L’evoluzione tecnologica dei sentimenti

La mia vita sentimentale è iniziata quando ancora i telefoni cellulari non esistevano o li avevano forse  in pochissimi eletti. Ai miei tempi [ma che soddisfazione immensa provo nel poter dire finalmente: «Ai miei tempi»?!], c’era il vecchio, sano, beneamato telefono fisso. Ma proprio fisso, eh? Il cordless era di là da venire. Ai più fortunati i genitori avevano comprato un telefono fisso da mettere in camera, oltre a quello familiare; gli sfortunati – tra cui ovviamente io – avevano un solo telefono per tutta la famiglia, posizionato solitamente nell’ingresso, crocevia dell’intera casa; questo comportava che per avere un po’ di privacy bisognasse aspettare l’ora adatta per telefonare – ovvero quando non c’erano indiscrete orecchie genitoriali in giro né fratelli/sorelle pestiferi – o industriarsi per tirare al massimo il cavo del telefono in modo per esempio da potere telefonare dalla sala riuscendo anche a chiudere la porta, magari stando in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.

A quei tempi tu, romantica tredicenne, ti invaghivi di un ragazzino, trovavi il suo numero di telefono sull’elenco e poi, al momento di chiamare, c’era quel meraviglioso – a ricordarlo adesso – quarto d’ora di panico in cui, oltre a prepararti un discorso decente da fare – nei casi più importanti, con tanto di scaletta scritta; ditemi voi se almeno una volta non avete scritto la mitica scaletta pre-telefonata! –, ti preparavi psicologicamente a dover passare tramite il filtro del genitore del beneamato che, due volte su tre, rispondeva al telefono. Sì, il genitore metteva talvolta un po’ soggezione, ma faceva parte del gioco, era uno degli ostacoli da superare per raggiungere lo scopo, aveva un senso. E comunque perlomeno non sarebbe andato a spettegolare per tutta la scuola della tua telefonata. Quindi eri libera. Tra te e il tuo amore c’era solo una guida telefonica e al massimo un paio di genitori.

Libertà, questa, gravemente compromessa dall’avvento del cellulare, perché adesso se a te, romantica tredicenne, piace in segreto Pinco e questo Pinco vive attaccato al cellulare ed è chiaramente il tipo su cui non faresti una buona impressione chiamandolo sul fisso – sempre che ce l’abbia, poi, il fisso – per risalire al suo numero di telefono, non essendo il cellulare sull’elenco telefonico, devi procedere per vie traverse: di conseguenza chiederai a Tizio, Caio e Sempronio, conoscenti di Pinco; attraverso i quali – benché tu sia convinta di essere stata molto abile nel mascherare il tuo vero scopo – Pinco verrà a sapere che tu sei interessata a lui prima ancora che tu trovi il coraggio di telefonargli. E quando finalmente gli telefoni, Pinco potrebbe essere ovunque: non nel silenzioso ingresso di casa sua, bloccato a un fisso ad ascoltarti col cervello concentrato; ma magari su un autobus affollato e rumoroso dove sentirà una parola su tre di quelle che gli dici, o al campo di basket o per strada a far danni, in compagnia dei suoi amici. Non il contesto ideale per una telefonata con scaletta prefissata. Per non parlare del fatto che tramite cellulare, in molti eviteranno le imbarazzanti telefonate in favore dei più brevi e comodi messaggini. Quindi anziché ricevere una telefonata nella quale senti con piacevole orgoglio tutto l’imbarazzo di chi, dall’altro capo del filo, sfidando la propria timidezza e le orecchie genitoriali, ti chiede tremebondo se sei libera stasera, rischi di ricevere un trillo e leggere su un gelido schermo cose del tipo:
«Ciao, 6 lib stas?».
Ammetterete che non è la stessa cosa.

Ma il limite è stato superato con il malefico facebook. Prima dell’avvento di questo cosiddetto social network, se per avventura conoscevi qualcuno – a scuola, sul lavoro, per strada, in un locale, insomma nel mondo reale –, ci si scambiava un sano numero di telefono, fosse pure il cellulare, e si era a posto. Oggi no. Oggi sempre più spesso capita di conoscere qualcuno, magari proporre di vedersi qualche volta e, mentre si estrae il fido cellulare per inserire in rubrica il numero del nuovo amico/a, sentirsi dire:

“Ok, allora poi ti chiedo l’amicizia su facebook e ci mettiamo d’accordo”.

Eeehh? Ma perché devo essere costretta ad accendere il computer, andare su facebook e aspettare un tuo messaggio se esiste da centoquaranta anni quel benedetto aggeggio che si chiama telefono? Perchééé?!

Ed è così che mi sono trovata a sorridere ripensando ai tempi in cui si telefonava dal fisso, in equilibrio su una gamba sola per non tirare troppo il filo.


