Perché cantando il duol si disacerba

Oggi ho letto questobellissimo racconto di Decano e mi è subito venuta in mente questa storia di famiglia (che non c’entra niente col suo post ma c’entra molto con la forza della musica).

Durante la guerra la famiglia di mio padre viveva in un piccolo paese in provincia di Ancona. Erano tempi bui per tutti ma a causa delle loro opinioni politiche per loro la vita era particolarmente difficile. Uno zio di mio padre, che aveva appunto perso il lavoro, non riusciva a mettere insieme una cena ogni sera per la sua numerosa famiglia. Ma anche quando non c’era niente da mangiare lui e la moglie apparecchiavano ugualmente la tavola addobbandola di tutto punto, con la tovaglia migliore e il servizio buono. Poi, mentre moglie e figli sedevano ognuno al proprio posto di fronte al piatto vuoto (e quando scrivo vuoto intendo proprio vuoto), lui impugnava il suo amato violino e suonava per loro. Quella musica era la loro cena. E mia nonna, che spesso partecipava a queste “cene”, racconta che quella musica riusciva davvero a confortare la famiglia e anche a lenire la fame e l’ingiustizia. Secondo lui la musica, se unita alla buona coscienza, poteva nutrire più di un pollo arrosto. E non solo la musica: perché lo zio era capace di raccontare storie che facevano sbellicare dalle risate e amava moltissimo la sua famiglia; il calore e l’allegria che sapeva trasmettere permetteva a tutti di essere felici anche senza mangiare tutti i giorni (so che suona patetico e buonista ma se conosceste i miei familiari vedreste che sono ancora tutti più o meno fatti così e lo trovereste naturale). Questo zio era, un po’ come tutti nella mia famiglia paterna, un uomo sorridente e capace di volgere al meglio ogni situazione. Pensate che fu perfino incarcerato e torturato ma quando uscì, nonostante fisicamente facesse impressione, era sorridente e allegro come prima. E naturalmente tenne subito un concertino.

Quando vado al cimitero, visito sempre la sua tomba, anche se non l’ho mai conosciuto di persona. Sulla lapide, sotto al suo nome, è scritto a chiare lettere: Medico Musicista Uomo libero.

E penso sempre che voglio vivere in modo da meritare anch’io un simile epitaffio!


Il pensiero dominante [La storia di Rata, diventata Rita]

Il pensiero dominante per Leopardi era l’amore, per molti, oggi, è la paura.

Conosco una persona che è convinta di avere un buco in testa. È anche convinta che sua madre complotti con non ben identificati santoni perché le facciano dei malefici (per evitare questo ha nascosto tutte le fotografie che la ritraggono ed evita di farsi fotografare; inoltre controlla ogni movimento della madre). È convinta di avere un corpo così fragile che basta toccarlo per deturparlo orribilmente. Per questo non andava dal dentista anche se ne aveva bisogno e quando l’ho costretta ad andarci (prendendole io l’appuntamento e accompagnandola di persona) si è convinta che il dentista le avesse fatto un buco in gola.

Se le faccio notare con argomenti razionali che non ha un buco in testa (né in gola) lei mi dice che sono pazza, oppure che complotto con i suoi genitori (che non conosco neanche) per farle del male.
Una volta l’ho vista al supermercato, da lontano. Si grattava ininterrottamente la testa; la gente che passava la evitava con disgusto, ma io sapevo perché lo faceva: cercava il buco.

I nostri rapporti sono sempre stati quasi esclusivamente telefonici.
Questa giovane donna, che ha trentatre anni, è un’ex alunna di mia madre. Qualche anno fa – mia madre non era più sua insegnante da parecchi anni – le ha telefonato e ha cominciato a parlarle di questo buco in testa. A volte veniva a suonare il nostro campanello (quando abitavamo nella casa vecchia e avevamo il videocitofono): dato che aveva una capigliatura riccia simile a quella di mia madre, è capitato che spesso distrattamente le aprissi la porta e me ne tornassi in camera mia; dopo un po’, non sentendo la solita confusione che fa mia mamma quando entra in casa ma un gelido silenzio, andavo in salotto a controllare e trovavo lei, Rita, seduta sul divano, rigida e muta, che mi fissava: una situazione da incubo.
Dopo un po’ mia mamma si è stancata di stare al telefono con lei; le faceva perdere tempo, diceva, e le faceva anche paura. Io invece, pur malvolentieri, non ho smesso di ascoltarla, così lei ha iniziato a non cercare più mia madre ma me, nonostante io in realtà la rimproverassi spesso, non le dessi mai ragione su niente e le ripetessi chiaro e tondo che doveva andare da uno psicologo. Mi è sempre stata antipatica, questa Rita, e infatti ho cominciato, dentro me, a chiamarla Rata (la mia rata per il paradiso, ironicamente parlando); non per la malattia, ma per il suo modo di fare, per il suo parassitismo innato, per il suo eterno vittimismo che va ben oltre la malattia e anche per le sofferenze causate ai suoi genitori.

