tra le scuole). Era tremendo voltarmi in corsa e scorgere, con la coda dell’occhio, le sue fauci a mezzo millimetro dal mio fondoschiena e – magari già al terzo o quarto giro dell’intero porticato – sentire il cuore sul punto di scoppiarmi in gola, le gambe cominciare a cedere e pensare: se mollo mi morde!, e allora percepire la cosiddetta forza della disperazione (esiste, altroché se esiste) sgorgare insospettata da qualche recondita profondità del mio corpo e restituire vigore alle gambe e lucidità alla mente, tanto da riuscire perfino ad accelerare o ad avere quel guizzo che mi permetteva di spiazzare momentaneamente la belva così da guadagnare quel terreno prezioso che mi avrebbe consentito forse di mettermi al riparo. La salvezza consisteva o nell’intervento dei padroni, accortisi finalmente di quanto stava accadendo, o nella fortuna che qualche inquilino uscisse dal portone nel momento in cui vi sfrecciavo davanti, in modo da potermici rapidamente infilare lasciando il cane fuori. Tutto ciò è durato anni.
Per fortuna, i padroni di quel cane non lo hanno mai definito buono…
Meglio soli che male accompagnati
Pubblicato: 1 marzo 2008 Archiviato in: crudeltà 6 commentiDa qualche tempo ho preso l’abitudine di fare colazione al bar il sabato mattina, con la speranza che questo dolce inizio mi aiuti ad affrontare positivamente l’odioso weekend appena iniziato (come sapete, odio i fine settimana e da qualche tempo, per alcuni miei motivi personali, li odio ancora di più, mi vien da piangere solo a pensarci. L’unica consolazione è che fortunatamente un weekend dura solo due giorni).
Mi piace molto sedermi a un tavolino con una bella brioche piena di crema e un cappuccino con cui ingannare temporaneamente i miei dispiaceri. Ascolto i discorsi degli altri avventori, sorrido al barista che ormai mi conosce e mi godo il mio momento di solitudine-non-solitudine. Dopo faccio una passeggiata durante la quale di solito passo in edicola a fare il pieno di fumetti e in biblioteca a restituire i libri letti durante la settimana e a prenderne di nuovi. Il sabato mattina la biblioteca di quartiere è quasi vuota e posso aggirarmi in santa pace tra gli scaffali curiosando senza che nessuno mi metta fretta. È un vero piacere. Poi torno a casa e mi metto a studiare o lavorare ai miei fumetti.
In questo periodo non ho voglia di vedere un bel nessuno. Lunedì devo per forza incontrarmi con un’amica (non posso più rimandare) e mi sembra già una fatica terribile. So che è una brutta cosa ma non riesco a oppormi. Ieri qualcuno mi ha fatto notare come si può essere soli (come sono sola) in una città, senza neanche un animale a tenerti compagnia, e infatti può essere così. Per quanto mi riguarda, c’è un’unica persona della cui compagnia non mi stancherei mai ma naturalmente è proprio l’unica persona che riesco a vedere poco, troppo poco.
A questo proposito mi viene in mente or ora una lunga serie di proverbi:
Chi s’accontenta gode.
Poco è sempre meglio di niente.
Chi troppo vuole nulla stringe.
Eccetera.
[Vi ho mai detto che io, la prima della classe nei temi, ho completamente cannato il tema dell’esame di maturità perché – inspiegabilmente – l’ho infarcito di proverbi? Io che non uso mai proverbi e cerco di evitare i luoghi comuni? Cosa avrò mai voluto dire?]