La chiave di Barbablù

Finora andare a vivere da sola si sta rivelando solo una immensa fonte di spese, perdite di tempo, stress e seccature. La casa è come la chiave di Barbablù: non è mai pronta e a volte penso che non lo sarà mai, mentre soldi e tempo in particolare non sono più sotto il mio controllo e questa cosa mi fa impazzire (presente quel fastidioso pizzicorino al cervello?). Sono reduce da una decina di giorni intensi, durante i quali non sono riuscita ad aprire un libro. Credo che l’ultima volta che non ho aperto un libro per così tanto tempo risalga a quando ero ancora analfabeta. E mi è mancato tantissimo. Inguaribilmente ottimista, cerco di dirmi che gli aspetti positivi della vita da single arriveranno più tardi. Ma sinceramente ne dubito. Ne dubito profondamente.

Comunque la bella notizia è la seguente: dopo aver passato un’estenuante domenica a tinteggiare vanamente una casa che non vuole essere tinteggiata, il tutto a digiuno da tre giorni per un esame che dovevo fare, martedì scorso ho fatto il suddetto esame e la diagnosi è che la mia malattia è in remissione! Vi dico solo che la casa mi ha stancata così tanto, fisicamente e mentalmente, che quando martedì sono approdata sul lettino dell’endoscopista, solitamente temuto e aborrito, il mio unico pensiero è stato: “Che bello stare distesi. Adesso mi riposo un po’”. Chi se ne importava se quello intanto mi infilava tubi in organi poco simpatici del corpo: poté più la spossatezza che dieci flebo di valium! E vi assicuro che sentire la parola: remissione; leggere sul referto la parola: remissione; vedere con i miei occhi sul monitor i miei visceri risanati… vale più di cento stupide case da sistemare! Un’isola di felicità in un mare di depressione, ma pur sempre Felicità!


C’è grossa crisi

Vi ricordate Quelo, il personaggio di Corrado Guzzanti? Quello del “C’è grossa crisi” e “La seconda che hai detto?”. Bene, come sappiamo, anche oggi, a distanza di più di dieci anni, c’è grossa crisi e devo dire che c’è grossa crisi anche in me. Mi sento anche un po’ in colpa perché questo dovrebbe essere un periodo in cui dovrei sprizzare gioia da tutti i pori e invece non ci riesco, sono a terra, non ho entusiasmo, non riesco neanche a scrivere mail o venire sui blog perché mi sento triste e sconfortata, che ci posso fare? Credevo di avere trovato quell’amicizia che cercavo da tutta la vita e invece manca il coraggio (non in me) di vivere un sentimento in profondità. Chissà, forse questa idea dell’amicizia come sentimento assoluto, più puro anche dell’amore, è un’illusione che è sbagliato coltivare o un concetto buono per i libri dei filosofi (penso ad Aristotele e Seneca, per es., a tutte le belle pagine che hanno dedicato a questo sentimento e che mi sono bevuta con entusiasmo). O forse quel tipo di amicizia totale che si vive durante l’adolescenza è solo una caratteristica di quell’età ed è inutile e immaturo ricercarla anche durante l’età adulta (penso a com’è cambiato il rapporto – pur restando saldo – con le amiche con cui sono traghettata dall’adolescenza all’età adulta). So una cosa: non mi piacciono quelle persone che, crescendo o invecchiando, diventano nichiliste nel modo di concepire i sentimenti. Per esempio quelle donne che, attorno ai quarantanni, cominciano a parlare male degli uomini in generale o delle amiche. Quelle persone che la sanno lunga e in realtà mascherano – forse anche a se stesse – i loro personali fallimenti nei rapporti umani nascondendosi dietro affermazioni ciniche e disilluse. Piuttosto che diventare così preferisco soffrire cento e cento volte, crederci sempre e restare delusa e ricrederci ancora. Però è comunque molto triste, ecco. Mi sento in una bolla d’incertezza e mi chiedo come reagire. Come dite? La risposta è dentro di me? Sì, ma – come direbbe Quelo – «però è sbagliata»!

Aggiornamento: Be’, forse sono stata un po’ troppo catastrofica e frettolosa (diciamo che attraverso un periodo di particolare insicurezza)…  l’allarme è più o meno rientrato. Ma il post resta perché una riflessione sull’amicizia non è mai fuori luogo…


I dolori della giovane Ilaria

In questo periodo mi sento vuota e spenta, sospesa, come se fossi in stand by. È strano perché magari ci sono delle volte in cui sprofondo anche nella depressione più nera, ma non mi sento mai così abulica e insensata. Non so neanche come ci si comporta in questi casi. Forse in questo stato d’animo l’unica cosa che si può apprezzare è Schopenhauer (e invece mi tocca leggere Pietropolli Charmet, interessante ma non mi serve).

Anche le stupidaggini che scrivo (o non scrivo) qui sopra ultimamente non le riconosco; prima ho letto un po’ di miei post dell’anno scorso e li ho trovati belli, pieni di energia, più liberi, a volte anche un po’ cattivi (in modo sano). Quelli di adesso – a parte che scrivo poco, e invece di cose da dire ne avrei così tante – a confronto sembrano aria, sembrano le poesie recitate a memoria alle elementari, non emerge niente di me (a proposito: non siete obbligati a lasciarmi commenti, quando non vi va, non ci resto male). E pazienza, questo non sarà un gran problema ma qualcosa vuol dire. Sono lontana, sono anestetizzata, c’è un’Ilaria che vive e un’altra Ilaria che la sta a guardare, e neanche con grande interesse, tra l’altro (devo chiedere un consulto a Pietropolli – cioè sto impazzendo – o capita anche a voi?).

