Lo zio fantasma

Gli zii di Milano (fratello di mia mamma e sua moglie) sono due ingegneri, mentre noi di Bologna siamo gli umanisti. Quando ci si incontra, non è raro che gli ingegneri prendano bonariamente in giro gli umanisti, sempre tecnologicamente due passi indietro e sicuramente più imbranati e nevrotici di loro. A loro volta gli umanisti non risparmiano frecciatine sull’esagerato pragmatismo degli ingegneri nell’affrontare la vita. E così, di sberleffo in sorriso, da anni si procede con questa allegra diatriba.

Finché qualcuno non ha deciso di mischiare le carte.

A un certo punto, infatti, timidi accenni prima e sempre meno velate allusioni in seguito, fino alla esplicita richiesta di aiuto, sono giunti dagli zii ingegneri. Con grande sgomento, accompagnato da ilarità, degli umanisti, si annunciavano infatti da Milano avvistamenti di fantasmi, o meglio, di un fantasma. Un fantasma particolarmente cortese, per la verità, che si premurava per esempio di portare giù la spazzatura, ma non disdegnava di fare anche qualche dispetto innocente in particolare allo zio ingegnere: era lui la vittima predestinata. Immaginate l’imbarazzo dello zio nel confessare la cosa e lo stupore degli umanisti nel ricevere tale confidenza.

– Ma come? Se mai dovremmo essere noi a vedere fantasmi! –, ironizzavano gli umanisti, sotto sotto però sghignazzando e ben felici che a perdere la bussola fossero gli ingegneri.

Ma gli zii ingegneri non avevano più tanta voglia di scherzare e invece si scervellavano su chi potesse essere il fantasma che, nel silenzio della loro casa, si divertiva ad accendere e spegnere le luci, a staccare piccole borchie dalle sedie o a spostare le tendine ricamate del bagno. Le ipotesi si sprecavano: si trattava forse dello spirito della precedente proprietaria dell’appartamento (questo sembrava giustificare l’interesse per le preziose tendine del bagno, risalenti a quando lei vi abitava)? O era forse il fantasma dispettoso di qualche antico bambino? Dopo inutili tentativi degli umanisti di riportare alla ragione gli ingegneri (sicuri che non sia uno dei vostri figli, che vi prende in giro? E se per le luci faceste controllare il vostro impianto elettrico? La borchia della sedia sarà stata già allentata di suo! Eccetera.), mio zio ebbe l’illuminazione: il fantasma doveva essere per forza suo fratello, il mio amato zio Carlo di cui ho parlato qui, venuto a punire il fratello per essersi portato a Milano uno dei suoi libri; e siccome questo zio Carlo era anche un appassionato di esoterismo e aveva tutta una sua bibliotechina sui fenomeni paranormali, compreso lo spiritismo, secondo lo zio ingegnere non c’erano più dubbi sull’identità del fantasma. E cos’ha fatto allora mio zio, oltre a correre a Piacenza per riportare a posto il libro del fratello? Ha chiamato un prete per benedire la casa! Nel frattempo anche mia mamma, pur non credendo agli spiriti, a forza di passare tutte le sere al telefono a confortare il fratello, affermava di aver visto con la coda dell’occhio una presenza non ben identificata, un pomeriggio che era sola in casa. E cominciava a ragionare sul fatto che in fondo per noi vent’anni (gli anni passati dalla morte di mio zio) sono tanti ma rispetto all’eternità sono un secondo, e che quindi mio zio poteva benissimo essere in giro, benché naturalmente lei non credesse agli spiriti… Per non parlare del fatto che un giorno, non trovando più gli occhiali, cosa peraltro del tutto abituale, le scappò detto: “Oddio, non li avrà mica nascosti il fantasma dello zio?”. Insomma anche mia mamma stava perdendo il lume della ragione e ormai anche in casa nostra era tutto un vivere sul chi-va-là.

In tutto questo, io, che non credo negli spiriti e sono un tipo razionale, ero indignata per il fatto che mio zio avesse fatto benedire la casa. Cioè se, ponendoci nella sua ottica assurda, ci fosse stato davvero in giro il fantasma di suo fratello, avrebbe dovuto essere felice, no? Altro che chiamare un prete! Così mio zio, oltre a doversela vedere con la sua paura del fantasma, doveva vedersela anche con la nipote in carne e ossa che prendeva le parti del fantasma, che solo a sentirlo nominare lo zio diventava tutto bianco dalla paura e mi diceva con voce strozzata di star zitta e non evocare certe cose.