Una volta però ho ricevuto una sua telefonata particolare: aveva la voce strana, impastata, più ottusa del solito (già normalmente ha una voce d’oltretomba; se fossi un tipo impressionabile, basterebbe questo a spaventarmi). Mi telefonava dal reparto psichiatrico dell’ospedale: TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Aveva dato in escandescenze a casa scagliandosi contro i suoi genitori che avevano chiamato i soccorsi; in seguito a questo episodio era stata ricoverata contro la sua volontà (il suo più grande terrore era stare in un posto che non fosse casa sua, dove pure sta male) e imbottita di farmaci: a ciò si doveva la voce impastata e un certo tono rassegnato; non era più convinta di avere un buco in testa, ma non voleva più uscire dall’ospedale. Finito il periodo di ricovero obbligatorio ha voluto restare lì.
Imprecando contro non so chi e cosa, ho preso la bicicletta e sono andata a trovarla, benché ogni fibra del mio corpo  e del mio spirito si ribellasse all’idea. L’ho vista, con l’aria ebete più del solito, odiosa più del solito, vinta più del solito. Non ho provato pena né compassione né simpatia. Solo un senso di rivolta che mi partiva dalla punta dei piedi, mi incendiava il cuore e mi pizzicava il cervello; non riesco ad accettare di vedere un essere umano ridotto così, anche se è il più antipatico della terra.
Tornata a casa, ho navigato un po’ su internet cercando informazioni. Ho letto siti e interminabili e iperdeprimenti forum in cui persone malate vomitavano le loro paranoie; ne sono uscita angosciata e un po’ paranoica anch’io, ma con un’informazione utile: il titolo di un libro miracoloso, a giudicare dall’esperienza di tanti ex fobici che che l’avevano letto: si intitola Il cervello bloccato, l’autore è J.M. Schwartz.
Nel frattempo Rata era uscita dall’ospedale e non prendendo più le medicine le erano tornate le solite fobie: da una gabbia all’altra.
Ho letto quel libro: molto interessante ma, come capita in questi casi, quando lo si legge ci si convince di soffrire di tutte le fobie descritte (e al massimo livello). Quello che conta è, però, che contiene una serie di indicazioni, di carattere eminentemente pratico, che sembra funzionino per tenere sotto controllo la fobia (si rifanno ai principi della psicoterapia cognitivo-comportamentale). Dato che Rata non voleva vedere psicologi e che peggio di così non poteva stare (secondo me) ho iniziato a suggerirle io, adattandole a lei, alcune di queste utili regolette. Poi abbiamo letto insieme alcune esperienze raccontate nel libro (quelle simili alle sue, ma non le più gravi affinché non si spaventasse ancora di più).
Confermo, amici: quel libro fa miracoli. Piano piano, l’ansia di Rata è un po’ diminuita, quel tanto da convincersi ad andare da uno psicologo. Ho riconsultato i forum disperati (un’esperienza che sconsiglio, fa stare veramente male: la paura risucchia la personalità di un individuo e la riconduce solo ed esclusivamente a un eterno pensiero ossessivo), ho chiesto in giro, ho trovato una psicologa: dopo mille titubanze e ripensamenti Rata ha iniziato ad andarci. Senza prendere medicine, ha cominciato a migliorare. Mi ha telefonato poco fa per dirmi che ha trovato lavoro come commessa, lei che aveva il terrore di mettere un piede fuori di casa e di affrontare le persone.

È ancora convinta di avere il buco in testa; ma si è anche convinta che si può convivere con un buco in testa. E io penso che questa sia una cosa fantastica. Mi sta quasi simpatica, questa Rita.


Noi, orridi borghesi

Come da tradizione, ho trascorso le vacanze pasquali a Piacenza, dove risiede gran parte della mia famiglia materna, in particolare nonna e prozia.
Al mio arrivo ho l’abitudine di aggirarmi per l’appartamento in una sorta di giro di ricognizione. Fino a qualche tempo fa questo aveva un senso: c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire, perché mia zia vive praticamente per abbellire la casa arricchendola con oggetti sempre nuovi. Ma ora mia zia è in ospedale e a mia nonna non interessa nulla di avere un ninnolo in più o in meno.

Seduta sull’ampio divano rosso antico mi guardo attorno. Ricordate le buone cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria? Ne sono circondata. Non a caso, durante le mie ribellioni adolescenziali quella casa rappresentava per me il peggio del peggio. L’istituzione da abbattere. Tavolini e tappetino da bridge innanzitutto.