Odio non capirmi. Cerco di illudermi che la causa di tutto ciò sia un orribile esame endoscopico cui dovrò sottopormi martedì in ospedale, e per il quale son già in semidigiuno da tre giorni e domani mi aspetta una preparazione da incubo e un digiuno totale che non auguro a nessuno (io che se salto un pasto svengo!). E non è solo il disagio fisico, è che certe situazioni ti fanno sentire un corpo (per di più fragile, smagrito e all’opposto della sua forma migliore) e niente più. Di fronte ai medici non sono altro che questo. Ho anche scoperto che non ho più ferro nel sangue e questo significa: flebo (odiose).

Ok, lasciamo perdere anche questo. Forse è perché la tesi mi sta opprimendo. Non riesco più a vedere gli amici, riuscire a trovarsi anche solo per una cena insieme sembra un miracolo e questo mi porta a riflettere sul perché sono arrivata a questo punto. La risposta non mi solleva.

Per di più vivo anche un amore contrastato (detto così fa molto telenovela, eh?). Cioè in teoria sarebbe semplice: io amo lui, lui ama me. Profondamente, in modo assoluto e intenso. Ma il destino non ama noi. Non spiegherò certo qui i motivi ma è un amore a termine, almeno dal punto di vista romantico e fisico (rimarrà imperitura e inscalfibile l’unione spirituale, l’amicizia, l’amore come sentimento puro. E non è poco, in effetti). Quindi ogni abbraccio, ogni scambio d’amore è insieme paradiso e inferno: il senso dell’unione più totale e la percezione dell’abisso che incombe. Come quando mi guardo allo specchio dopo che siamo stati insieme, e mi vedo (anzi sono) semplicemente splendida. Come l’altro giorno, che mi son specchiata e non mi riconoscevo più rispetto a com’ero solo poche ore prima: il volto triste e stanco, pallido e pieno di sconforto aveva ora lasciato il posto a un viso luminoso, sereno, due occhi grandi e felici, le labbra arrossate e distese in un sorriso appagato. Una maschera di felicità che si alterna con quella della solitudine e della paura. Non sono fatta per queste cose, io. Non sono un’eroina romantica. Io da piccola sognavo di fare l’astronauta!

D’altra parte, tutto ciò che al momento mi abbatte, è anche ciò che per altri versi mi rende felice, è la mia vita. E se c’è al mondo una persona felice di vivere, quella sono io. Certo, a volte ho una paura pazzesca. Di tutto. E in questo periodo, come ho detto, mi sento sola. L’altro giorno stavo abbracciando lui su una panchina in via Zamboni (la via dell’università); attorno a noi sfilavano studenti okkupanti assieme a professori in protesta, punk a bestia, cani, carabinieri. Megafoni, trombette, cori (altro motivo di depressione: vogliono uccidere l’università). E io ero lì, chiusa in una bolla impenetrabile; a un certo punto mi sono sentita così triste e sola al mondo che mi è sembrato letteralmente di impazzire. Ho percepito con più forza del solito come sono fatta: sempre bisognosa d’affetto, d’amore, di contatto; ipersensibile, a volte tutto mi ferisce, sento spigoli da ogni parte, ogni cosa mi fa male. Come posso vivere in questo mondo appuntito che però amo tanto? Come posso vivere dentro me stessa? A volte mi sento inadatta. Più tardi, tornando a casa in bici mi scendevano le lacrime mentre pedalavo, ero così infelice che avrei voluto lasciarmi scivolare sull’asfalto e restare a languire lì, senza più opporre resistenza a tutto quel dolore.

Guardo i miei libri e i miei fumetti che mi si parano davanti, strabordano dagli scaffali, si accavallano l’uno sull’altro formando pile e pile, a volte pericolanti: sul tavolo, sul comodino, su ogni ripiano presente nella mia camera; protesi verso me, protettivi, la mia sicura coperta di Linus. Ma anche loro a volte non bastano. Però aiutano.
Metto un po’ di buon blues, e ballo e canto. Anche questo aiuta.
Come girare per i blog amici; mi siete di grande conforto, amici, davvero.

Anche il fatto che sto cercando casa e finalmente a breve me ne andrò da qui aiuta.

Ecco, adesso che ho scritto tutto ciò mi viene anche un po’ da ridere. Mi sento già più sollevata. È la prima volta che spiattello apertamente cose così personali. Però mi sono anche stancata di essere riservata a oltranza, in fondo siamo tra amici e non mi va che attraverso questo blog conosciate solo l’Ilaria allegra e serena (Ci sono anch’io!, protesta l’Ilaria melodrammatica). E poi penso che certi sentimenti li proviamo un po’ tutti, prima o poi; a volte rispecchiarsi in un altro fa bene. Ci si accorge di non essere isolati. Inoltre, diciamocela tutta: tra due giorni degli estranei in camice bianco esploreranno le mie viscere; tanto vale aprire il mio cuore a chi decido io.