Fantasma o no, lo zio ingegnere era ormai prossimo alla follia.

Alla fine, dopo la benedizione, il fantasma non si è fatto più sentire. Questione di suggestione, dico io. Questione di benedizione, dice lo zio ingegnere.

Nonostante il mio scetticismo, ammetto (sapete com’è, non si sa mai!) di avere comunque passato un pomeriggio in cui ero sola in casa a parlare ad alta voce in questo modo:
– Ehm… Io non credo ai fantasmi. Però, se per caso ci sei, caro zio, ti prego, vieni da me. Non mi spaventerò. Non chiamerò preti a benedire la casa come se tu fossi una maledizione. Sai che ti voglio bene. Ma poi scusa, proprio da tuo fratello dovevi andare? Si vede che la morte ti ha confuso un po’ le idee! Perché non venire dalla tua nipote preferita, che ti riserverebbe ben altra accoglienza? Insomma… non ci credo, so che sto parlando da sola… ma se invece ci sei, fatti sentire! –.

Non si è fatto sentire.

Passata la bufera, gli zii ingegneri sono tornati al loro pragmatismo e gli umanisti alla loro imbranataggine. Ma a me piace pensare che forse, da qualche parte, lo zio fantasma ci guarda e se la ride.


Carlo disimpara a vivere [L’anno della Grande Fuga]

Quando avvenne, esattamente, non si sa. Quello che si sa, quello che è stato ricostruito, è che dopo avere tanto meditato, dopo essersi scontrato più volte con la realtà, sentendosi impotente di fronte al peso terribile della sua vergogna (solo le persone serie si vergognano delle proprie colpe), Carlo decise che questo pianeta non era il posto adatto a lui, né lui era adatto a questo pianeta.

Che sia stata l’illuminazione di un momento o una consapevolezza fiorita lentamente nel corso di giorni vuoti e lunghe notti, Carlo, a 29 anni, decise di disimparare a vivere. E di programmare la Grande Fuga.

Essendo un tipo romantico, oltre che molto insicuro, l’addio fu lungo e meditato, la fuga accuratamente progettata.

Per prima cosa, si licenziò dallo zuccherificio in cui era stato costretto a lavorare.
Disdisse gli appuntamenti già fissati, tramite agenzia matrimoniale, con alcune signorine.
Di esami all’università era già da tempo che non ne dava più (fingeva soltanto).
Si congedò dolcemente dagli amici (ne aveva molti) senza che loro si accorgessero che era un congedo.
Suonò la chitarra l’ultima volta (con enorme fatica scorreva il plettro sulle corde), per il matrimonio del suo migliore amico (le promesse si adempiono, anche quando un buco nero ridisegna i confini del cuore).
Stabilì una data per la partenza: a fine mese, il giorno in cui avrebbe personalmente ritirato la pensione della madre e della zia (se ne sarebbe andato come un ladro, è il caso di dire).

Poi, sistemate queste faccende, quando mancava poco più di una settimana al grande viaggio, sollevò la cornetta del telefono e chiamò la sorella a Bologna. Le chiese di mandargli a Piacenza la nipotina prediletta, della quale appena due mesi prima aveva festeggiato l’undicesimo compleanno. I genitori della ragazzina dissero di no: la figlia non poteva perdere una settimana di scuola. Carlo implorò. La nipote, allertata dallo zio, inscenò un’esasperante sequela di pianti, digiuni e urla lancinanti. I genitori dopo due giorni di tale tortura cedettero e di lì a poco zio e nipote si abbracciarono alla stazione di Piacenza.

«Questa settimana staremo sempre insieme», fu la promessa.

