Una frusta da cucina
Pubblicato: 19 marzo 2017 Archiviato in: esercizi spirituali, morte, nonna, prozia, riflessioni, storie di famiglia | Tags: cimeli di famiglia, il magico potere del riordino, marie kondo 14 commentiQuando qualcuna mi trilla entusiasta su Il magico potere del riordino, quel manuale che insegna a fare ordine in casa desertificandola, io penso sempre che, per chi ha problemi di accumulo, ben più terapeutico di qualsiasi manuale è svuotare la casa di un parente morto. Non lo penso in modo cinico; lo penso in modo dispiaciuto e infatti ovviamente non lo auguro nessuno, anche se purtroppo è una di quelle cose che prima o poi possono capitare.
Questo collegamento mi scatta automaticamente in mente a causa di una delle esperienze più choccanti (probabilmente perché non mi aspettavo proprio, prima di viverla, di restarne così turbata) sostenute negli ultimi anni e cioè liberare la casa di mia nonna e mia zia – le mie amatissime nonna e (pro)zia – dopo la loro morte. Nella mia mente ingenua, pensavo che si trattasse di un’operazione pratica e che comunque non sarebbe stata più dolorosa della perdita delle persone care. Mi sbagliavo. Gli oggetti parlano delle persone che li hanno utilizzati, accumulati, amati. Gli oggetti stanno lì, fermi, solidi, impertinenti, mentre i loro proprietari non ci sono più. In quel vuoto gli oggetti piantano un urlo nel tuo cuore: Non è giusto! Con disperazione li guardi e ti accorgi che è proprio finita.
La cosa peggiore fu ritrovare in un cassetto tutti i biglietti e le cartoline che fin da piccole io e mia sorella avevamo scritto e inviato alla nonna e alla zia; da quelli in cui le nostre calligrafie infantili risultavano ancora buffe e tremolanti a quelli in cui eravamo ormai ragazze e scrivevamo pensieri più adulti ma sempre scherzosi e strabordanti d’amore. Ritrovarmeli in mano – come se tutto quello scrivere fosse stato perfettamente inutile e vano, come fossero tornati alla casella di partenza e in mezzo non ci fosse stato niente – è stato semplicemente orribile.
Non ho voluto condividere con nessuno dei miei familiari quello stato d’animo e quell’angoscia (e la prima volta che sono riuscita a parlarne con qualcuno è stata una settimana fa, perché sapevo che quel qualcuno stava per affrontare un’esperienza analoga) ma il risultato è stato che per parecchio tempo ho smesso di comprare oggetti che non fossero strettamente indispensabili e se qualcuno mi regalava un soprammobile o un souvenir, appoggiandolo su un ripiano il mio pensiero andava a tutti i ninnoli accumulati dalla nonna (ognuno aveva una storia che conoscevo) e alla fatica di chi resta e deve sgombrare la casa. In un attimo di follia ho perfino avuto la tentazione di buttare via tutti i miei preziosi diari ma per fortuna non l’ho fatto. Poi col tempo me ne sono fatta una ragione e ho capito che è un po’ stupido e anche inutile privarsi di quelle cose belle e magari anche superflue (con buona pace di Marie Kondo) che possono impreziosire la nostra casa e la nostra vita. Se dopo la mia morte a qualcuno toccherà trovarcisi in mezzo, be’, mi dispiace per lui ma c’est la vie.
Tuttavia, quando morì anche la mia seconda nonna e i miei genitori e mia sorella mi annunciarono che quella tal domenica sarebbero andati assieme agli altri zii e cugini a svuotare la casa, io decisi serenamente di non andare e me ne restai a casa mia.
Quel pomeriggio mia sorella mi telefonò:
“Sono a casa di nonna. Ci stiamo dividendo le sue cose… C’è qualcosa in particolare che vuoi prenda per te?”.
Sì, una cosa c’era; mi balzò subito alla mente. Non gioielli, abiti o argenteria. Una frusta da cucina. Quella frusta che, quando ero piccola, usavo come fosse un microfono quando giocavo dalla nonna con mia cugina. Ero una presentatrice televisiva, ero una cantante, ero un’astronauta intervistata al ritorno da un viaggio nello Spazio: il microfono era sempre quello.
Sì, avrei voluto quella frusta ed ero stata lì lì per dirlo a mia sorella. Ma poi, no. L’idea di ritrovarmela in mano e il timore di risentire lo sgomento provato tra gli oggetti dell’altra nonna mi fecero subito desistere dalla tentazione e risposi a mia sorella che no, grazie, non desideravo niente. In cuor mio però ero molto combattuta e anche un po’ pentita.
Il giorno dopo, il campanello di casa mia ha suonato. Era mia sorella. Strano, pensavo mentre aprivo la porta, di solito non viene mai senza prima avvisare.