Giorni fa ho visto un bel film nel quale era contenuta questa affermazione:

Bisogna che ognuno torni a nascere. Chi non comincerà dal principio non potrà conoscere la verità.

Il film parlava di quando ci capita di accorgerci di come la vita finora condotta non sia (o non sia più) una vita autentica e come questo possa o lasciarci indifferenti (e tirare dritto, pur accumulando frustrazioni) o stimolare in noi quella sana e dolorosa inquietudine esistenziale che ci porta a cambiare, anche radicalmente; a nascere a una nuova vita. Avete mai osservato come sono stanchi, affaticati e spauriti i volti dei neonati, appena venuti al mondo? Hanno lasciato un posto comodo e accogliente nel quale però ormai non potevano più stare; hanno dovuto intraprendere un percorso stretto e difficile, per oltrepassare il quale hanno dovuto mettere alla prova tutte le loro forze; finalmente usciti da quel tunnel soffocante vengono feriti dalla luce, dai rumori, dall’aria, da mani che li toccano: tutte cose nuove che non conoscono. Sperimentano per la prima volta la paura e la separazione. Eppure noi sappiamo che è giusto così, che c’è una vita che li aspetta. Perciò, quando medito sui miei dolori, non potrei mai fare la scelta del povero Werther: so che in questo momento sono nel tunnel; so che sto semplicemente raccogliendo le forze per una vita nuova.


Dalla Tanzania con follia [e da Bologna con angoscia]

Da qualche giorno vivo con il cuore nello stomaco. Mi è sceso lì e non ne vuol sapere di tornare su.
Divorata dall’ansia è l’espressione giusta (una volta tanto una frase fatta non è solo un luogo comune), perché da lì mi parte, a impulsi regolari, una fiammata che mi sale su fino alla gola dandomi l’impressione di rischiare la morte per soffocamento. Ed è una condizione permanente, cioè è da giorni che vivo in questo stato 24 ore su 24, dato che la notte ho terribili incubi, dopo che con fatica sono riuscita ad addormentarmi. Tutto ciò per dire che sono angosciata e dunque non ho voglia di scrivere, e inoltre, se qualcuno avesse un rimedio da proporre mi farebbe molto piacere. Il motivo dell’angoscia è la mia vita in generale e il mio prossimo futuro in particolare, quindi purtroppo è inutile che mi suggeriate di risolvere il problema alla base di questa mia condizione, dato che la vita è un problema che si risolve solo con la morte, cosa che, come sapete, non fa per me.
Per fortuna, so comunque per esperienza che, dopo un po’, passa anche da sola.

Nell’attesa, vi propongo le primissime impressioni di mia sorella Linda al suo arrivo in Tanzania (dove resterà fino a fine dicembre). Copio qui parte di una sua lunga mail, scritta male e in fretta dato che scriveva da un call-center e non poteva permettersi di curare lo stile. Ma il contenuto è simpatico, anche se a volte un po’ ingenuo e forse in parte viziato da qualche pregiudizio, e dato che la mia voce ormai la conoscete, mi fa piacere far “parlare” un po’ lei, anche se le cose più interessanti ce le ha raccontate in un’altra mail che, se a qualcuno interessa, posterò (ha ricevuto già alcune proposte di matrimonio!). Qui è raccontato proprio l’arrivo, i primi giorni, in cui risiedevano a Dar es Salaam; dopo, lei e la sua amica Gaia hanno cominciato, da sole, ad addentrarsi nel cuore della Tanzania. I “titolini” sono miei.

Dar es Salaam come Napoli?

Carissimi cari,
vi scrivo dall’Internet point di una cittadina che si chiama Tanga.
La Tanzania è un paese completamente diverso dall’Etiopia, tutta un’altra realtà, e per ora, per i posti in cui sono stata, non ho incontrato ancora la povertà, quella vera… A Dar es Salaam non mi è capitato di vedere baraccopoli, non so se ci sono, però sicuramente ci sono zone messe peggio della mia visto che abito in un quartiere di uffici. Però è interessante vedere anche quale è il livello medio delle persone di qui, cioe non è un granchè, però per certi versi Dar mi ricorda molto Napoli, come città… E poi anche per la gente, cosi ospitale!!! E’ bellissimo, perché tutti, anche senza aspettarsi nulla da noi, ci salutano con allegria dicendoci costantemente “Karibuni! Karibuni!” cioè “Benvenute! Benvenute!” Sono cosi gentili! Poi ci sono quelli da evitare, ma si capisce subito, ti si avvinghiano come avvoltoi finché non si beccano una bella rispostina in swahili che li lascia ammutoliti!!! Infatti appena sentono che capiamo e parliamo swahili, subito tutti cambiano atteggiamento, ci dedicano piu attenzione e rispetto, perché apprezzano il fatto che ci sforziamo di parlare la loro lingua, cosi spesso loro stessi ci dicono, ad esempio, che ci fanno un prezzo di favore perche non siamo davvero delle “Wazungu” (cioe europee)!!! Eh eh! e infatti a noi sui prezzi non ci frega nessuno!!!

