Buon Natale

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A volte mi viene da dire: che pasticcio è diventato il Natale! Ormai ogni anno, al suo approssimarsi, c’è chi si lamenta e deve a tutti i costi dichiarare a chiunque la sua avversione verso questa festa; chi invece a partire da un mese prima comincia a perdersi tra lucine e addobbi; quelli che accusano forte stress da acquisto regali, quelli che ostentano presepi come fossero bandiere culturali. I più simpatici sono quelli che tengono a sottolineare che loro non sono religiosi e quindi anziché il Natale festeggiano la festa del Sol Invictus.
È normale che sia così ed è anche interessante osservare la moltiplicazione di interpretazioni e reazioni di fronte a un evento che in ogni caso evidentemente non si riesce a trascurare.
Per me il Natale resta una festa intima, dolce e gioiosa e auguro che lo sia anche per voi. Una festa di stupore di fronte ai doni che la vita ci riserva e di apertura alla fiducia e alla speranza. Un invito a quel “tornare bambini” che può aiutarci a restare umani (e a scandalizzarci, cercando, nel nostro piccolo, di agire) di fronte alle brutture del mondo.

Tanti auguri di buon Natale e che possiamo passare giorni sereni e lenti con i nostri familiari e i nostri amici.


E poi, l’estate

Tra tutti i miei amici e conoscenti, ancora nessuno si capacita del fatto che questa estate, dopo che da ancor prima di nascere ho passato tutte le mie estati a Riccione (e prima di me i miei familiari), io mi trovi in vacanza in quel di Pesaro. Che è solo una manciata di chilometri più a sud ma non è comunque Riccione. Questa potrebbe essere la prova che non si finisce mai di conoscere le persone e che anche gli abitudinari più ostinati possono ogni tanto avere un colpo di testa; ma la realtà dei fatti è che mia madre dopo anni è riuscita a spuntarla su mio padre e a farlo spostare. Era nato tutto quasi per caso, una decina di mesi fa, quando, rigovernando la cucina nel loro appartamento di Bologna, mia mamma aveva detto, con tono vagamente sognante:
“Certo, non sarebbe male prendere un appartamentino a Pesaro; potremmo sfruttarlo tutto l’anno e Pesaro, a differenza di Riccione, è una città ed è viva anche in inverno”.
Mio padre non aveva proferito verbo, pregando in cuor suo che il discorso finisse lì.
Il discorso era in effetti iniziato e già finito nel senso che, senza che mio padre riuscisse in alcun modo a ribellarsi – se non componendo i lineamenti nella sua rigida smorfia di dolore e supplizio che io chiamo “la faccia” – pochi giorni dopo i due si trovavano su un treno per Pesaro con tre appuntamenti già fissati con due agenti immobiliari diversi. Furono un autunno e un inverno trascorsi così, avanti e indietro su treni regionali, visitando appartamenti che mia mamma aveva preventivamente visionato e selezionato tramite internet e attraverso fitti scambi di mail e fotografie con i vari agenti immobiliari. Tuttavia, quando la domenica facevo visita ai genitori, avevo notato che stranamente, nonostante tutto questo trambusto fisico e morale (il pensiero dominante era Pesaro, con il costante ed estenuante confronto tra pregi e difetti dei vari appartamenti), mio padre non sembrava poi così afflitto e stressato come mi aspettavo, né rassegnato, ma anzi appariva curiosamente rilassato e non gli veniva più “la faccia” come prima a ogni nuovo annuncio materno di pronta partenza verso Pesaro per vedere chissà quale nuova occasione. Il mistero è perdurato finché non ho cominciato a sentirlo decantare con toni sempre più entusiastici il tale ristorantino sul mare, e come si mangiava bene in quest’altra pizzeria e quale ottima grigliata di pesce cucinassero in quell’altro posticino vicino al porto. Ebbene sì, poté più la gola che la pigrizia. E accanto alla gola, la forza del mare che mio padre, cresciuto in una città di mare (Ancona), ama profondamente. Quante volte gli ho sentito dire che se sei cresciuto in una città dove c’è il mare, gli apparterrai per sempre e ti mancherà quando – trasferita la tua vita tra cemento e pianura – cercherai istintivamente il contatto con quella presenza, quel profumo, quella vista; e non lo troverai.