Mi sono trovata di fronte mia sorella, sorridente, con la frusta di mia nonna in mano.
Non dimentico l’esplosione che in quel momento ha allargato il mio cuore: un botto di sorpresa perché mia sorella all’epoca era piccola e mai avrei pensato mi osservasse e ricordasse questi miei giochi; di gratitudine perché non solo si era ricordata ma, nonostante io le avessi detto che non volevo niente, ha preso proprio quella frusta e me l’ha portata; di amore, per lei, per mia nonna, per me, per tutti i momenti belli vissuti insieme. Quell’oggetto mi parlava sì di una persona amata che non c’era più ma attraverso una persona amata che capiva e sapeva.
Quella frusta ha trovato subito posto nella mia cucina. E il mio animo ha ritrovato la pace perché ha capito che il regalo più bello che le persone amate ci fanno sono i bei momenti vissuti insieme, che poi diventano nel futuro bellissimi ricordi, di cui anche gli oggetti possono parlarci; e che se hai anche qualcuno con cui condividerli, la gioia per le relazioni che hai vissuto è più forte del dolore per ciò che hai perso. Davvero, “forte come la morte è l’amore”, e anche di più.
La morte delle persone care continua a farmi paura ma gli oggetti e i ricordi non più.
La luna
Pubblicato: 14 dicembre 2008 Archiviato in: felicità, nonna, prozia, storie di famiglia 12 commenti
“Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più.”
Italo Calvino
“E anche se l’uomo vi ha posato i piedi la luna è rimasta la luna”.
Danilo Dolci
Stasera mi sento come un pugile suonato. Ho ricevuto una di quelle batoste che, potendo, se fossi una persona libera o incosciente, mi farei il mio bel fagottino come un qualunque Giovannino delle fiabe, me lo caricherei in spalla e partirei per il vasto mondo in cerca di fortuna. Ché qualunque bosco con annesso lupo cattivo mi procurerebbe meno dolore di quello che posso provocarmi io con il mio stesso cuore. Qualche giorno fa, in un raptus di entusiasmo, avevo deciso di fondare (per me stessa) il Comitato di Liberazione Anime Pavide, che magari per certi ambiti non lo rinnego ma, per quanto riguarda il settore emotivo, la mia anima resterà sempre quel budino tremolante in cerca d’amore, pronta a lasciarsi soggiogare pur di riceverne un po’, anche a costo di essere rimproverata di tenere poco alla propria dignità. Che magari può anche essere vero ma a me va bene lo stesso, perché quando si esagera con la dignità, rinserrandocisi dentro, si rischia di restare soli come una statua, e io non voglio, ché lo sono già anche troppo. Una statua di sicuro non rimane ferita. Io sì.
Di solito, quando sono così, anche se è notte, esco e faccio una corsa, o prendo la bici e pedalo un po’. E guardo la luna, che anche se so che è solo un freddo satellite con piantata sopra una bandiera americana, ha comunque sempre il potere di consolarmi un po’, perché è lì impassibile ma sembra lo stesso che splenda per noi, come le stelle e tutto l’ambaradàn celeste. In questo ho preso da mia nonna che ancora oggi, ogni volta che la sera fa il giro della casa per abbassare le tapparelle nelle varie stanze, a ogni finestra si sofferma un po’ in contemplazione e quindi questa operazione dura sempre molto tempo. E fino all’anno scorso, quando c’era ancora la mia prozia, che abitava con lei, mia nonna, dopo avere fatto questo giro, raccontava a mia zia com’era la luna quella sera e com’era bella in generale, e a volte citava anche i versi che qualche poeta aveva dedicato alla luna. Allora regolarmente mia zia la accusava di essere ridicola, ancora dopo ottant’anni a emozionarsi davanti alla luna, e mia nonna la accusava di essere invece una d’annunziana, per via della sua ansia di circondarsi di cose belle e lussuose, mentre a lei piaceva ammirare la natura. E così ogni sera mia nonna e sua sorella andavano a letto litigando per via delle loro divergenze sulla luna. Tranne forse quando pioveva, come in queste sere, che la luna non si vede. E così me ne andrò a letto anch’io e magari me la sognerò, la luna.
Il cielo ingombro, tragico, disfatto
Pubblicato: 2 settembre 2008 Archiviato in: prozia, romagna mia, storie di famiglia 15 commentiIeri, verso le sei del pomeriggio, forti raffiche di vento hanno cominciato a scuotere i rami degli alberi di fronte alla mia finestra, il cielo si è fatto plumbeo, l’aria umida di pioggia e l’atmosfera come sospesa; lampi improvvisi hanno cominciato a baluginare di lontano, seguiti da tuoni sempre più vicini.
No, non era l’Apocalisse, e neanche l’uragano Gustav; era un semplice temporale, cupo e fracassone come ogni bravo temporale che si rispetti.