Addio al nubilato (tutto il mondo è paese)

A Dar è stato bellissimo perché abbiamo vissuto in famiglia, parlando solo swahili, e poi ci hanno portato a un concerto dell’ EATV, cioe il corrispettivo est africano di MTV… Ma non solo! Siamo state in una discoteca e abbiamo assistito a una scena da manuale (nel senso che una volta abbiamo tradotto un testo giornalistico che riportava proprio questo fatto, del resto non troppo esaltante…): Un litigio in swahili tra prostitute… Be’, come dire, per una che vive le cose con occhio un po’ antropologico queste sono occasioni da non perdere! E soprattutto siamo state a un “Kitchen party” !!!! Cos’e? Ma come, è una cosa importantissima!!! Dovremmo farla anche in Italia: praticamente, prima dell’addio al nubilato, i parenti organizzano una festa alla sposa in cui le regalano tutte le cose che servono in casa, ma soprattutto ogni donna (è una festa di sole parenti e amiche, i ragazzi sono esclusi!!!) deve dare il suo consiglio alla sposa, per esempio il fatto che, quando il marito torna a casa arrabbiato, lei prima gli deve dire “pole’ ( mi dispiace) poi deve essere carina e gentile con lui, dormire insieme e poi eventualmente se ne parla solo la mattina dopo, con calma, di ciò che non va… Queste sono chicche di saggezza africana!

Il culto del fondoschiena

Cmq se a qualcuno interessa cambiare stile di ballo qua si balla in un solo modo, per me e Gaia piuttosto imbarazzante… C’è il “culto del fondoschiena”!!!! E’ una cosa incredibile, qui le ragazze ballano solo muovendo quello, e sbattendolo in faccia ai poveri uomini ammutoliti.. Ma la contraddizione più assurda è questa: queste si presentano alla festa tutte bardate con buibui islamico (nero e lungo fino ai piedi), queste gonne lunghe e caste (guai a scoprire una caviglia) e spesso anche il velo in testa o addirittura quello che lascia liberi solo gli occhi, e poi si mettono a ballare col sedere per aria, in un modo talmente volgare e con accenni talmente sessuali che, come dicevo, ci sentivamo imbarazzate perfino io e Gaia, le due occidentali Wazungu!!!! Non solo, ma c’è la gara a chi ha il fondoschiena piu grosso, per questo piacciono le ragazze grasse!!!!

Be’, dopo queste interessanti osservazioni vi devo lasciare, tralasciando il fatto che nel frattempo mi sono ammalata, comunque sarà argomento della prossima e mail, capitolo “Zanzibar”…


Spleen domenicale

Chi legge questo blogghettino ormai sa che io sono un essere umano felice e addirittura entusiasta sei giorni su sette. Il settimo giorno, cioè la domenica, mi viene lo spleen.
Stamattina, nel tentativo (fallito) di prevenirlo, sono uscita presto di casa, con un libro in mano, diretta al parco. Ho benedetto il clima pseudo-estivo che spinge molti miei concittadini a salire in macchina il sabato per andare a imbottigliarsi sull’autostrada per il mare; trovo meraviglioso passeggiare per le strade pressoché deserte e insolitamente silenziose. Anche adesso, mentre scrivo, c’è un silenzio totale attorno a me.

A dispetto della giornata calda e luminosa indossavo pantaloni neri, scarpe nere e maglietta nera; non che intendessi con questo dichiarare qualcosa al mondo; erano solo le prime cose che avevo pescato dall’armadio. Ma avendo la carnagione chiara e il passo leggero, credo somigliassi molto alla cosiddetta Morte in vacanza.

Seduta su una panchina, ho osservato le persone che si riposavano al parco: due donne dell’Est chiacchieravano tra loro prendendo il sole senza curarsi dell’anziana assistita di una delle due, a cui il sole dava chiaramente fastidio; accartocciata su una carrozzina e piegata dall’artrosi, con una gobba aguzza, si contorceva lamentandosi; mi sono così immedesimata in lei che mi sentivo friggere sulla panchina. Non volevo sembrare scortese con la badante ma al tempo stesso avrei voluto spostare la signora all’ombra. Nel frattempo accanto a me una bambina cicciona molestava un’altra bambinetta impedendole l’accesso a qualunque gioco lei di volta in volta mirasse. La mamma della bambina, cicciona anche lei, la guardava compiaciuta. E una gazza gracchiante evoluiva (cioè: faceva evoluzioni; scusate, ma dovevo scriverlo) solitaria al di sopra della mia testa.

Quando ho capito che l’anziana artritica era anche un po’ fuori di testa, mi sono avvicinata, l’ho salutata con calore fingendo di conoscerla, ho salutato la badante, detto due stupidaggini sul clima e trascinato finalmente la vecchia all’ombra, due metri più in là (in qualità di “conoscente” potevo farlo senza che nessuno si sentisse offeso, no?).