Ma mia zia sta male, ora. Prima di peggiorare e di essere ricoverata prima all’ospedale poi in un hospice (dove tuttora si trova, in attesa di tornare a casa) mi ha fatto venire da Bologna per mostrarmi l’eredità, pur sapendo benissimo che non me ne importa niente (voglio solo le fotografie di famiglia, io). Eppure, per farle piacere, ho girato con lei tutta la casa, ispezionando ogni oggetto di valore, di cui ho ascoltato la storia; ho stilato elenchi dell’argenteria, dei quadri e di ogni altra cosa preziosa. Ho sostato di fronte ai quadri degli antenati ascoltandone per la milionesima volta l’intera biografia.

Tornata a casa mia, ho poi riguardato i vecchi filmini di famiglia, che ormai conosco a memoria: mia mamma e i miei zii erano bambini piccoli, mia nonna aveva poco più degli anni che ho io adesso. Erano gli anni’50 e ’60 e tutta la famiglia era in villeggiatura a Riccione. Uno zio riprendeva tutto con la cinepresa. Mia zia giocava a posare da diva, e le veniva benissimo.

Questi filmini quand’ero piccola venivano proiettati su un muro, poi sono stati trasferiti su videocassetta e ora su dvd.
Questo significa che sopravvivono e sopravviveranno ai loro interpreti. Purtroppo non basta trasferire le vite umane da un supporto all’altro per farle durare di più.

Mia zia (che è poi la mia prozia) ha avuto una vita avventurosa e anticonformista.
L’ho sempre sentita iniziare tante frasi con l’espressione Noi orridi borghesi; frasi in cui stigmatizzava i tanti difetti di quella grande borghesia lombardo-veneta cui in realtà è sempre stata orgogliosa di appartenere. Non mi è mai sfuggito il sottile compiacimento con cui si definiva orrida.

Anche nel letto dell’ospedale, lei si deve distinguere: sempre in ordine (benché con flebo e tubi per l’ossigeno a invaderle il corpo), con la sua camicia elegante, il foulard in testa; ha voluto che comprassimo chili di ovetti di cioccolato che poi lei stessa ha elegantemente distribuito alle infermiere che si alternano al suo letto.

A casa sono pronte delle lenzuola di raso blu. Quelle in cui vuole chiudere gli occhi per l’ultima volta.
È dalla scorsa estate che ci scherziamo tutti su (lei compresa): lo chiamiamo “il baldacchino”, quel letto in cui vuole la sua bella morte.

E se poi ci sbagliamo e mettiamo le lenzuola in anticipo, tu le vedi e muori per lo spavento?
Questa stupida battuta la fa sempre ridere. Gliel’ho ripetuta anche domenica, quando abbiamo festeggiato la pasqua tutti insieme nella sua stanzetta.
E di nuovo lo ha detto :
-Noi orridi borghesi ci teniamo alla forma, anche in punto di morte. È più forte di noi.-

Ed ecco perché ci stiamo tutti dando da fare perché possa tornare a casa sua; non può morire lontano dalla casa a cui ha dedicato gran parte della vita, lontano dalle sue cose, dalle sue lenzuola e dai suoi quadri.
Non può mancare l’ultimo appuntamento con la sua morte da splendida borghese.


Tra una spada e la libertà

Mia sorella Linda da piccola pareva soffrire di una strana sindrome d’assedio.

Fin dai tempi della scuola materna prese l’abitudine di tenere accanto al letto una spada (di plastica, che faceva parte del mio meraviglioso costume da moschettiere) “per difendersi dai ladri”.
A nove anni scrisse e sigillò il testamento (che tuttora è conservato nel cassetto dei calzini di mio padre).
Verso gli undici anni, sentendo al tg la notizia di persone risvegliatesi dal coma dopo avere ascoltato la loro musica preferita, registrò su una cassetta tutte le canzoni che avremmo dovuto farle ascoltare nel caso fosse caduta in coma; annotò poi su un taccuino le canzoni preferite di ogni membro della famiglia, nel caso il coma non fosse toccato a lei.
Infine, stilò una lista di oggetti a lei cari da portare via in caso di improvviso incendio della nostra casa. Ebbe cura di collocarli tutti insieme in un posto strategico in modo che fossero facilmente accaparrabili durante una fuga concitata dall’appartamento in fiamme.

Potreste a questo punto pensare che mia sorella sia diventata una persona paurosa e assillata da fobie di ogni tipo.
E invece, mia sorella è una giramondo. All’età di 25 anni è già stata in tre continenti diversi (e non per turismo, ma per studio o volontariato), adattandosi e cavandosela in qualunque situazione. A Bordeaux le sono entrati più volte i ladri in casa e, nonostante non avesse nessuna spada con cui scacciarli, non si è scomposta più di tanto. In Etiopia si è trovata in condizioni anche più pericolose e di nuovo le ha superate tranquillamente. Adesso è andata a vivere a Napoli per studiare le lingue africane e quest’estate farà uno stage in Tanzania (vivendo in famiglia).
È, come me, una persona fragile che cerca di non lasciarsi ingabbiare dalle sue insicurezze.