Una volta tanto non mi trovavo dispersa in bicicletta in aperta campagna – caso strano perché di solito quando arrivano temporali improvvisi io mi trovo appunto dispersa in bicicletta in aperta campagna – quindi ho potuto godermelo da dietro la finestra, sorseggiando una calda tazza di tè.
Il mio pensiero è andato automaticamente a lei; ogni volta che scoppia un temporale, da sempre, nella nostra famiglia il pensiero va, come per un riflesso condizionato, a lei.
La zia Nena.
Che aveva paura dei temporali perché le ricordavano i bombardamenti americani (a proposito: qualcuno ha mai sentito parlare di un aereo americano di nome Pippo che sorvolava i paesi qui al nord – non so se anche al sud – stando a bassa quota per colpire le persone? Tutte le mie nonne, prozie e prozii di entrambe le mie famiglie hanno sempre evocato con terrore questo terribile Pippo, e anche i vecchietti di una casa di riposo a cui facevo compagnia, ogni tanto, tra una briscola e un rubamazzo, si lanciavano in angoscianti descrizioni dell’odiato Pippo. Se qualcuno sa qualcosa, parli!).
Che – ironia della sorte! – era venuta al mondo esattamente durante un temporale particolarmente agguerrito.
Che aveva il terrore dei fulmini.
Che, quando a Riccione cominciava a vedere dalla finestra della sala i nuovoloni grigi approssimarsi all’orizzonte, cominciava a spaventarsi, a chiedere se eravamo tutti in casa al sicuro, a ordinare di chiudere porte e finestre, di staccare i telefoni, spegnere radio e registratori (anche se funzionavano a pile), di non respirare, in pratica.
Poi, siccome noi un po’ le obbedivamo un po’ la prendevamo in giro, si chiudeva in camera con mia nonna, con le tapparelle abbassate e la porta chiusa a chiave, ovviamente, e giocavano a carte.
Durante questi temporali estivi, che spesso arrivavano a spezzare una serie di giorni di grande caldo, tutti gli altri abitanti del vialetto spalancavano porte e finestre per rinfrescare le case. Noi invece abbassavamo le tapparelle e sprangavamo tutto, la casa diventava un bunker. La cosa mi faceva molto ridere e tutto sommato barricarmi non mi dispiaceva.
La cosa bella era che, finito il temporale, passavano tutti i suoi amici del mare per chiederle “se era sopravvissuta” e scherzare con lei dello scampato pericolo. E il telefono squillava di continuo per lo stesso motivo. Era piena di amici, la Nena.
Questa è la prima estate in cui arriva un temporale estivo e il mio pensiero corre in automatico a una persona che non c’è più. Da qualche mese la Nena non esiste più su questa terra. E io a volte provo un vuoto enorme.
Avevo l’abitudine di inventare delle filastrocche e dei raccontini umoristici con lei protagonista; le piacevano, perché li teneva raccolti in un quaderno e così, anche quando era a casa sua a Piacenza, li leggeva e mi sentiva vicina. Una di queste filastrocche, scritta quando andavo in prima media, parlava proprio del temporale e di quel che suscitava a casa nostra ed era diventata un’abitudine – quasi una sorta di scaramanzia – leggerla insieme a temporale passato. Ieri l’ho recitata da sola. Oggi la copio qui, per ricordare la mia dolce zia Nena.
TERRORE
Il cielo si oscura,
la Nena ha paura;
si accende un lampo,
la Nena non ha scampo.
Il tuono rimbomba,
somiglia a una bomba,
e la Nena già vede
la casa farsi tomba.
Ma tra tutti il pericolo più atroce
è quello del fulmine veloce,
pronto ad infiltrarsi e ad appiccare
un incendio impossibile da domare.
“Spegnete la radio e il registratore!”
supplica e minaccia la Nena con fervore.
“Chiudete le finestre, incoscienti!”,
intervalla ordini a lamenti.
Ma poi si arrende rassegnata
e batte in ritirata;
nella sua camera si è barricata.
Porte e finestre spranga ad arte,
poi con la sorella gioca a carte;
così al temporale cerca di non pensare,
ma ogni tuono la fa sobbalzare.
Soffrire di questa paura
è per lei una vera tortura,
ma i familiari non sempre capiscono,
anzi spesso si spazientiscono.
Ogni volta crede di morire,
finché il temporale non accenna a finire;
così, non sentendosi più assediata,
sospira ed esclama: “Anche stavolta è passata!”.
Per ora la paura se n’è andata,
tornerà alla prossima tuonata.