Mentre ero al bar, stamattina, mi compiacevo dell’avere appena appreso che mia sorella era atterrata a Nairobi sana e salva; un tempo mi preoccupavo di saperla da sola in giro per il mondo, ora mi basta sapere che ha i piedi per terra per sentirmi tranquilla; saperla per aria su un aereo mi angoscia un po’, benché io stessa abbia preso parecchie volte l’aereo senza particolari patemi: i criteri con cui giudichiamo le cose vengono forzati e plasmati dall’esperienza e dalle piccole sfide quotidiane, per questo non sono solita esprimere condanne o giudizi definitivi, tranne in alcuni casi generali e mai sulle persone (se mai sui comportamenti), ma oggi è diverso, oggi ho una condanna bella e buona che mi brucia dentro ed è senza appello. Mi torna in mente e mi inquina la colazione, la serenità e il pensiero che stavo dedicando a mia sorella e alla sua gioia di riabbracciare il fidanzato che l’aspettava in aereoporto. Penso a lei e mi viene in mente quanto assomiglio a mia zia, la mia zia Nena, in questa sua preoccupazione ogni volta che qualcuno di noi partiva per un viaggio, in questo suo essere un po’ chioccia (il che, per certi versi, cozzava col suo carattere indipendente e libertino) e voler sempre tenere la famiglia unita, unita proprio fisicamente, tutti vicini, nello stesso posto, solidi, tranquilli, visibili. Sorrido perché penso a come spesso siano i difetti delle persone, più che i pregi, a rendercele più care, ad accompagnare il loro ricordo con un sorriso (e non solo quando sono morte ma anche da vive), forse perché sono proprio i difetti, i piccoli tic, le fisime, a caratterizzarci maggiormente, a svelarci fragili, umani e simpatici.
Alcuni difetti.
Perché poi ti capita di scontrarti con dei difetti che invece svelano solo la durezza di cuore, la disumanità di una persona, l’insindacabile antipatia.
Come quando annunci a un’amica di tua zia – una persona verso la quale lei ha sempre nutrito una profonda simpatia, una predilezione a volte perfino irritante, ma lei era fatta così, si entusiasmava tantissimo per certe persone e non sempre era chiaro il perché, come in questo caso – che la zia è morta e lei ti risponde che “ora finalmente tutti noi, soprattutto la nonna, che ha dovuto sopportarla per tutta la vita, ci siamo liberati di un grosso peso”.
(mia zia zoppicava un po’ a causa di una poliomielite avuta da bambina, e negli ultimi anni era costretta su una carrozzina; niente di grave, era autosufficiente, ma per questa donna tale situazione rappresentava una catastrofe: anche quando la zia era viva e vegeta lei ogni tanto, maleducatamente, ci diceva, sottovoce, che chissà quanti sacrifici ci toccava fare a causa della condizione di mia zia. Inutile spiegarle, anche visibilmente indignati, che non c’era niente di così drammatico, il dramma – se dramma era – lo viveva se mai mia zia, non certo noi)
Se è vero che dal letame nascono i fior (sì, nel tema di maturità credo di aver inserito anche qualche verso di canzone; forse i proverbi e le citazioni banali mi vengono in mente quando sono nervosa, quando sono arrabbiata e angosciata; forse ora comincio a capire lo strano comportamento di allora), quella donna è ancor peggio del letame. Credo che in natura non esista niente a cui possa essere paragonata. Ma veramente niente. E a dire così, io che sono sempre piena di cautele, non mi sento in colpa neanche un po’. Sapete cosa vi dico, per concludere in bellezza? Meglio soli che male accompagnati!
L’angelo (alcolizzato) del focolare
Pubblicato: 9 settembre 2007 Archiviato in: crudeltà, libri, mia mamma 29 commentiStamattina, su Repubblica, ho letto la notizia dell’imminente ri-pubblicazione de Il saper vivere di Donna Letizia, manuale di galateo uscito per la prima volta nel 1953 con lo scopo di insegnare le buone maniere alle donne italiane perché restassero, sì, Angeli del Focolare, ma raffinati e al passo con i tempi.