Così, infine, dopo viaggi avanti e indietro, mille appartamenti visti e scartati, grandi mangiate compensatorie e – credo – anche il piacere di ritagliarsi in questo modo momenti di intimità e complicità di coppia lontano dalle preoccupazioni del quotidiano, l’appartamento giusto si è palesato; come succede in questi casi – come è successo anche a me quando ho trovato la mia casa – un giorno i due sono entrati nell’ennesimo appartamento ed entrambi hanno subito sentito che era lui.
Comincia così una nuova era, benché Riccione sia poi a due passi, con gli amici e i parenti che lì continuano ad andare e coi quali ogni tanto ci si incontra. Da pochi giorni sono qui anch’io, per passare qualche giorno di vacanza assieme ai miei genitori e per esplorare un po’ i nuovi posti. Vedo i miei genitori sereni e alla fine penso che tutto sommato quei famosi colpi di testa materni che periodicamente mettono in subbuglio mio padre – e che io sono sempre la prima a contestare – alla fine risultano quasi sempre positivi e salutari.


La coperta contesa

Un paio di giorni fa ho deciso di portare in lavanderia una bella coperta di pura lana vergine 100% (come vedrete, conoscere a memoria le etichette di quella coperta mi ha salvata) che ho ereditato da mia nonna, nonostante mia madre mi implorasse di non farlo; non ho idea del perché mia madre sia convinta che portare indumenti o coperte in lavanderia significhi destinarli alla rovina e alla perdizione. D’altra parte questa coperta nella mia lavatrice non entrava neanche. E poi sull’etichetta campeggiano simboli di allarme del tipo che se la coperta toccasse l’acqua si autodistruggerebbe nel giro di mezzo minuto.

Be’, oggi sono andata a ritirarla. In negozio c’era una signora diversa da quella cui avevo affidato la mia coperta l’altro giorno.
– Buongiorno signora. Dovrei ritirare una coperta che ho portato qui due giorni fa. –
La signora ha chiesto il mio cognome e si è messa a cercare tra i panni pronti.
– Di che colore è la sua coperta? –, mi ha chiesto.
– È rosa – ho risposto, adocchiandola nel frattempo. – Ecco, signora, l’ho vista, è lì alla sua sinistra. Qui, guardi. –
– Questa? Ecco qui. Però qui c’è scritto Minetti. –
Minetti? Ma di tutti i modi in cui si può storpiare il mio cognome, proprio “Minetti”?
– Be’, si vede che la sua collega avrà scritto male il mio cognome [o legge troppi giornali scandalistici], comunque la coperta è la mia. –
– Ah no! Qui il cognome non corrisponde! E poi la coperta non è neanche rosa. –
– Ma come non è rosa? Certo che lo è. È che la busta di plastica nella quale l’avete avvolta è un po’ scura e falsa il colore. –
– Eh, questo lo dice lei, questo lo dice lei. Io non posso dare una coperta così, al primo che passa! –

Morale della favola: nonostante non faccia Minetti di cognome, sono riuscita a portarmi a casa la mia legittima coperta. Non prima però di essere stata sottoposta a uno stringente interrogatorio nel quale ho dovuto mostrare di conoscere dettagli sul conto della mia coperta che nessuno avrebbe potuto sapere se non chi la conosceva bene.

E ditemi un po’ se non è rosa! Metto la foto perché vado fiera di questa coperta che dopo avere riscaldato mia nonna nelle notti d’inverno, da stasera (proprio oggi sono tre anni esatti che la mia nonna non c’è più) riscalderà e conforterà me!


Vacanza

Cari amici, vado al mare per una settimana. Nella mia amata Riccione (e che banale, direte voi… Ma io ci sono affezionata, è la mia seconda casa). Ci rileggiamo dall’11 luglio. Un caro e gioioso saluto a tutti 🙂

Vi lascio con una canzoncina allegra:


Al fresco delle stelle, anche più in là

Ogni volta che partecipo a una cerimonia funebre, soprattutto se religiosa, mi rendo conto di quanto essa sia di aiuto per noi piccoli esseri umani, spaventati, persi e sempre un po’ disordinati. Non a caso, ogni cultura o ogni religione ne ha elaborata una. Per quanto mi riguarda – e l’ho sperimentato soprattutto, ovviamente, quando ho perso persone care come le mie nonne e la mia prozia – quei tre giorni in cui la persona è morta ma il suo corpo è ancora sulla terra accanto ai vivi, visibile o dentro una bara, sono i giorni più terribili da sopportare. Non riesci a staccarti, non riesci a trovare un senso, non riesci a pensare che tutto possa andare avanti e il tempo è come sospeso. In tutti questi casi, il funerale non mi ha certo cancellato il dolore ma – parlo per me, ovviamente – lo ha incanalato, gli ha dato una direzione e una guida. È come concludere un capitolo, con la fiducia che se ne aprirà un altro, un secondo tempo, come lo definiva lui. E insomma, ho ascoltato belle parole, oggi.