C’est une chanson qui nous ressemble
Pubblicato: 4 gennaio 2008 Archiviato in: feste, prozia, storie di famiglia 10 commentiE dopo avervi narrato il triste epilogo di un anno invece felice, vi dirò cosa ci facevo alle ore nove del mattino, pedalando per una Bologna meravigliosamente fredda e deserta, una città silenziosa e addormentata in modo quasi irreale, il primo gennaio di quest’anno nuovo di zecca. Avevo dormito poco meno di tre ore, accartocciata su un divano, dopo essermi esibita in vari giochi di società. Mi ero alzata e, raccattando a casaccio le mie cose, scavalcando corpi addormentati, salutando il padrone di casa che comunque non si è svegliato, sono uscita in strada e, salita in bici, mi sono diretta come una sonnambula verso la stazione.
Avete mai avuto un colpo di sonno in bicicletta? Io sì.
Arrivata in stazione, ho parcheggiato la bici pregando con ardore di ritrovarla lì (intatta) al mio ritorno e di lì a poco mi sono ritrovata sul treno regionale, diretta a Piacenza, dove mi sarei riunita a tutta la mia famiglia.
Piacenza: nonna e prozia, infanzia, calore, parenti strampalati, resti di un mondo ormai vinto.
A Reggio Emilia è salita mia sorella, con la sua chitarra e il suo sacco a pelo, il suo sorriso di chi sta bene nel mondo.
Mi lasciavo cullare dal rumore del treno, lungo questo percorso che conosco a memoria, desiderando e temendo il mio ingresso in casa. La mia prozia non è più lucida, ormai, e cercavo di immaginare cosa avrei provato trovandomi davanti a una persona che mi ha sempre amata più della sua stessa vita e che ora non mi riconosce più.
A volte provo il desiderio di morire prima dei miei cari, anche se d’altra parte non vorrei morire mai.
Poi, come sempre, la forza delle abitudini – quella ritualità familiare che a volte si odia e altre volte ci protegge come una coperta calda dagli urti del mondo – ha reso tutto più facile: trovare mia nonna, benché stanca, in attesa sulla soglia, sorridente, come sempre; sprofondare nel suo abbraccio, avvolta nel suo profumo; rivedere gli ambienti familiari – il salone sempre perfetto, immobile nel tempo – e correre con gioia lungo il corridoio verso la saletta, per abbracciare mia zia, come al solito: trovarmela davanti, seduta sulla sua poltrona, chinarmi verso di lei e baciarla come ho fatto per tutta la vita. Sì, mi riconosceva a sprazzi (o meglio, intuiva che fossi una di famiglia) ma era felice di essere abbracciata, perché lei per tutta la vita ha sempre goduto moltissimo nel ricevere baci e abbracci; da persona espansiva e passionale qual è, in una famiglia invece piuttosto contenuta dal punto di vista delle effusioni fisiche, ci ha sempre affettuosamente rimproverato di essere poco affettuosi.
Non è che si riuscisse a fare discorsi molto logici, ma a parlare, sì. E l’aspetto è sempre il suo, le sue espressioni, il suo modo di guardare e sorridere. È sempre la mia cara zia Nena, insomma.
Dopo il pranzo tradizionale tipicamente piacentino, sono arrivati gli altri zii, compreso lo zio “artista” con un registratore. A un certo punto, mentre cantavamo tutti insieme alcune vecchie canzoni francesi, ho sentito mia zia cantare anche lei; sempre stonata come una campana, ma le parole erano giuste, e il sorriso inconfondibilmente suo.
Il prozio prodigo
Pubblicato: 17 agosto 2007 Archiviato in: nonna, prozia, romagna mia, storie di famiglia 18 commenti[Questa storia è accaduta proprio di questi tempi, cinque anni fa, al mare]
– E adesso? Cosa gli diciamo? – chiese la mia prozia Nena a sua sorella, con voce angosciata.
– Gli diciamo Ciao -, le rispose mia nonna con tono seccato e colmo di rimprovero. Non valeva davvero la pena stare in ansia.
Eppure, i visi di entrambe erano tesi verso l’ingresso del giardino.
Tutte e due fingevano disinteresse ma la mano di mia zia tremava mentre cercava di aprire il ventaglio per farsi aria.
Finalmente, tre figure apparvero nella penombra del vialetto. Un uomo al centro tra due donne. Entrarono nel nostro giardino accolti da un silenzio carico di emozione.
Tutto era iniziato al mattino, quando la più giovane delle sorelle, mia zia Mara, solitamente persona mite e compassata, aveva fatto irruzione in casa nostra (la porta era aperta, come sempre nella casa del mare) urlando istericamente e senza sosta:
– Notizia bomba! Notizia bomba! Notizia bomba! –
Eravamo tutti alle prese con le rispettive colazioni e ci bloccammo più o meno contemporaneamente.
– Be’, insomma – la interruppe mia zia Nena dopo un po’ – adesso calmati e spiega come si deve –
– Sta arrivando Umberto! Lo ospito a casa mia e stasera verremo qui da voi! – , rispose la zia tutto d’un fiato.