Conosco abbastaza bene la mentalità dell’epoca dato che mia madre, nata nel 1951, si comporta da sempre come se negli anni ’50 avesse avuto vent’anni e da allora il tempo non fosse più passato. Non ho mai ben capito perché sia prigioniera di tale paradosso cronologico, so solo che non c’è niente da fare, bisogna accettarla così ed entrare nella “sua” epoca per comprenderla. Ecco perché, come ho già raccontato qualche mese fa, fin da piccola mi sono sorbita la lettura di tutta L’enciclopedia della fanciulla più i film hollywoodiani anteriori al 1962. Ho provato anche a leggere un romanzo di Delly ma lì non ce l’ho proprio fatta… c’è un limite a tutto.
Credevo ormai di essere vaccinata, dunque, e invece oggi ho riso per mezzora, leggendo a chiunque mi capitasse sotto tiro i piccoli brani che ora vi riporto.
Il primo è dedicato al grosso problema di accasare le figlie che cominciano a inacidire causa età avanzata:
Se, passati i ventitré o i venticinque anni, la ragazza che fino a ieri era un fiore incomincia improvvisamente ad appassire, si fa acida e nervosa, la madre accorta non tarda a “capire”. Capisce cioè che quello che angustia la poverina è il fatto di non aver ancora trovato marito, e che è giunto il momento, per lei, di intervenire. Con estrema discrezione comincerà a darsi da fare: riaggancerà i rapporti con la signora X, che forse non le è simpatica ma ha tre figli in gamba, tutti scapoli. Solleciterà il consiglio e l’aiuto dell’immancabile amica che “conosce tutti”. Spronerà il marito a invitare a teatro il giovane ingegnere Rossi che è povero ma ha una zia ricchissima e zitella, o l’avvocato Bianchi che non è più di primo pelo ma ha una vasta clientela e un appartamento arredato.
Noterete che la figlia non deve fare nulla, si limita a inacidire; è la madre che si dà da fare (e come!) per quell’ebete della figlia, spronando pure il povero marito, e mostrando un cinismo degno di Crudelia De Mon (lunga vita alla zia dell’ingegner Rossi!). L’amore poi, non esiste: cosa volete che sia di fronte a un “appartamento arredato”?
Tra l’altro questa figlia, oltre a non essere in grado di trovare un fidanzato in modo autonomo, non è neanche capace di vestirsi, benché abbia ormai superato i 25 anni (come potrà essere una buona moglie, mi chiedo io, e reggere da sola un’intera casa, allora? Meglio che non si sposi, una tale ebete!).
Leggete qui:
Giustamente persuasa che da una vacanza estiva possa fiorire l’agognato fidanzamento della figlia, la madre previdente prima di decidere la villeggiatura sottopone la sua ragazza a un lucido, spassionato esame. Ha le gambe stortine? Alta un metro e sessanta pesa ottanta chili? Montagna e gonne a campana. Ha le gambe affusolate e un busto da statua? Spiaggia e bikini. Ma anche su questo punto la madre accorta ha idee precise. Il reggiseno del “due pezzi” non avrà le proporzioni di un paio di occhiali da sole e le mutandine non saranno così piccole da potersi confondere con quelle di un neonato. La signorina protesta? Le verrà ricordato che l’immodestia, se attrae i mosconi, mette in fuga i partiti seri.
Sembra una parodia, ma è tutto vero. E c’è ben di peggio, tra l’altro, per es. un bel capitoletto dedicato a come raccomandare il proprio figliolo presso il commendatore di turno (che bel galateo!).
Ora non mi stupisco proprio del fatto che un altro consiglio sia il seguente:
La signora bene attrezzata avrà sempre a disposizione nel mobiletto bar:
una bottiglia di Carpano;
una bottiglia di Campari;
una bottiglia di Martini (secco);
una bottiglia di anisette;
una bottiglia di cognac;
una bottiglia di gin;
una bottiglia di whisky;
una bottiglia di sherry;
una bottiglia di rabarbaro per chi non beve alcolici.
Per vivere una vita come quella, soffocata tra una brillante e nuova cucina americana, qualche perfidia scambiata con le amiche e le peripezie per accasare la figlia lobotomizzata, un goccetto (anche più di uno) la brava casalinga deve pure averlo a disposizione, con la scusa ufficiale di tenerlo pronto per gli amici del marito, certo.