E così fu. Uscivano insieme la mattina presto, tornavano a volte a pranzo per poi uscire di nuovo fino al tramonto. Spesso restavano fuori tutto il giorno, nonostante i rimproveri della madre di lui (e nonna di lei).
Cosa facevano? Camminavano instancabilmente tenendosi per mano. Parlavano e si confidavano timori, gioie e tremori come fossero due adulti. Percorrevano in lungo e in largo la città nella quale lui era cresciuto e che si apprestava a lasciare. Visitavano tutti i luoghi della sua infanzia in una dolorosa via crucis.
«Questa era la mia scuola elementare. C’era una maestra terribile, certe volte mi picchiava»;
«Questo il liceo classico. Se tornassi indietro non lo rifarei. Era stata la famiglia a insistere che dovevo andarci».

Ogni luogo un brutto ricordo, un rimpianto.

Poi, i posti belli, i loro posti.

Il Po. Ore e ore le passavano sugli argini del grande fiume, a tirare sassi e bastoni, a giocare ai contrabbandieri, a rotolarsi tra foglie e rametti scricchiolanti.
Il Facsal, un lungo viale pedonale alberato con annessi giardini pubblici e giostre.
Cinema, almeno un film al giorno, se non di più; film da grandi. In una settimana la ragazzina si fece una  cultura in tema di sesso e robe da adulti che, tornata a Bologna, elargì poi generosamente alle amiche conquistando una notevole popolarità a scuola (cosa di cui resta eternamente grata all’amato zio).
La sera si rintanavano nella cameretta di lui, dove ascoltavano i suoi dischi, leggevano fumetti e chiacchieravano per ore. Ogni tanto lui accennava al suo dolore, al bisogno di andarsene, e scrutava le reazioni di lei. Lei aveva capito tutto ma reggeva il gioco. Solo la notte ogni tanto piangeva. Di giorno, invece, risate sfrenate, tra una confidenza e l’altra. E regali su regali, lui le comprava qualsiasi cosa.

L’ultima sera, la sera del 27 febbraio, nella stanzetta di lui.
«Se domani ti dicono che me ne sono andato, non ti spaventare».
«Va bene».
«Non dire che lo sapevi. Fai finta di niente».
«Non sono mica scema».
«Può darsi che non ci vedremo più…».
«…».
«Mi prometti che non piangi?»
«Yessss!».
Sfregatina complice di nasi e ultimo round di lotta libera sul pavimento, con morsi a profusione.
Durante la notte lei si infilò nel suo letto e dormirono insieme, appiccicati.

La mattina dopo prepararono entrambi le loro valigie: lei sotto lo sguardo premuroso della nonna, lui in gran segreto.
La nonna la accompagnò in stazione, la mise sul treno e lei tornò a Bologna.
Lui andò a ritirare le pensioni, le intascò, salì su un treno e partì verso l’ignoto.
Sul tavolo della sua camera aveva lasciato una lettera in cui chiedeva scusa a tutti, per ogni minima cosa; chiedeva scusa perfino al nipotino nato un mese prima.
Quando verso sera la lettera fu scoperta e i parenti allertati, scoppiò un gran trambusto in famiglia. La ragazzina vide sua madre scoppiare in lacrime. Lei invece sorrideva tra sé e sé (Ce l’ha fatta!, pensava).

Un mese dopo il corpo dello zio fu trovato senza vita in una cittadina del centro Italia. Aveva vissuto, in quel mese, come un barbone.

La ragazzina non pianse mai per lui e per questo è stata spesso rimproverata («Sei senza cuore! E pensare che lui ti amava tanto!»).

Adesso quando va a Piacenza dorme nella stanzetta dello zio, dove tutto è rimasto come allora, anche il calendario è fermo alla stessa pagina: 28 febbraio 1988.

Se la ragazzina, che adesso è una donna, apre l’armadio e affonda il naso tra i vestiti dello zio, ne risente l’odore intatto.

 


[P.S.: il titolo di questo post l’ho “rubato” a Gadda. Il post nonostante il contenuto non vuole assolutamente rattristare nessuno, né sono triste io. Quando un uomo che si prepara a morire è capace contemporaneamente di trasmettere una cosa così grande come l’amore per la vita a una nipotina che ama, anche se muore non muore. È solo andato, come diceva lui, su un altro pianeta. Ma io, adesso che ho la sua età, ci tenevo a ricordarlo su questo pianeta (ecco perché ho scritto un post così personale sfidando il mio pudore, e se a qualcuno può avere dato fastidio, ha ragione e me ne scuso)].