Poi, più sollevata, sono tornata a sedere sulla mia panchina e ho passato un po’ di tempo a scrutare le scarpe indossate dalle donne che passavano, non perché sia una feticista ma perché sono alla disperata quanto inutile ricerca di capire quale modello di scarpa possa andarmi bene. Non me ne piace nessuna, di quelle che vanno di moda. In più ho uno stranissimo senso del pudore per cui non riesco a girare col piede troppo scoperto, tranne al mare. E tutte invece, nonostante tra l’altro i nostri portici siano spalmati di escrementi canini, sentono questo bisogno insopprimibile di tenere tra il proprio piede e il selciato una suola di carta velina (dopo avere girato tutto l’inverno con orribili stivaloni da ufficiale a cavallo).

Ho aperto il mio libro e letto, in un dialogo, questa frase: Disegnare ti aiuta a vedere il mondo più da vicino, lo sapevi?
Credo valga anche per lo scrivere e mi è piaciuta moltissimo. Non credo sia così bello vedere sempre il mondo da vicino (sono una miope che non voleva mettere gli occhiali proprio perché preferivo vedere sfocato), ma penso non se ne possa fare a meno. Di colpo la vecchia, la bambina cicciona, la gazza evoluente e me con la mia inopportuna divisa nera, mi sono sembrati tutti elementi degni di essere lì. Avrei solo voluto ci fosse un gigante pittore a dipingerci da qualche parte. Forse c’è, in un certo senso. È consolante, a volte, sentirsi personaggi di qualche opera che non capisci.

E così io, me, e il mio libro ce ne siamo tornati a casa, sempre un po’ malinconici ma insomma un po’ più sollevati. E così, anche questa struggente domenica è quasi finita… Buon lunedì a tutti!


Fino a quando nell’anima mia proverò affanni? [Ancora 40 anni, almeno]

Attenzione! Questo non è un post vero e proprio. I post veri e propri ricominciano da domani sera!

Questo è un post che non avrebbe motivo di esistere ma che esiste invece solo perché nel caso vi sia qualcuno sofferente come me o di più nelle circostanze che ora dirò, questo qualcuno possa sentirsi un po’ confortato. Sì, questo è un post di sfogo e lamentazione ed è l’unico che trovate su questo blog. Del resto anche i nostri esimi padri, profeti e patriarchi non ci hanno risparmiato lamentazioni e sfoghi perfino blasfemi, quindi sarà concesso anche a me di poter elevare un grido di dolore. Voi eventualmente non leggetelo.

Bene, ho hotato che quando arriva il venerdì le persone, sia nella vita normale sia in quella virtuale, cominciano ad augurarsi un buon weekend o buon w.e. o buon fine settimana (che poi secondo me dovrebbe essere “buona fine settimana”). E anch’io mi adeguo, cioè auguro questa cosa a tutti, pur con scarso entusiasmo. Perché esistono anche lavori o attività che non hanno orari e che uno si porta sempre dietro. Io per esempio la maggior parte del lavoro me lo trovo da svolgere a casa durante il fatidico w.e.
In questi ultimi due giorni, per esempio, non ho avuto neanche il tempo per pensare (anche solo un pensierino stupido) perché sono sempre stata agganciata a questo computer per adattare un fumetto. Devo consegnarlo domattina alle nove e prevedo di passare anche stanotte in bianco. E tutti i weekend io li passo così. Se non lavoro studio e viceversa (contravvenendo, in parte, pure al terzo comandamento, l’unico veramente gradevole). Anche gli amici li vedo molto più, magari di sfuggita, durante la settimana che non il sabato o la domenica.

Sarà anche per questo che o il venerdì sera o il sabato mi sale una tristezza devastante che mi avvolge tutta e cresce finché, senza neanche accorgermene perché sto lavorando, mi ritrovo a un certo punto un groppo in gola, non respiro più e mi si affacciano agli occhi delle lacrime che però raramente scendono, mentre tra l’altro penso anche che dovrei essere, se non a divertirmi, almeno a Piacenza, al capezzale della mia prozia morente (io sono la sua nipote preferita); e così nel cuore del sabato sera io mi metto a piangere e non posso neanche farlo in pace perché devo andare avanti col lavoro e così mi do qualche schiaffetto in faccia e mi rimetto da capo a fare quel che devo. L’apice dello sconforto lo raggiungo di solito la domenica mattina durante/dopo la messa (commettendo quindi un gravissimo peccato, dato che è l’occasione in cui si dovrebbe gioire, benedire ed esultare più che mai). Poi pian piano miglioro (adesso per esempio sono già a posto) e il lunedì mattina io sono la persona più felice di questo mondo.

Ma la tristezza cosmica e il senso di solitudine, abbandono e vuoto che provo in questi due giorni sono una cosa sconvolgente. Kierkegaard confronto a me era un uomo felice.