La sua spada è rimasta qui in camera mia e quando la guardo non posso non sorridere pensando a una ragazza che ha imparato ad affidarsi al mondo senza portare armi con sé.


Nei prossimi due giorni sarò in “pausa pasquale”. Perciò auguro anche a voi di trascorrere una meravigliosa Pasqua. A presto!


La cultura quando mi è apparsa aveva forme generose e un cuore grande

Io sono nata a dicembre, perciò è come se avessi un anno in meno rispetto a quello che appare sulla carta e che però è ciò che vale; per questo motivo mi son sempre trovata mio malgrado a dover fare delle cose in anticipo, tra cui ovviamente l’ingresso a scuola.
Quella mattina di settembre mio padre e io ci incamminammo verso l’edificio che a partire da quel giorno sarebbe stata la mia scuola elementare. Io ero arrabbiatissima perché, oltre a dover indossare un orrido grembiulino pizzoso che mi tirava da tutte le parti, avevo anche una repellente cartella rosa (colore all’epoca da me odiato e aborrito) che piaceva tanto a mia madre. Perciò marciavo in silenzio e con passo cadenzato.
A un tratto mio padre mi poggiò la mano sulla spalla (suo gesto solenne che anticipa di solito qualche conturbante rivelazione o almeno un noioso predicozzo) e con tono formalmente commosso annunciò:
-Ilaria, da oggi tu entri nel mondo della Cultura. Vedi di farti onore e ricordati che sei una xxx!-
(Che è il mio cognome, cioè uno dei cognomi più banali d’Italia, saremo in migliaia a chiamarci così…).
L’idea di farmi onore mi piaceva (era anche il periodo in cui mio padre mi leggeva i grandi romanzi d’avventura); la Cultura, invece, con quella c maiuscola che mio padre aveva scandito con tanto orgoglio, mi suscitava diffidenza e un senso di freddo.

La sera prima mio padre aveva aperto il mio quaderno, ancora perfettamente intonso, e aveva vergato di suo pugno, sulla prima pagina, un geroglifico (o a me così pareva) che qui trascrivo, sottolineature comprese:
«Il mio italiano dev’essere il più possibile concreto e il più possibile preciso»; I. Calvino.
Ora, io ero completamente analfabeta. Non ero come i bambini di oggi che a quattro anni sanno già leggere e scrivere in almeno due lingue diverse. Io non volevo assolutamente uscire dalla mia beata condizione di analfabetismo perché fino ad allora, in qualunque momento lo desiderassi, c’era sempre un adulto pronto a leggermi o raccontarmi una storia (o interi romanzi, come faceva mio padre, che me li leggeva a puntate la sera). Intuivo chiaramente che non appena avessi imparato a farlo da sola sarei stata abbandonata a me stessa. Vedere poi mio padre perennemente chino su libri o quaderni con la testa tra le mani e la gastrite nervosa non mi aiutava a trovare allettante l’idea di leggere e scrivere.

Comunque, con in mente il proclama di mio padre, mi trovai in classe, seduta in un banco a caso, circondata da bambini in lacrime. La mia compagna di banco (che poi sarebbe diventata la mia migliore amica) singhiozzava come neanche un’orfanella nei più tragici cartoni animati giapponesi. Non un’atmosfera molto incoraggiante.

Io però ero come sono adesso: prima di avere reazioni inconsulte mi guardo intorno e cerco di capire la situazione.

E mentre mi guardavo intorno vidi lei, la maestra, fare il suo ingresso in aula. La prima cosa che vidi, data la mia scarsa altezza e la mia posizione seduta, fu questo suo grandissimo, esorbitante e morbidissimo seno; oltre a essere grosso sembrava anche dotato di potenzialità estensive. Inoltre sembrava protendersi in avanti come per accogliere chiunque avesse bisogno di conforto. Tutto il corpo della maestra appariva meravigliosamente morbido, florido, rassicurante e caldo.
Lo paragonai immediatamente (e impietosamente) al corpo di mia madre, sottile, ossuto, freddo e respingente: scomodissimo, nonostante lei ne andasse tanto fiera.
Poi guardai il viso della maestra: affettuoso e sorridente.

Allora ho pensato che qualunque cosa fosse la cultura era sicuramente qualcosa di meraviglioso se proveniva da lei.

E così è stato: del corpo della maestra ho potuto abusare a piacimento durante i cinque anni poiché lei era generosa nell’elargire abbracci e baci quanto nell’insegnare tabelline e congiuntivi o nel guidarci in avventurose gite e giocosi passatempi.
Per la prima volta nella mia vita mi sono sentita al caldo e protetta e amata da una persona che al tempo stesso aveva anche un ruolo ufficiale. In lei, proprio in lei fisicamente e anche però nel suo carattere, piacere e dovere si compenetravano superbamente, non procedevano su binari diversi.