Ora non mi stupisco neanche del fatto che mia madre al posto dell’espressione “trovare un fidanzato” tenda normalmente a dire “accalappiare un tontolone”!
La batosta
Pubblicato: 28 giugno 2007 Archiviato in: crudeltà 22 commentiUn milione di cose ti piombano addosso proprio quando credevi fossero svanite, un pianeta di una galassia lontana ti precipita in testa e intanto una cicciona nevrastenica fa di tutto per passarti davanti mentre tu sei in fila da due ore e però la lasci passare – mentre gli occhi ti si riempiono di lacrime silenziose -. Ti percepisci immediatamente sola nel vuoto pneumatico e vorresti solo abbandonarti – sederti per terra e sentire il freddo del pavimento, metterti a correre come un’invasata o saltare sul tetto – ma quel minuscolo filo di coscienza che ti tiene allacciata al mondo anche quando non vorresti ti costringe a trattenerti, e a subire (l’attesa, la cicciona, la solitudine, il bozzo in testa e nel cuore, il desiderio frustrato di abbandono e così via). Inspiri e reprimi. Quando arriva il tuo turno ti sei completamente dimenticata il motivo per cui eri in fila e se anche te ne ricordi ti sembra così inutile e insignificante che volti le spalle ed esci di scena.
Non per rattristare qualcuno, ma non so se vi siete mai sentiti proprio così. Meno male poi passa.
Tra spettacoli veri e spettacoli sinceri
Pubblicato: 30 marzo 2007 Archiviato in: crudeltà, curiosità 19 commentiOgni tanto mi capitano delle cose curiose. Ieri mattina ero alla solita mostra deserta quando ho visto entrare un signore che, fischiettando, ha cominciato ad accendere dei faretti nella zona libera della stanza. Quando si è girato e l’ho visto in faccia ho scoperto che era Giorgio Comaschi, l’attore comico.
Lui mi ha spiegato che doveva fare le prove di uno spettacolo con alcune attrici e che se non mi disturbavano avrebbero voluto farle lì, io naturalmente ho detto che per me andava bene e così, invece di stare sola per quattro ore, ho potuto godermi uno spettacolo tenuto proprio davanti ai miei occhi! Uno spettacolo teatrale ad personam, per così dire. Non sono forse fortunata? È stato interessante vedere come si svolgono le prove. Prima gli attori hanno semplicemente pronunciato le loro battute, per memorizzarle e affiatarsi, poi, su quelle battute, hanno studiato e sperimentato posizioni, movimenti e respirazione. Quando uno si impappinava o dimenticava una frase, si ricominciava dall’inizio! Una ragazza non riusciva proprio a memorizzare la sua battuta; il risultato è che, a forza di ripetizioni, io ho imparato a memoria quasi tutte le battute.
Oggi pomeriggio, invece, al lavoro, ho assistito inerme alla demolizione di una persona da parte di una sua collega che, con la scusa della sincerità, ha infierito sulla sua interlocutrice in un modo così crudele (dal taglio dei capelli ai chili di troppo a considerazioni impietose sul suo carattere) che, anche se io non c’entravo niente e assistevo soltanto in disparte, mi è venuto un groppo in gola. Tutte cose dette da amica, ovviamente, e col sorriso sulle labbra, per il tuo bene, cara. Finite le sincere constatazioni, il mostro ha girato i tacchi e nell’andarsene mi è passata accanto: impettita, la gonna svolazzante, il passo baldanzoso nonostante i tacchi alti; in una parola: soddisfatta. L’altra, con un’espressione che non descriverò, accartocciata ha raccolto qualche pezzo di sé per poi tornarsene dietro al bancone. Gli altri pezzi era impossibile recuperarli. Io ero impietrita. Per me questa è violenza allo stato puro. Mi fa orrore, mi indigna e mi spaventa. Io ormai mi preoccupo sempre tantissimo quando una persona (una donna, dovrei dire) comincia un discorso con la frase: “Sai, io sono sincera…”. C’è questa moda per cui occorre essere sinceri, intendendo, con questo, che occorre dire le cose più crudeli (fossero anche vere) che vengano in mente. E dato che di episodi come questo ne ho visti tanti, la mia modesta proposta è che di tutta questa sincerità non c’è poi questo gran bisogno. Meglio piuttosto un po’ di sana ipocrisia, e meglio ancora tacere.