Poi mi vengono delle idee brutte. Ieri per esempio mi è venuta in mente una cosa banalissima ma a cui finora non avevo mai pensato in questo modo quantitativo: per arrivare a 70 anni (età per la quale nutro grande ammirazione) mi mancano ancora QUARANTA anni. Qua-ran-ta. Cioè tutta la mia lunghissima vita finora più altri interminabili dieci anni. È abbastanza impressionante come prospettiva (anche se ovviamente mi auguro di vivermela tutta, sia chiaro). Ancora quarant’anni prima di andare a spaparanzarmi al circolo Arci a giocare a briscola con le amiche, a bocce con gli amici, fare gite e mangiate, ballare il liscio e flirtare finalmente in libertà come solo i/le settantenni (con un minimo di salute) sanno fare.
Poi ho pensato a quanto da piccola mi piaceva disegnare le nuvolette di fumo che fuoriuscivano da camini o ciminiere e oggi invece so che è tutto veleno e se vado sui colli e guardo il panorama invece di vedere Bologna vedo tutta una nuvola grigioazzurra che è lo smog creato da quelle nuvolette falsamente innocenti.
Poi ho pensato a tutta una serie di cose abbastanza orribili su me stessa e sul mio precario futuro e che non ce la farò mai e cose del genere (cose di cui resto comunque abbastanza convinta in generale).
Poi mi sono accorta che il traduttore coreano si è dimenticato di tradurmi un bel po’ di frasi e ho dovuto scannerizzargli un sacco di pagine e mandargliele in Corea.
E adesso finalmente questo weekend sta per finire e stanotte non dormo e domani starò a perdere tempo a quella stupida mostra vuota (tutti i pomeriggi di questa settimana tranne giovedì…) ma almeno domani è lunedì!

Bene, fine della Lamentazione, ciao a tutti e a domani con un post serio (sugli Snob, credo).

P.S.: naturalmente non fatevi scrupoli e continuate pure ad augurarmi buon weekend (o b.w.e.) perché non mi offendo mica!

Piccola precisazione:
rileggendo il post mi sono accorta che può essere frainteso. Ovviamente non sto dicendo che mi metto a piangere a causa del lavoro (se no sarei davvero scema, considerando anche che mi piace) ma che probabilmente il tipo di situazione che si crea mi scatena delle angosce e del dolore che normalmente, durante la settimana, sono più sotto controllo e, ormai per abitudine, si liberano nel weekend…


Il piede in fallo, ogni tanto

Ieri sera, senza un vero motivo, mi sentivo molto molto infelice. Il risultato è che ho scritto delle cose esageratamente tristi e molto superficiali a una cara persona che non le meritava affatto.

Secondo me quando si è in preda allo sconforto – quello sconforto che assale a tradimento – capita di vedere se stessi con una lente distorta che di solito normalmente non usiamo. Nel mio caso, in quei momenti, un’altra persona si sostituisce a me: mi vedo con gli occhi di mio padre (e in parte di mia madre). È lui, con il suo metro di giudizio severo e inflessibile, a considerarmi spacciata per non essere stata in linea con certe aspettative. È guardandomi con i suoi occhi – gli occhi di una persona che amo e a cui mi sento legata profondamente – che mi sento una sconfitta. È come finire in un vortice in cui io divento piccola e sbagliata e lui grande e sterminato.
Ma quando questo buio che ogni tanto mi coglie passa – ed è già passato – e ritorno a osservarmi con i miei occhi fiduciosi e sorridenti, quelli che vedono la realtà come la leggete nei miei post, gli occhi insomma dell’Ilaria che conoscete, non mi vedo più così sbagliata e sconfitta.

È come fare ogni tanto un passo falso, come un battito a vuoto del cuore, come mettere un piede su un gradino che non c’è e per un attimo – poco o tanto – ci si sente disorientati, persi, prossimi all’abisso.
Quando la luce si riaccende e ci si accorge che il gradino non c’è perché si è già a terra e non nel nulla, con un piccolo, fremente sospiro il viso riprende colore e il cuore si riscalda di nuovo.

Ma anche il piccolo episodio di ieri sera/notte non fa che consolidare la mia teoria secondo la quale quando si è tristi, soprattutto in modo così vago e al tempo stesso così intimo (circondati da fantasmi personali che solo noi pre-sentiamo, non afflitti da un dolore oggettivo e misurabile) è meglio stare soli e zitti finché non passa. Inutile andare a rattristare un’altra persona scaricandole addosso pensieri che non sono neanche i nostri ma di quel mostro (mio padre per me, chissà chi per voialtri) che nel dolore ci toglie parola e sguardo e si sostituisce a noi. Il dolore spesso produce falsità, non verità, al contrario di quanto spesso si crede. Secondo me, ovviamente. Può darsi che la vostra esperienza sia molto diversa.

Comunque secondo me è anche un po’ colpa di Giuseppe Berto! Ieri pomeriggio ho iniziato a leggere Il male oscuro il cui tema è, come annunciato fin dalla prima riga, la lotta col padre, così la definisce lui. L’ho letto ininterrottamente per quattro ore di seguito e di sicuro mi ha influenzato. Avete presente quando, usciti da un cinema, si tende a parlare come i personaggi del film appena visto, fossero pure dei gangster o dei ragazzini col vocino a trombetta? Succede lo stesso anche coi libri. Io, a dieci anni, dopo aver letto Cuore parlavo come il padre di Enrico Bottini. O come Elizabeth, dopo la lettura di Orgoglio e pregiudizio; e così via.