E siccome io sono un’oca di Lorentz, questo imprinting mi è rimasto impresso e mi accompagna tuttora. Vorrei quasi avere perfino quel suo fisico, che oggi sarebbe giudicato grasso, se fosse possibile.  Ecco perché non comprendo tante polemiche o cattiverie o scorrettezze che pure avvengono in quel campo: credo che nel fondo del mio cervello la cultura continui ad avere l’aspetto materno e profumato di una donna morbida e accogliente.

Per la cronaca, la mia maestra la incontro spesso in giro per il quartiere e, benché invecchiata, la sua affettuosa carica esplosiva è rimasta intatta: ancora mi stritola tra le sue capienti braccia e in un solo gesto fa sgorgare di nuovo in me ricordi indelebili. È la mia madeleine vivente.


Il Re del mondo

È un uomo magro, alto ma curvo, cammina con il viso rivolto a terra, la schiena piegata, sembra un Atlante stanco. Ha spesso sul volto una smorfia di fatica. Perché si ostini a portare sulle spalle il Peso del Mondo io non lo so.  

Passa ogni sera sotto la mia finestra, in primavera e in estate. D’inverno non lo vedo mai. Forse migra? Porta il suo peso altrove nei mesi freddi? O sta in casa, ammutolito accanto a un termosifone… facendo cosa? Sognando? Desiderando? Si può sognare quando hai il mondo davanti a te, nelle tue mani? Se hai tutto lì e non sai cosa farne? Anche se è questa cosa così triste e pesante, anche se ne conosci solo il dolore: che cosa si può desiderare di meglio, di diverso, di ulteriore? Che cosa si può voler cambiare, quando ce l’hai lì tutto intero, nella sua incredibile complessità?

E la gente neanche se ne accorge, lui cammina lungo la via Emilia, le macchine passano sfrecciano strombazzano, nessuno lo nota mai o si ferma di fronte… al Re del mondo. Perché chi possiede una cosa ne è il signore e padrone. E lui allora, dico io, è il Re del Mondo, anche se sembra il più povero tra i poveri, perché ha cura di quel fardello così pesante senza stancarsene mai.

Di re non ce n’è solo uno, ma io anche quest’anno sono qui che aspetto lui e i timidi sorrisi che mi regala.

 

[Questo post è brutto, lo so; non son capace di scriverlo meglio. Ma è dedicato a quest’uomo solitario e triste che però mi sorride sempre quando io gli sorrido, appare solo a un certo punto dell’anno pur abitando nel mio quartiere e una volta – ma è stata l’unica e neanche allora ha detto una parola – mi ha anche regalato un fiore. Compie sempre lo stesso percorso e adesso ormai dovrebbe comparire].


Una provocazione postuma

Adesso vi riferisco questa cosa che a me è molto piaciuta e che è stata raccontata da Vittorio Giardino al convegno su Magnus.                                                   

Ha detto, Giardino, che lui e Magnus una volta stavano scherzando sul fatto (che penso avremo tutti ben presente) che finché un artista è vivo e vegeto in molti lo snobbano, ma appena muore o poco dopo, ecco che chi in vita non lo considerava proprio o, peggio, lo ha anche ostacolato, si slancia in generose commemorazioni: pubblica un languido coccodrillo, rilascia commossi ricordi a solleciti intervistatori, partecipa a convegni vantando antiche amicizie e così via.

E Magnus, scherzando, propose la tal cosa: nel caso uno tema queste sgradite appropriazioni postume della sua persona, potrebbe stilare una bella lista di nomi, metterla in una busta assieme a una certa sommetta di denaro e consegnarla a un notaio dandogli le dovute istruzioni.
A tempo debito, deceduto l’artista, il notaio aguzzerà la vista: ogni qual volta leggerà su un giornale, per esempio, un commosso necrologio o una nostalgica commemorazione del defunto, controllerà la lista: se il nome dell’autore del necrologio vi appare, il notaio provvederà, tramite la sommetta di cui dispone, a far pubblicare su quello stesso giornale un paginone in cui l’artista, dal sepolcro, smentisce la sua presunta amicizia col profittatore Coccodrillone di turno, svergognandolo per bene. E vendetta sia fatta (chi l’ha detto che i morti son tutti buoni?)!

Ovviamente era uno scherzo, una piccola provocazione. Ma devo dire che, dato che anche a me questi fenomeni di sciacallaggio fanno davvero un po’ ribrezzo, mi è rimasta impressa, e non mi dispiacerebbe vederla realizzata, una volta tanto…


L’autore, l’opera, il lettore [Manteniamo le distanze, please…]

In questi giorni si è rafforzata in me un’opinione che mi accompagna già da tempo. Vorrei sapere cosa ne pensate voi.