Il luogo degli Orrori [Meno male esiste Gombrowicz]
Pubblicato: 30 gennaio 2007 Archiviato in: crudeltà, libri, riflessioni 20 commentiE così è iniziato l’ultimo semestre del mio lungo incubo personale che, se tutto va bene – e di questo, non essendo un’ottimista, non posso certo essere sicura – terminerà a luglio (o ottobre, se non mi decido a scrivere quello schifo di tesi). Più si avvicina la meta, meno me ne importa (non che me ne sia mai importato molto, in verità), più dubito delle apparenze.
Per me l’università è come il matrimonio per Kafka.
Io l’università fino all’anno scorso non la chiamavo università ma il Problema dell’università; davvero, non sto scherzando, se do un’occhiata ai miei diari vedo che io l’università l’ho sempre chiamata in quel modo lì, che tra l’altro non rende minimamente l’idea di cosa veramente io provo quando penso a quell’orrore. Provo delle cose che non sono neanche capace di verbalizzare, non sono neanche dei sentimenti quelli che provo, sono delle ferite delle piaghe degli scorticamenti interiori tremendi.
Io è da dieci anni che vado in giro con un masso sulla testa, ma di quelli enormi, così pesante che neanche Hulk riuscirebbe a portarlo. Ognuno ha quello che si merita, Atlante reggeva la terra io reggo il pianeta del mio Fallimento. E non mi ribello neanche perché io tutto questo e molto altro che m’è capitato e che non racconterò lo vivo e l’ho sempre vissuto come la mia punizione. Punizione per che cosa? Ah, non lo so, c’è sempre un motivo per essere puniti, lo diceva anche Mark Twain (un uomo per cui nutro una certa venerazione).
Io da sempre quando entro all’università mi cade la faccia, mi si irrigidiscono le membra e mi cambia la voce, diventa inspiegabilmente metallica e incolore. Poi io che di solito quando cammino per strada sorrido molto, quando entro lì dentro mi viene una paresi facciale e se provo a ridere mi viene una smorfia che fa scappare chi mi vede. Così, per non creare traumi a nessuno e per non vergognarmi, io taccio e mi rimpicciolisco. Mi prenderei e mi chiuderei nel mio astuccio se potessi. Io lo chiamo il complesso spazzatura; è bruttissimo sentirsi un mucchietto di spazzatura, sinceramente non lo auguro a nessuno.
Per difendermi di solito porto dei libri con me, di solito porto qualcosa a caso di Walser, perché mi piace e poi perché è molto appropriato: quello, che un tempo ingenuamente credevo fosse il regno della cultura, è il tempio del vuoto e Walser sa descrivere il vuoto rendendolo innocuo e perfino divertente talvolta. Ieri però avevo Ferdydurke che è un libro bellissimo che metterei in programma al posto dei manuali di pedagogia e anche di sociologia. Un educatore secondo me non può non leggerlo e poi in certi casi può proteggerti dal male. Come ieri, che quando la prof. blaterava di dimorfismo sessuale e di filosofi maschilisti io mi rileggevo la lezione del prof. Pallore e per poco non mi mettevo a ridere ad alta voce. Sognavo solo la fine dell’ora, quando sarei andata al lavoro al doposcuola impegnandomi a non emulare io stessa il prof. Pallore. Il doposcuola mi dà delle soddisfazioni. Lì ritorno normale, con il mio sorriso, la mia voce allegra e tutto il resto a posto. Mi vien quasi da piangere da quanto ci sto bene.
Dio, ti ringrazio che quest’incubo sta per finire.