A questa notizia, credo che ogni molecola presente nell’atmosfera si sia paralizzata per un lungo momento, come ognuno di noi del resto.
Mia mamma ruppe il silenzio esclamando entusiasta:
– Ma è fantastico, zia! Racconta tutto per bene! –
Ma prima che la zia potesse cominciare, la zia Nena e mia nonna, la prima sbattendo per terra uno straccio e la seconda rivolgendo alla sorella minore uno sguardo pieno d’astio, si chiusero nella loro stanza sbattendo la porta.
Lo zio Umberto era il loro fratello minore. Circa una trentina di anni prima aveva abbandonato la moglie e la figlia piccolissima a Milano e le sorelle a Piacenza per sparire nel nulla, dopo avere spremuto i loro portafogli e averle quasi ridotte sul lastrico per pagare i suoi pesanti debiti di gioco.
Posto di fronte a un ultimatum da parte delle sorelle esasperate, aveva scelto la fuga.
Da allora, lui non aveva più dato sue notizie né le sorelle lo avevano cercato.
Solo da qualche anno Mara, la sorella più giovane (quella a lui più vicina per età e a lui più legata) si era decisa a rintracciarlo, con la collaborazione della figlia di lui, che voleva a tutti i costi conoscere il proprio padre.
Lo avevano trovato qualche anno prima; viveva a Roma, su una barca, si manteneva attraverso piccoli lavori e pubblicando racconti e brevi articoli su alcune riviste; era sereno e aveva accettato di conoscere la figlia e di rivedere la sorella, ma non di venire a Piacenza. Né le altre tre sorelle si sognavano di invitarlo, peraltro. Anzi, si erano arrabbiate con la zia Mara.
Adesso, infine, dopo alcuni anni di riavvicinamento, lo zio era pronto al grande salto: riallacciare i rapporti col resto della sua famiglia.
Io ero curiosissima di conoscerlo. Lo avevo visto in tanti filmini (siamo pieni di filmini di famiglia, girati a partire dagli anni ’50 con la cinepresa – poi trasferiti su videocassette e dvd – grazie ai quali mi pare di avere sempre conosciuto anche parenti morti prima che io nascessi!). Era giovane, nei filmini, e molto bello e simpatico. Di lui si era sempre comunque parlato con nostalgia, in famiglia, sottolineandone appunto la grande simpatia, la prestanza fisica e la vena creativa.
Per tutta la giornata, mia mamma cercò in tutti i modi di calmare sua madre e sua zia: ma le due erano irriducibili; per loro era insopportabile l’idea di rivedere quel fratello che avevano amato tantissimo e da cui erano state ripetutamente ingannate e truffate. Erano convinte che fosse ancora un giocatore (Da quel vizio non si guarisce!, tuonava mia nonna) e temevano addirittura che avesse accettato di rivederle solo per spillare loro altri soldi (È senza vergogna!, rincarava mia zia).
Neppure gli accorati appelli di mia madre alla carità cristiana sembravano servire.
Tuttavia, dato che tutto il resto della famiglia era entusiasta all’idea di rivedere – o di vedere per la prima volta (come nel caso mio, di mia sorella e di mio padre) – lo zio scapestrato, nonna e zia dovettero rassegnarsi, cedendo anche alla propria sottaciuta curiosità.
Ecco perché quella sera, dopo cena, stavamo seduti in giardino, tutti composti e vestiti bene, silenziosi ed emozionati, in attesa, ascoltando quel fatidico scambio di battute tra mia nonna e mia zia Nena.
– E adesso? Cosa gli diciamo? -, chiese dunque mia zia intravedendo avvicinarsi il fratello con le altre due sorelle.
– Gli diciamo Ciao! -.
E accadde proprio così. Dopo il primo silenzio imbarazzato, durante il quale lo zio e le due acerrime sorelle si scrutarono lungamente a vicenda, prima con diffidenza poi accennando tenui sorrisi, scoppiò la festa. Saluti, baci e abbracci, presentazioni. Poi, di colpo, il tuffo nel passato. Fratello e sorelle si lanciarono nella rievocazione dei ricordi d’infanzia, di come si divertivano nonostante la guerra in corso e, man mano che ricordavano, la tensione si scioglieva e le voci e gli sguardi si coloravano di sincero affetto.
Quando si misero a cantare tutti insieme certe strampalate canzoni della loro giovinezza, fu chiaro a tutti che ormai non si sarebbero separati più.
E infatti, già a partire dal giorno dopo (e dico sul serio) fu normalissimo vedere lo zio entrare e uscire liberamente da casa nostra come qualunque altro parente.