Buon viaggio, caro Lucio :- )


Aria di novità

Sono tornata, amici! Mi sono presa un po’ di vacanza ma ora si rientra nei ranghi. Adoro settembre e sono tra quelli che lo considerano l’inizio del nuovo anno; altro che gennaio, per me l’anno comincia a settembre, quando dopo il tempo sospeso dell’estate il mondo ricomincia a carburare, quando il sole tiepido e il primo fresco ti invogliano molto più della neve di gennaio a fare buoni propositi e cominciare a metterli subito in pratica. Io inizio il nuovo anno con un cellulare nuovo, ragazzi, uno con la suoneria polifonica! Sono troppo contenta, mi sembra di essere tornata ragazzina perché ho passato tutto ieri pomeriggio ad ascoltare le suonerie e a comporne di nuove col compositore – perché anche nel vecchio io le suonerie me le componevo da me a orecchio e le assegnavo ai vari numeri in rubrica, però erano quelle brutte dal suono “elettronico” non queste polifoniche stupende! – e a telefonarmi da sola o farmi telefonare dagli altri. Scusate, ma sapete com’è, fino a ieri in tutta la mia vita ho avuto un solo cellulare, ricevuto nel lontano 1999 dal mio ragazzo di allora, che lo possedeva da due anni e se ne era liberato solo per comprarne uno nuovo più aggiornato. Da allora, abbiamo cambiato millennio e di acqua ne è passata sotto i ponti: ho cambiato fidanzati, idee e case ma il mio buon cellulare è rimasto sempre lo stesso. E continuerà a rimanere tale perché mi ci sono affezionata; io non capisco quelli che cambiano continuamente oggetti, io mi ci affeziono troppo; come fai a sbarazzarti con indifferenza del pc portatile su cui hai scritto la tesi di laurea, mail d’amore e post per il blog che un pochino ti ha cambiato la vita? O del cellulare che hai ricevuto da ragazza e ti ha accompagnata fino all’età adulta, che era con te nel letto d’ospedale, nei viaggi, al mare, sul quale ti chiamava tua nonna che ogni volta che tu rispondevi: “Ciao nonna!” ti domandava stupitissima: “Ma come fai a sapere che ero io prima di rispondere?” (la memorizzazione in rubrica, questa sconosciuta)? Purtroppo la batteria del mio vecchio cellulare, dopo anni di onorata carriera (be’, in questi tredici anni l’ho cambiata un paio di volte), sta venendo meno e obiettivamente comprare una batteria nuova costa molto più che acquistare un telefonino nuovo di quelli da vecchi, cioè con le funzioni base (telefonate e sms), come il mio nuovo. Ciò non toglie che per ora giro con entrambi i cellulari, il vecchio – finché la batteria non muore definitivamente – con la scheda tim e il nuovo con vodafone; insomma, sembro una manager! E il bello è che prima suonavano tutti e due contemporaneamente e io non li ho sentiti: ero troppo intenta ad ascoltare i racconti di mia mamma sulle malefatte delle mie trisavole, ai tempi in cui i cellulari non turbavano le orecchie della gente. Benritrovati (spero)!

I dolori della giovane Ilaria

In questo periodo mi sento vuota e spenta, sospesa, come se fossi in stand by. È strano perché magari ci sono delle volte in cui sprofondo anche nella depressione più nera, ma non mi sento mai così abulica e insensata. Non so neanche come ci si comporta in questi casi. Forse in questo stato d’animo l’unica cosa che si può apprezzare è Schopenhauer (e invece mi tocca leggere Pietropolli Charmet, interessante ma non mi serve).

Anche le stupidaggini che scrivo (o non scrivo) qui sopra ultimamente non le riconosco; prima ho letto un po’ di miei post dell’anno scorso e li ho trovati belli, pieni di energia, più liberi, a volte anche un po’ cattivi (in modo sano). Quelli di adesso – a parte che scrivo poco, e invece di cose da dire ne avrei così tante – a confronto sembrano aria, sembrano le poesie recitate a memoria alle elementari, non emerge niente di me (a proposito: non siete obbligati a lasciarmi commenti, quando non vi va, non ci resto male). E pazienza, questo non sarà un gran problema ma qualcosa vuol dire. Sono lontana, sono anestetizzata, c’è un’Ilaria che vive e un’altra Ilaria che la sta a guardare, e neanche con grande interesse, tra l’altro (devo chiedere un consulto a Pietropolli – cioè sto impazzendo – o capita anche a voi?).