Secondo me gli incontri con gli autori non servono a niente e non arricchiscono in nulla il lettore. Per me, una volta che un libro è in circolazione, ha una vita propria e separata da chi lo ha scritto. Nell’annosa disputa, sono di quelli che separano la vita dell’autore dall’opera. Non m’interessa il gossip sull’autore di un romanzo che amo. E neppure m’interessa incontrarlo in un’occasione pubblica in cui lui dovrà parlare del suo libro. Infatti a questo tipo di incontri, che trovo inutili e noiosi, non vado mai. L’autore arriva, viene presentato, gli vengono poste alcune domande, legge qualche pagina della sua opera; stringe qualche mano, firma qualche autografo e se ne va.

Ieri per esempio ho dovuto presenziare (per lavoro) a un incontro con Frederik Peeters, un autore svizzero di graphic novel. Mi piacciono molto i suoi lavori, li conosco bene; anche la mostra a lui dedicata è molto bella, con tavole originali e poco conosciute. Ma l’incontro di ieri non mi ha dato niente in più: lui è stato simpaticissimo, molto disponibile e generoso: ha parlato tanto, risposto a ogni domanda, svelato retroscena, curiosità e piccoli trucchi del mestiere. Ma io ne sono uscita uguale a prima; quello che penso delle sue opere e l‘interpretazione che ne do non ha subito alcuna modificazione.
A volte incontrare l’autore può essere una grande delusione, come mi è accaduto anni fa con Bianca Pitzorno, la più affermata scrittrice per ragazzi del nostro Paese (ma molti dei suoi romanzi possono essere tranquillamente apprezzati dal pubblico adulto; La bambinaia francese, per esempio, è una riscrittura di Jane Eyre dalla prospettiva della piccola Adèle, e oltre a essere un romanzo in sé avvincente, è poi molto intrigante divertirsi a scoprire tutti i riferimenti e le citazioni presenti nel testo – da Dickens a Sue all’onnipresente Balzac e così via -). Mentre il suo modo di scrivere è vivace, scintillante, coraggioso, dal vivo mi è parsa spenta, impacciata e molto scontrosa (impressione ripetutasi in più occasioni).
Io amo a dismisura Ugo Cornia. Nonostante le occasioni di ascoltarlo leggere brani dai suoi romanzi siano state tante, non ne ho mai approfittato. Preferisco leggermeli tra me e me, o leggerli agli amici, parlarne con loro.

Per me il senso del romanzo sta nelle interpretazioni che ne danno i lettori, nel dialogo silenzioso e intenso che avviene tra il lettore e l’autore implicito (cioè quello che parla nel romanzo); non (paradossalmente) nelle spiegazioni di chi il libro lo ha scritto.

Preferisco insomma il lector in fabula all’auctor ex cathedra.

Conosco invece persone che non si perderebbero mai un incontro con un autore, perfino quando non hanno letto i suoi libri… E voi che ne pensate? Ci andate? Non ci andate? Ne uscite arricchiti? Indifferenti? Disgustati?

 

P.S. doveroso: per “incontri” intendo occasioni ufficiali come presentazioni di libri e simili. Sono ben felice di conoscere gli scrittori che ho conosciuto tramite blog – Paolo, Laura e Lory, Davide – e di leggere i loro romanzi. 😉


Aggiornamento: MariaStrofa aveva trattato lo stesso argomento nel suo modo colto e surreale in questo suo post di qualche tempo fa. Vi consiglio di leggerlo perché è spassosissimo!


Carlo disimpara a vivere [L’anno della Grande Fuga]

Quando avvenne, esattamente, non si sa. Quello che si sa, quello che è stato ricostruito, è che dopo avere tanto meditato, dopo essersi scontrato più volte con la realtà, sentendosi impotente di fronte al peso terribile della sua vergogna (solo le persone serie si vergognano delle proprie colpe), Carlo decise che questo pianeta non era il posto adatto a lui, né lui era adatto a questo pianeta.

Che sia stata l’illuminazione di un momento o una consapevolezza fiorita lentamente nel corso di giorni vuoti e lunghe notti, Carlo, a 29 anni, decise di disimparare a vivere. E di programmare la Grande Fuga.

Essendo un tipo romantico, oltre che molto insicuro, l’addio fu lungo e meditato, la fuga accuratamente progettata.

Per prima cosa, si licenziò dallo zuccherificio in cui era stato costretto a lavorare.
Disdisse gli appuntamenti già fissati, tramite agenzia matrimoniale, con alcune signorine.
Di esami all’università era già da tempo che non ne dava più (fingeva soltanto).
Si congedò dolcemente dagli amici (ne aveva molti) senza che loro si accorgessero che era un congedo.
Suonò la chitarra l’ultima volta (con enorme fatica scorreva il plettro sulle corde), per il matrimonio del suo migliore amico (le promesse si adempiono, anche quando un buco nero ridisegna i confini del cuore).
Stabilì una data per la partenza: a fine mese, il giorno in cui avrebbe personalmente ritirato la pensione della madre e della zia (se ne sarebbe andato come un ladro, è il caso di dire).