Ben presto, proprio mia zia Nena scoprì di essere così simile a lui, sia in alcune caratteristiche fisiche sia nel carattere, da non poter fare quasi a meno della sua compagnia. Da quando lei e mia nonna si sono ammalate e hanno bisogno di assistenza, e da quando è diventato nonno, lo zio passa sempre meno tempo nella sua casa di Roma (dalla barca si è da poco trasferito in un appartamento) e sempre più tempo a Piacenza, ravvivando l’atmosfera con le sue barzellette, le sue storie e le sue canzoni.
Durante le feste, quando ci troviamo tutti insieme, osservo mia zia ridere di gusto alle battute del fratello e sorrido, ripensando a come una ferita che sembrava destinata a non guarire si è invece ricomposta così serenamente e giusto in tempo per non lasciare troppi rimorsi, e troppi rimpianti.
La tortora disperata
Pubblicato: 9 agosto 2007 Archiviato in: nonna, prozia, romagna mia 11 commentiLe tortore sono quegli uccelli dal verso lugubre e intermittente: quel fastidioso uh-uh che non può dirsi certo allegro. Io ci sono abituata perché sia nella casa di Piacenza sia in quella di Riccione (cioè le case legate a mia nonna e prozia, cui ormai il verso della tortora è nella mia mente inequivocabilmente collegato) vengo svegliata al mattino da questo monotono lamento (tale è dal mio punto di vista umano). Quest’anno, però, la tortora che mi ha tenuto compagnia a Riccione (e non solo al mattino ma anche al pomeriggio) aveva un che di disperato nella voce, una sfumatura angosciata, come se il verso le si strozzasse in gola. E io, fedele alla mia interpretazione poetica della vita, ho stabilito che quella disperazione era dovuta al fatto che anche lei sentiva la mancanza delle legittime abitanti della casa, cioè mia nonna e mia zia. E fu così che – cosa inaspettata – mi sentii solidale con una tortora.
L’estasi nel quotidiano
Pubblicato: 10 luglio 2007 Archiviato in: felicità, morte, nonna, prozia 14 commentiNon è vero poi che non ho visto il mare. Così era nei progetti, ma chi può resistere chiusa in casa sapendo che a poca distanza c’è quell’immenso accogliente grembo d’acqua, sentendone il profumo portato dall’aria (pur in mezzo all’immancabile, anche in riviera, odore di benzina)? Io no di certo.
Così, indossato il costume e la divisa da mare, corro verso la spiaggia per celebrare il rito del Primo Bagno di Stagione, che consiste nel prendere la rincorsa dall’inizio della passerella e correre, possibilmente con le braccia aperte, incontro al mare, senza la minima pausa o esitazione al momento fatale dell’ingresso in acqua, nella quale poi l’abbandono accade, totale e inebriante.
Ovviamente tutto ciò andrà fatto in un orario consono (poca gente in spiaggia) o in una zona in cui si sia conosciuti (e, possibilmente, benvoluti) un po’ da tutti: condizioni, nel mio caso, soddisfatte entrambe.
Immersa nel mare, nuotando verso l’orizzonte fin dove le forze mi sorreggono, vivo una grande felicità.
Sono quei momenti di estasi che ognuno di noi può ritagliarsi nel suo quotidiano.
Per me il mare è sempre stato anche un grande Consolatore; spesso la sera, estate dopo estate, gli ho portato le gioie e le tristezze della giornata.
È stato bello, all’arrivo, trovare nel viale, nei dintorni e in spiaggia le stesse persone che incontro da un anno all’altro, con le quali scambiare saluti calorosi o anche retorici convenevoli.
È stato molto triste entrare in casa e non dovermi come al solito precipitare verso la poltrona per baciare la mia prozia né vedere mia nonna corrermi incontro sorridente e stringermi forte in un abbraccio (facendomi provare la deliziosa sensazione di avere cinque anni o poco più).
La casa era vuota, per la prima volta. Nonna e prozia sono rimaste a Piacenza, a spegnersi lentamente e inesorabilmente di fronte alla malattia che le ha colpite entrambe. Avevano sempre detto che, dopo avere vissuto una vita insieme, sarebbero certamente morte insieme. Mia mamma rideva, quando lo dicevano, ma io ho sempre creduto che sarebbe andata proprio così. E infatti. E dico che questa mi sembra una cosa buona e giusta, anche se per noi che restiamo è un duro colpo perderle insieme, ma dal loro punto di vista – che è ciò che conta – è la cosa migliore di tutte.
Non hanno voglia di spargere troppo la notizia in giro; da orride borghesi quali si definiscono tengono alle apparenze, al decoro e alla riservatezza.
Con understatement invidiabile mia nonna, quando al telefono qualche conoscente (non intimo) chiede Come va?, risponde invariabilmente:
– Non ci possiamo lamentare –
E anch’io, in effetti, mentre mi approprio come ogni anno della mia solita camera o mentre mi avvoltolo goduriosamente nel mare – mentre penso a loro due – so che non mi posso lamentare, nonostante sia strano questo vivere divisa su due binari con direzioni opposte: la mia felicità di vivere da un lato, la loro morte in arrivo, dall’altro.