Odio non capirmi. Cerco di illudermi che la causa di tutto ciò sia un orribile esame endoscopico cui dovrò sottopormi martedì in ospedale, e per il quale son già in semidigiuno da tre giorni e domani mi aspetta una preparazione da incubo e un digiuno totale che non auguro a nessuno (io che se salto un pasto svengo!). E non è solo il disagio fisico, è che certe situazioni ti fanno sentire un corpo (per di più fragile, smagrito e all’opposto della sua forma migliore) e niente più. Di fronte ai medici non sono altro che questo. Ho anche scoperto che non ho più ferro nel sangue e questo significa: flebo (odiose).

Ok, lasciamo perdere anche questo. Forse è perché la tesi mi sta opprimendo. Non riesco più a vedere gli amici, riuscire a trovarsi anche solo per una cena insieme sembra un miracolo e questo mi porta a riflettere sul perché sono arrivata a questo punto. La risposta non mi solleva.

Per di più vivo anche un amore contrastato (detto così fa molto telenovela, eh?). Cioè in teoria sarebbe semplice: io amo lui, lui ama me. Profondamente, in modo assoluto e intenso. Ma il destino non ama noi. Non spiegherò certo qui i motivi ma è un amore a termine, almeno dal punto di vista romantico e fisico (rimarrà imperitura e inscalfibile l’unione spirituale, l’amicizia, l’amore come sentimento puro. E non è poco, in effetti). Quindi ogni abbraccio, ogni scambio d’amore è insieme paradiso e inferno: il senso dell’unione più totale e la percezione dell’abisso che incombe. Come quando mi guardo allo specchio dopo che siamo stati insieme, e mi vedo (anzi sono) semplicemente splendida. Come l’altro giorno, che mi son specchiata e non mi riconoscevo più rispetto a com’ero solo poche ore prima: il volto triste e stanco, pallido e pieno di sconforto aveva ora lasciato il posto a un viso luminoso, sereno, due occhi grandi e felici, le labbra arrossate e distese in un sorriso appagato. Una maschera di felicità che si alterna con quella della solitudine e della paura. Non sono fatta per queste cose, io. Non sono un’eroina romantica. Io da piccola sognavo di fare l’astronauta!

D’altra parte, tutto ciò che al momento mi abbatte, è anche ciò che per altri versi mi rende felice, è la mia vita. E se c’è al mondo una persona felice di vivere, quella sono io. Certo, a volte ho una paura pazzesca. Di tutto. E in questo periodo, come ho detto, mi sento sola. L’altro giorno stavo abbracciando lui su una panchina in via Zamboni (la via dell’università); attorno a noi sfilavano studenti okkupanti assieme a professori in protesta, punk a bestia, cani, carabinieri. Megafoni, trombette, cori (altro motivo di depressione: vogliono uccidere l’università). E io ero lì, chiusa in una bolla impenetrabile; a un certo punto mi sono sentita così triste e sola al mondo che mi è sembrato letteralmente di impazzire. Ho percepito con più forza del solito come sono fatta: sempre bisognosa d’affetto, d’amore, di contatto; ipersensibile, a volte tutto mi ferisce, sento spigoli da ogni parte, ogni cosa mi fa male. Come posso vivere in questo mondo appuntito che però amo tanto? Come posso vivere dentro me stessa? A volte mi sento inadatta. Più tardi, tornando a casa in bici mi scendevano le lacrime mentre pedalavo, ero così infelice che avrei voluto lasciarmi scivolare sull’asfalto e restare a languire lì, senza più opporre resistenza a tutto quel dolore.

Guardo i miei libri e i miei fumetti che mi si parano davanti, strabordano dagli scaffali, si accavallano l’uno sull’altro formando pile e pile, a volte pericolanti: sul tavolo, sul comodino, su ogni ripiano presente nella mia camera; protesi verso me, protettivi, la mia sicura coperta di Linus. Ma anche loro a volte non bastano. Però aiutano.
Metto un po’ di buon blues, e ballo e canto. Anche questo aiuta.
Come girare per i blog amici; mi siete di grande conforto, amici, davvero.