Insomma, oggi splende un bellissimo sole e penso proprio che Giuseppe Berto e ogni altra incombenza resteranno a casa; nel pomeriggio vado a Faenza a incontrare un amico e a fare il pieno di allegria; mi sono accorta che sto veramente troppo da sola; dopo non c’è da stupirsi se scrivo stupidaggini a una persona cui sono affezionata.

Buona fine settimana anche a voi, cari amici.


Esempio di pensiero ciclico [Vorrei essere analfabeta]

Mi accorgo che vedo la realtà filtrata da secoli di letture, visioni di film, di quadri. Che pesantezza, certe volte. Che poi se penso che molto probabilmente tutta questa mia dedizione alla cultura non è altro che un’estenuante sublimazione dei miei conflitti edipici non risolti, sbatterei la testa contro il muro. Vado a sedermi su un muretto nel parco, il fedele muretto che mi accoglie da anni e che per questo deve avere assorbito così tanto pessimismo che se potesse parlare terrebbe lezioni di nichilismo che neanche Cioran. Comunque, seduta su questo muretto, faccio i miei esercizi spirituali, fisso l’erba, il cielo, contemplo le foglie che penzolano sulla mia testa, le conto, perdo il conto, riconto, faccio il vuoto, Epicuro aiutami tu. Mi esercito a ritrovare, o a crearmi, uno sguardo puro. Aspiro a essere uno (una) stilita. Sì, piazzarmi su una colonna nel deserto e tanti saluti a tutti. Ma sicuramente dopo neanche mezzora cadrei e mi spaccherei la testa. E io non voglio morire. Preferirei vivere per trecento anni triste che crepare felice a quaranta. E, pensando questo, sempre lì sul mio muretto, mi viene una grande felicità nel cuore. Allora mi alzo e me ne vado. Arrivederci alla prossima. E il muretto non lo saprà mai che sono (anche) felice.


Luglio, col bene che ti voglio…

Ieri mattina ero molto triste, ero anche arrabbiata perché non avevo tempo per essere triste. Ma non riuscivo comunque né a studiare né a lavorare. Neanche Mozart è stato in grado di tirarmi su, anzi mi faceva piangere ancora di più. Allora ho preso delle pinze, sono andata in bagno e ho smontato mezza doccia, ho sostituito il tubo e l’ho rimessa a nuovo, cosa che pensavo avrei fatto fare a mio padre. Non credevo di averne la forza e di essere capace. Invece si vede che ero così arrabbiata che mi è venuta una tale energia in corpo che sono riuscita a fare tutto da sola. E intanto mi sfogavo contro il tubo, che opponeva resistenza. E gli ho anche raccontato un sacco di cose, prima di buttarlo via.

Quindi gli unici che conoscono il mio dolore di questi giorni e non solo di questi giorni sono un tubo e un blog (e voi che leggete). Perché naturalmente, col *meraviglioso* carattere che mi ritrovo, non sono riuscita a dire niente a nessuno, neanche alla mia migliore amica. Ieri sera poi mi sono ritrovata in un pub e a un certo punto si è anche brindato alla mia salute per via della mia promozione sul lavoro; è da una settimana che volo a due metri da terra e rompo le scatole a tutti con il mio entusiasmo non solo per il lavoro ma in generale per come stanno andando le cose, ero molto felice in questi giorni; quindi non potevo dire Fermi tutti, sto male e così non ho detto praticamente niente, né di bello né di brutto, aspettando solo il momento in cui mi sarei finalmente trovata al buio in posizione orizzontale pronta a salutare il mondo per qualche beata ora.

E quando poi mi ci sono trovata, con tutti i muscoli doloranti per lo sforzo della mattina, mentre prendevo sonno mi sono concentrata e ho immaginato di essere a Riccione, dove vado d’estate da quando sono nata. La sera, poco dopo il tramonto, quando la maggior parte della gente è a cena, soprattutto a luglio, il molo è quasi vuoto. E io vado lì, mi siedo su uno scoglio, con le gambe strette contro al petto, e guardo il mare, o meglio lo sento, perché man mano che si fa buio quel che vedo davanti a me è una massa scura, dolcemente mormorante, a volte sospinta da un venticello debole, umido, profumato, buono da respirare. Sembra che dopo la lunga giornata di sole quei luoghi animati e percorsi di gente vociante si distendano all’improvviso e riprendano a respirare col giusto ritmo. E io con loro. È una sensazione bellissima anche da ricordare. E infatti rivivendola ieri sera mentre scivolavo nel sonno, piano piano il cuore e la fronte, che per tutto il giorno avevo avuto come dolorosamente contratti, si sono a poco a poco rilasciati e ho potuto fare dei respiri lunghi. Poi la notte ho sognato di volare sul mare e c’era anche un altro con me ma non so chi era e comunque sono stata molto felice. Ci mancava solo la musica di Amarcord in sottofondo.

Avete anche voi le vostre immagini (o pensieri, sogni) consolatorie?