Noi, orridi borghesi
Pubblicato: 10 aprile 2007 Archiviato in: morte, persone, prozia, storie di famiglia 26 commentiCome da tradizione, ho trascorso le vacanze pasquali a Piacenza, dove risiede gran parte della mia famiglia materna, in particolare nonna e prozia.
Al mio arrivo ho l’abitudine di aggirarmi per l’appartamento in una sorta di giro di ricognizione. Fino a qualche tempo fa questo aveva un senso: c’era sempre qualcosa di nuovo da scoprire, perché mia zia vive praticamente per abbellire la casa arricchendola con oggetti sempre nuovi. Ma ora mia zia è in ospedale e a mia nonna non interessa nulla di avere un ninnolo in più o in meno.
Seduta sull’ampio divano rosso antico mi guardo attorno. Ricordate le buone cose di pessimo gusto di gozzaniana memoria? Ne sono circondata. Non a caso, durante le mie ribellioni adolescenziali quella casa rappresentava per me il peggio del peggio. L’istituzione da abbattere. Tavolini e tappetino da bridge innanzitutto.
Ma mia zia sta male, ora. Prima di peggiorare e di essere ricoverata prima all’ospedale poi in un hospice (dove tuttora si trova, in attesa di tornare a casa) mi ha fatto venire da Bologna per mostrarmi l’eredità, pur sapendo benissimo che non me ne importa niente (voglio solo le fotografie di famiglia, io). Eppure, per farle piacere, ho girato con lei tutta la casa, ispezionando ogni oggetto di valore, di cui ho ascoltato la storia; ho stilato elenchi dell’argenteria, dei quadri e di ogni altra cosa preziosa. Ho sostato di fronte ai quadri degli antenati ascoltandone per la milionesima volta l’intera biografia.
Tornata a casa mia, ho poi riguardato i vecchi filmini di famiglia, che ormai conosco a memoria: mia mamma e i miei zii erano bambini piccoli, mia nonna aveva poco più degli anni che ho io adesso. Erano gli anni’50 e ’60 e tutta la famiglia era in villeggiatura a Riccione. Uno zio riprendeva tutto con la cinepresa. Mia zia giocava a posare da diva, e le veniva benissimo.
Questi filmini quand’ero piccola venivano proiettati su un muro, poi sono stati trasferiti su videocassetta e ora su dvd.
Questo significa che sopravvivono e sopravviveranno ai loro interpreti. Purtroppo non basta trasferire le vite umane da un supporto all’altro per farle durare di più.
Mia zia (che è poi la mia prozia) ha avuto una vita avventurosa e anticonformista.
L’ho sempre sentita iniziare tante frasi con l’espressione Noi orridi borghesi; frasi in cui stigmatizzava i tanti difetti di quella grande borghesia lombardo-veneta cui in realtà è sempre stata orgogliosa di appartenere. Non mi è mai sfuggito il sottile compiacimento con cui si definiva orrida.
Anche nel letto dell’ospedale, lei si deve distinguere: sempre in ordine (benché con flebo e tubi per l’ossigeno a invaderle il corpo), con la sua camicia elegante, il foulard in testa; ha voluto che comprassimo chili di ovetti di cioccolato che poi lei stessa ha elegantemente distribuito alle infermiere che si alternano al suo letto.
A casa sono pronte delle lenzuola di raso blu. Quelle in cui vuole chiudere gli occhi per l’ultima volta.
È dalla scorsa estate che ci scherziamo tutti su (lei compresa): lo chiamiamo “il baldacchino”, quel letto in cui vuole la sua bella morte.
E se poi ci sbagliamo e mettiamo le lenzuola in anticipo, tu le vedi e muori per lo spavento?
Questa stupida battuta la fa sempre ridere. Gliel’ho ripetuta anche domenica, quando abbiamo festeggiato la pasqua tutti insieme nella sua stanzetta.
E di nuovo lo ha detto :
-Noi orridi borghesi ci teniamo alla forma, anche in punto di morte. È più forte di noi.-
Ed ecco perché ci stiamo tutti dando da fare perché possa tornare a casa sua; non può morire lontano dalla casa a cui ha dedicato gran parte della vita, lontano dalle sue cose, dalle sue lenzuola e dai suoi quadri.
Non può mancare l’ultimo appuntamento con la sua morte da splendida borghese.
Realismo e iperrealismo
Pubblicato: 9 marzo 2007 Archiviato in: paura, prozia, tempus fugit 13 commentiMia zia, che è sempre stata vanitosa, possiede uno specchio tondo, enorme, che ingrandisce la faccia di trenta volte. Lo tiene sul comò e lo usa ogni mattina per truccarsi. Se parte per le vacanze lo porta con sé, e perfino ora che è in ospedale con le vene rotte dalle flebo non ha rinunciato al suo prezioso specchio.