Anche il fatto che sto cercando casa e finalmente a breve me ne andrò da qui aiuta.

Ecco, adesso che ho scritto tutto ciò mi viene anche un po’ da ridere. Mi sento già più sollevata. È la prima volta che spiattello apertamente cose così personali. Però mi sono anche stancata di essere riservata a oltranza, in fondo siamo tra amici e non mi va che attraverso questo blog conosciate solo l’Ilaria allegra e serena (Ci sono anch’io!, protesta l’Ilaria melodrammatica). E poi penso che certi sentimenti li proviamo un po’ tutti, prima o poi; a volte rispecchiarsi in un altro fa bene. Ci si accorge di non essere isolati. Inoltre, diciamocela tutta: tra due giorni degli estranei in camice bianco esploreranno le mie viscere; tanto vale aprire il mio cuore a chi decido io.

Giorni fa ho visto un bel film nel quale era contenuta questa affermazione:

Bisogna che ognuno torni a nascere. Chi non comincerà dal principio non potrà conoscere la verità.

Il film parlava di quando ci capita di accorgerci di come la vita finora condotta non sia (o non sia più) una vita autentica e come questo possa o lasciarci indifferenti (e tirare dritto, pur accumulando frustrazioni) o stimolare in noi quella sana e dolorosa inquietudine esistenziale che ci porta a cambiare, anche radicalmente; a nascere a una nuova vita. Avete mai osservato come sono stanchi, affaticati e spauriti i volti dei neonati, appena venuti al mondo? Hanno lasciato un posto comodo e accogliente nel quale però ormai non potevano più stare; hanno dovuto intraprendere un percorso stretto e difficile, per oltrepassare il quale hanno dovuto mettere alla prova tutte le loro forze; finalmente usciti da quel tunnel soffocante vengono feriti dalla luce, dai rumori, dall’aria, da mani che li toccano: tutte cose nuove che non conoscono. Sperimentano per la prima volta la paura e la separazione. Eppure noi sappiamo che è giusto così, che c’è una vita che li aspetta. Perciò, quando medito sui miei dolori, non potrei mai fare la scelta del povero Werther: so che in questo momento sono nel tunnel; so che sto semplicemente raccogliendo le forze per una vita nuova.


Con comodo

A mezzogiorno e un quarto io e il mio Amico siamo entrati nel ristorante ancora vuoto. Ci siamo seduti a un tavolo, abbiamo ordinato il pranzo.
Mentre mangiavamo il locale si è riempito: tutti i tavoli occupati, frastuono di voci, di posate e di piatti. E noi due sempre lì a mangiare e parlare.
Infine è calato di nuovo il silenzio, nel ristorante solo tavoli vuoti e noi due.

Succede sempre così, due volte a settimana: siamo i primi ad arrivare, gli ultimi ad andarsene. Questa cosa mi piace un sacco (ai camerieri un po’ meno). Se fosse per me, certi pranzi potrebbero durare anche tutta la vita.


Sorpresa!

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Questa faccia dall’espressione “leggermente” stanca è la mia… e sono qui, pallida e ringobbita, perché le nuove Iene, alias Laura e Lory, hanno deciso di sottopormi a un’intervista doppia assieme all’amico blogger Jedredd. Intervista che potete leggere cliccando qui.

(Siccome tra i miei amici blogger ci sono fotografi provetti… abbiate pietà di me e della foto, scattata con la mini webcam del pc portatile. Non ho videofonini né macchine digitali…).

Naturalmente vi consiglio di leggere anche le altre interviste delle nuove Iene, sempre sul sito di Laura e Lory!


Otto cose di me…

Raccolgo l’invito della blogger-amica Caterina Pin a raccontare otto cose su di me che ancora non sapete… E pensare che qui non faccio altro che parlare di me! Comunque… eccole:

1.  Ho l’abitudine di inventare delle storie e di raccontarmele. Lo faccio soprattutto nei cosiddetti “tempi morti”: mentre a letto aspetto di addormentarmi, mentre sono in bici o in autobus e così via. A volte queste storie prendono una piega così tragica e melodrammatica che mi commuovo e scoppio a piangere per la disperazione. Sono inconsolabile, e capirete che è un po’ imbarazzante se mi trovo su un mezzo pubblico o in coda all’ufficio postale (e mi è successo!). Allora in questi casi faccio in modo di raccontarmi storie umoristiche (meglio ridere da sola che piangere, no?).