Poi, sistemate queste faccende, quando mancava poco più di una settimana al grande viaggio, sollevò la cornetta del telefono e chiamò la sorella a Bologna. Le chiese di mandargli a Piacenza la nipotina prediletta, della quale appena due mesi prima aveva festeggiato l’undicesimo compleanno. I genitori della ragazzina dissero di no: la figlia non poteva perdere una settimana di scuola. Carlo implorò. La nipote, allertata dallo zio, inscenò un’esasperante sequela di pianti, digiuni e urla lancinanti. I genitori dopo due giorni di tale tortura cedettero e di lì a poco zio e nipote si abbracciarono alla stazione di Piacenza.

«Questa settimana staremo sempre insieme», fu la promessa.

E così fu. Uscivano insieme la mattina presto, tornavano a volte a pranzo per poi uscire di nuovo fino al tramonto. Spesso restavano fuori tutto il giorno, nonostante i rimproveri della madre di lui (e nonna di lei).
Cosa facevano? Camminavano instancabilmente tenendosi per mano. Parlavano e si confidavano timori, gioie e tremori come fossero due adulti. Percorrevano in lungo e in largo la città nella quale lui era cresciuto e che si apprestava a lasciare. Visitavano tutti i luoghi della sua infanzia in una dolorosa via crucis.
«Questa era la mia scuola elementare. C’era una maestra terribile, certe volte mi picchiava»;
«Questo il liceo classico. Se tornassi indietro non lo rifarei. Era stata la famiglia a insistere che dovevo andarci».

Ogni luogo un brutto ricordo, un rimpianto.

Poi, i posti belli, i loro posti.

Il Po. Ore e ore le passavano sugli argini del grande fiume, a tirare sassi e bastoni, a giocare ai contrabbandieri, a rotolarsi tra foglie e rametti scricchiolanti.
Il Facsal, un lungo viale pedonale alberato con annessi giardini pubblici e giostre.
Cinema, almeno un film al giorno, se non di più; film da grandi. In una settimana la ragazzina si fece una  cultura in tema di sesso e robe da adulti che, tornata a Bologna, elargì poi generosamente alle amiche conquistando una notevole popolarità a scuola (cosa di cui resta eternamente grata all’amato zio).
La sera si rintanavano nella cameretta di lui, dove ascoltavano i suoi dischi, leggevano fumetti e chiacchieravano per ore. Ogni tanto lui accennava al suo dolore, al bisogno di andarsene, e scrutava le reazioni di lei. Lei aveva capito tutto ma reggeva il gioco. Solo la notte ogni tanto piangeva. Di giorno, invece, risate sfrenate, tra una confidenza e l’altra. E regali su regali, lui le comprava qualsiasi cosa.

L’ultima sera, la sera del 27 febbraio, nella stanzetta di lui.
«Se domani ti dicono che me ne sono andato, non ti spaventare».
«Va bene».
«Non dire che lo sapevi. Fai finta di niente».
«Non sono mica scema».
«Può darsi che non ci vedremo più…».
«…».
«Mi prometti che non piangi?»
«Yessss!».
Sfregatina complice di nasi e ultimo round di lotta libera sul pavimento, con morsi a profusione.
Durante la notte lei si infilò nel suo letto e dormirono insieme, appiccicati.

La mattina dopo prepararono entrambi le loro valigie: lei sotto lo sguardo premuroso della nonna, lui in gran segreto.
La nonna la accompagnò in stazione, la mise sul treno e lei tornò a Bologna.
Lui andò a ritirare le pensioni, le intascò, salì su un treno e partì verso l’ignoto.
Sul tavolo della sua camera aveva lasciato una lettera in cui chiedeva scusa a tutti, per ogni minima cosa; chiedeva scusa perfino al nipotino nato un mese prima.
Quando verso sera la lettera fu scoperta e i parenti allertati, scoppiò un gran trambusto in famiglia. La ragazzina vide sua madre scoppiare in lacrime. Lei invece sorrideva tra sé e sé (Ce l’ha fatta!, pensava).

Un mese dopo il corpo dello zio fu trovato senza vita in una cittadina del centro Italia. Aveva vissuto, in quel mese, come un barbone.

La ragazzina non pianse mai per lui e per questo è stata spesso rimproverata («Sei senza cuore! E pensare che lui ti amava tanto!»).

Adesso quando va a Piacenza dorme nella stanzetta dello zio, dove tutto è rimasto come allora, anche il calendario è fermo alla stessa pagina: 28 febbraio 1988.