Capirete che anche il minimo difetto, ingrandito in quel modo, risulta mostruoso. Anche un viso perfetto non appare più tale tramite quel malefico strumento. Se considerate che mia zia (che poi è la mia prozia) è ottantacinquenne e ovviamente ha qualche ruga, potete facilmente immaginare cosa la poveretta debba vedere quando si specchia. Il risultato è che ogni volta che lo fa scoppia a piangere disperata e maledice la vecchiaia.
L’ironia è che mia zia è convinta che quello specchio le restituisca un’immagine assolutamente obiettiva e veritiera della realtà; per me è esattamente il contrario: quando si pretende di scrutare le cose troppo da vicino, senza la giusta distanza, enfatizzando dettagli che in una visione d’insieme nessuno noterebbe, si è immersi nella falsità e non ce ne si rende neanche conto. Quando le pretese di “realismo” superano il segno, non si ottiene altro che l’effetto opposto. Se questo nell’arte funziona, nella vita può essere devastante.
E mia zia continuerà a piangere.
L’ingegnere M [Come invecchiare male]
Pubblicato: 15 febbraio 2007 Archiviato in: figuracce, nonna, persone, prozia, storie di famiglia, tempus fugit, uomini al lavoro 26 commentiOggi vi parlerò di un singolare personaggio, una sorta di amico di famiglia anche se è in realtà piuttosto inviso a tutta la famiglia, l’ingegnere M. Il titolo di ingegnere è fondamentale per descriverlo, giacché suo sempiterno motivo di vanto (vai a capire perché) è l’essere stato in passato ingegnere dell’Enel, così come suo motivo di afflizione è il non esserlo più (causa pensione. Ed è in pensione da più di vent’anni, avendo passato da tempo gli 80…).
L’ingegnere M sei anni orsono è rimasto vedovo di una moglie che ha sempre maltrattato davanti a tutti e di cui, da quando è morta, decanta le lodi angelicandola tardivamente.
Nel frattempo trascorre le sue giornate con una badante ucraina che maltratta come la moglie quand’era viva.
Quando va a casa di mia nonna e di mia zia l’ingegnere M si siede in poltrona e comincia a parlare dell’Enel; mia zia si addormenta quasi subito e mia nonna la segue poco dopo. Quando l’ingegnere ha finito il suo discorso, si alza e se ne va, senza premurarsi di svegliare le due addormentate se queste continuano a dormire. Le volte in cui m’è capitato di entrare in casa di mia nonna durante questa curiosa scena sono le uniche in cui ho provato un po’ di simpatia per il personaggio, simpatia presto dissoltasi dopo che egli, non sembrandogli vero di vedere una persona sveglia, mi ha costretto ad ascoltare per l’ennesima volta le sue mirabolanti avventure ingegneristiche.
Il malinconico M ha due sogni, entrambi irrealizzabili, di cui parla spesso: il primo è quello di potere tornare a essere un ingegnere dell’Enel in attività (lui con la sua esperienza li batterebbe tutti i giovinastri di oggi); il secondo è quello di convolare a nozze o con mia nonna o indifferentemente con una delle sue tre sorelle. Ha fatto, seriamente, nel giro di quattro giorni la stessa proposta di matrimonio a tutte le sorelle (un giorno per una), riuscendo così a offenderle tutte e quattro (ecco perché si addormentano all’istante non appena lo vedono). Tutte si sono prima sentite lusingate (pur rifiutando subitamente la proposta), poi mortalmente indignate, quando parlando tra loro hanno scoperto di essere intercambiabili (pur essendo diversissime) per il perfido ingegnere. Erano i tempi in cui lui cercava assolutamente di evitare che gli venisse appioppata una badante dalle figlie, crudeli emule delle signorine Goriot. Comunque lui periodicamente torna alla carica e non pare intenda demordere, anche perché, diciamolo, mia nonna e le sorelle, pur avendo tra i 74 e gli 85 anni, si divertono a stuzzicarlo e illuderlo in tutti i modi: mia nonna, offrendogli il tè, lo coccola e lo rimprovera come fosse un bambino, un’altra gli sistema la giacca e gli dà consigli sul vestiario, quell’altra non sa resistere all’offrirgli stuzzicanti dolcetti all’ombra del suo giardino. Ma tutte si ritraggono sdegnose alle profferte che l’illuso rinnova.
E così continueremo ancora per un pezzo ad ascoltare gustosi racconti sull’epoca gloriosa dell’Enel, o argute osservazioni pseudosociologiche sulla corruzione della società moderna o lamentazioni sulla solitudine di un vedovo che rimpiange troppo tardi una moglie che non c’è più.