2.  Tra i miei riti quotidiani, quello irrinunciabile è il rito del tè. A metà pomeriggio, dovunque mi trovi e in qualunque condizione, devo bere una tazza di tè. Non solo: rispetto con grande cura (cioè: cronometro alla mano) il tempo di infusione (non più di tre minuti, affinché sia bello potente), quando uso le bustine non mi limito a estrarle ma le strizzo bene in modo da spremerne tutto il succo e di solito, quando lo bevo a casa, accompagno al tè cucchiaiate di miele, ma non lo sciolgo nel tè, me lo mangio direttamente. D’inverno, dopo il tè bevo anche due dita di Vov!

3.  Quando al mattino, dopo che mi sono alzata, passo davanti allo specchio, di solito sono così felice di rivedermi che mi vien voglia di abbracciarmi.

4.  Ho paura del buio (solo dentro casa mia, però, non altrove) e quando sono in casa da sola, la sera, quando devo andare a letto accendo tutte le luci, poi, quando arriva il fatidico momento in cui, dopo essermi lavata i denti, le devo spegnere per mettermi a letto e l’unica stanza illuminata resta la mia camera, faccio una corsa forsennata nel buio per raggiungerla e finché non sono a letto con le braccia coperte dalle lenzuola non mi sento tranquilla (a quel punto potrebbe anche entrare nella stanza un esercito di Zombie ma, essendo coperta, non so perché mi sentirei comunque al sicuro). Il problema è che, correndo in quel modo e dovendo fare un percorso tortuoso per raggiungere il letto, sbatto contro mobili e pareti e il giorno dopo mi ritrovo con un bel po’ di lividi…

5.  Un giorno, quando avevo 17 anni, mi sono svegliata e improvvisamente, e con grande sgomento, mi sono scoperta atea. È stato uno dei giorni più brutti della mia vita; da lì sono iniziati ben otto lunghi anni di ateismo sofferto, pieni di nostalgia e ribellione (non c’è stato un solo giorno in cui sono stata felice di non credere in Dio o  mi sia sentita per questo più libera), al termine dei quali una mattina mi sono svegliata e non ero più atea. Ho minacciato Dio che piuttosto mi fulmini o mi privi di una gamba ma non mi faccia mai più un simile scherzo.

6.  Quando ero piccola e mi svegliavo al mattino nel mio letto, sentivo dei rumori di stoviglie provenire dalla cucina ed ero convinta che ci fossero delle scimmie che venivano ogni mattina a giocare nella mia cucina. Poi un giorno ho scoperto che sfortunatamente erano solo i miei genitori che preparavano la colazione.
All’epoca, poi, soffrivo di allucinazioni notturne: durante la notte mi svegliavo e vedevo e sentivo degli insetti rossi e neri percorrermi tutto il corpo! Non potevo scacciarli, era orribile, mi salivano fino in faccia ed erano tantissimi (ogni benedetta notte). Però se allungavo un braccio e toccavo con la mano la sponda del letto di mio padre (senza svegliarlo) sparivano subito.

7.  Una fantasia che ho da sempre è quella di restare chiusa per tutta la notte, da sola, in un edificio pubblico (una chiesa, una scuola, una biblioteca…). Ogni tanto (magari mentre sono a messa o in una scuola o in coda in qualche ufficio comunale) studio come potrei fare a restare dentro dopo la chiusura senza farmi scoprire e immagino come potrebbe essere. Temo che questa mania derivi dai cartoni animati di Scooby Doo che guardavo da piccola (Scooby Doo e i suoi amici passavano sempre la notte in un castello a cercare fantasmi).

8.  È da quando andavamo ancora a scuola che le mie amiche hanno l’abitudine di sottopormi le lettere che scrivono, affinché io le corregga. In particolare alle superiori la mia migliore amica si innamorò perdutamente di un ragazzo più grande che probabilmente non sapeva neanche della sua esistenza e cominciò a bombardarlo di lettere d’amore (corrette e rielaborate da me su suo canovaccio) che, modestamente, ottennero anche, dopo litri d’inchiostro, l’effetto voluto. Ecco perché non mi sono stupita del fatto che quando nella mia casa editrice si dovette affidare a qualcuno il compito di correggere le bozze, fui scelta io!

 

Ecco. Io la catena non la passo a nessuno in particolare, però, dato che è un modo simpatico per farsi conoscere un po’ di più, invito chi ne ha voglia e non l’ha già fatto a postare le otto curiosità che lo/la riguardano. Che ne pensate delle mie?