Se la ragazzina, che adesso è una donna, apre l’armadio e affonda il naso tra i vestiti dello zio, ne risente l’odore intatto.

 


[P.S.: il titolo di questo post l’ho “rubato” a Gadda. Il post nonostante il contenuto non vuole assolutamente rattristare nessuno, né sono triste io. Quando un uomo che si prepara a morire è capace contemporaneamente di trasmettere una cosa così grande come l’amore per la vita a una nipotina che ama, anche se muore non muore. È solo andato, come diceva lui, su un altro pianeta. Ma io, adesso che ho la sua età, ci tenevo a ricordarlo su questo pianeta (ecco perché ho scritto un post così personale sfidando il mio pudore, e se a qualcuno può avere dato fastidio, ha ragione e me ne scuso)].


Sulla panchina

Io, quando resto fuori per l’ora di pranzo, di solito vado in un parco a mangiare un panino che mi porto da casa, sedendo da sola su una panchina. Che poi in realtà non sono quasi mai sola perché è scontato che qualche buontempone di passaggio vorrà sedersi accanto a me per farmi compagnia.

[Potrà mai una giovane donna mangiare un panino da sola in un parco pubblico?]

Ecco perché io di tipi strani ne conosco parecchi. Siccome ormai non faccio una piega quando qualcuno mi si siede accanto e attacca discorso – lui parla io ascolto, anche quando mi fa proposte sconce – accade che degli sconosciuti si confidino con me. Sono una specie di confessore ambulante, più rassicurante in virtù del mio innocuo aspetto femminile.

Certo, preferirei essere lasciata in pace nella mia solitudine mangereccia. Sono i momenti in cui desidero essere un uomo, anzi trasformarmi in un maschio mentre il tipastro di turno è lì impegnato nella sua manfrina (più o meno volgare, più o meno lirica – ci sono anche quelli che ci provano con la poesia). Ecco, sogno che d’un tratto quello mi guardi e veda al mio posto un omaccione terribile. Una volta ci ho pensato così intensamente che mi sono messa a ridere da sola, incoraggiando senza volerlo lo scocciatore che avevo a fianco.

Vorrei stare da sola con i miei pensieri, invece i pensieri degli altri vogliono stare con me.

Perché, a parte i volgari monocordi e i molestatori veri (che mi costringono ad abbandonare il campo sbuffando peggio di Efesto) c’è tutta una varia umanità che più che altro ha voglia di parlare.

Mi sento tanto suor Germana a radio Maria, quando con voce vellutata consola in modo fantasioso radioascoltatori dalla voce afflitta (lo so perché la ascolta mia nonna, non io, precisiamo).

Ma non avrei mai pensato che tra questi importuni il peggiore dovesse rivelarsi un frate.

E pensare che ieri quando, sedendo io e mirando il mio gustoso panino, si è seduto accanto a me questo giovane in saio e sandali, ho provato un certo sollievo (Almeno questo non mi farà delle avances – ho pensato ingenuamente). Mi ha spiegato che sta girando il nord Italia per evangelizzare la gente. Dicendogli che io sono già evangelizzata pensavo di cavarmela, invece gli si è accesa una luce malefica negli occhi e ha cominciato a tormentarmi perché voleva essere “provocato” (teologicamente parlando, s’intende). Io non ho voglia di provocare qualcuno che vuole essere provocato, ma per lui sembrava questione di vita o di morte, voleva essere messo in crisi tramite miei dubbi sulla fede e sulla vita. Perché proprio io, poi? Perché ero stata così gentile da ascoltarlo. A un certo punto mi sono anche un po’ sforzata ma il mio problema è che ogni volta che rifletto seriamente su alcuni seri motivi di disperazione che la mia vita mi offre, automaticamente anziché deprimermi o dubitare di tutto come dovrei, mi sento invece salire dalla punta dei piedi fino a espandersi nella mente e nel cuore un’energia guizzante; secondo me si tratta di voglia di vivere, di amore per la vita. E così divento felice, ed è successo anche ieri, quando ho cominciato a elencargli motivi di grande felicità e speranza quando invece avrei dovuto cercare di deprimerlo. E questo lo faceva disperare, poveretto, fino a diventare perfino un po’ scortese; diceva che doveva essere lui a consolare me. Ma consolarmi di cosa? Io sto benissimo, gli ho detto, e gli ho spiegato anche che non rendeva certo un bel servizio alla sua causa andando a tormentare la gente in quel modo, anzi usando le persone per ottenere un suo piacere del tutto personale; gli ho perfino detto che se continuava così lo denunciavo ai superiori! E a quel punto – miracolo – si è sentito provocato! Pieno di gioia per averlo io messo in crisi dandogli dell’egoista, se n’è andato felice come la vispa Teresa.

Ora sinceramente la prossima volta che mi si siederà accanto il solito maniaco svitato, tirerò un respiro di sollievo…