Pavese o dell’adolescenza
Pubblicato: 9 settembre 2008 Archiviato in: libri | Tags: pavese 18 commentiAltre cose avvennero quel giorno, altri incontri, e la sera mangiammo e bevemmo e girammo il paese sotto le stelle. Ci pensai l’indomani, disteso nudo nella pozza sotto il sole feroce, mentre Oreste e Pieretto sguazzavano come ragazzi. Nell’afa estuosa della buca vedevo il cielo scolorito dal riverbero, e sentivo la terra tremare e ronzare. Pensavo a quell’idea di Pieretto che la campagna arroventata sotto il sole d’agosto fa pensare alla morte. Non era sbagliato. Quel brivido di starcene nudi e saperlo, di nasconderci a tutti gli sguardi, e bagnarci, annerirci come tronchi, era qualcosa di sinistro: più bestiale che umano. […]
Nessuno poteva sorprenderci là dentro, perché le melighe scosse fanno uno scroscio rumoroso. Eravamo sicuri. Oreste, disteso nell’acqua, diceva: – Prendete il sole dappertutto. Diventeremo come i tori.
Era strano pensare di laggiù al mondo in alto, alla gente, alla vita. La sera prima eravamo andati per il paese, al muricciolo della piazza, riscaldati dal vino e dal fresco, e avevamo salutato e riso, incontrato gente, sentito cantare. […] Parole e scherzi sotto le stelle, senza vederci bene in faccia, con una donna, con un vecchio, con qualcuno di noi, mi avevano dato una strana allegria, un senso festoso e irresponsabile, che gli assalti del vento tiepido, il dondolio delle stelle e dei lumi lontani, allargavano a tutto l’avvenire, alla vita.
(tratto da Il diavolo sulle colline)
Come ho già scritto più volte, Cesare Pavese è uno dei miei scrittori più cari. Cosa sarebbe stata la mia adolescenza senza le sue parole che mi suonavano in testa e nelle quali mi riconoscevo tanto? Leggere i suoi libri era come trovare una cronaca di quanto stavo io stessa vivendo. Era una voce amica e più grande. Quando mi lasciavo scarrozzare in scooter o in automobile dagli amici o dal fidanzatino di turno, quando mi sentivo incerta tra la voglia e la paura di provare tutto, non mi sentivo forse come Ginia o come Masino, magari col timore di ritrovarmi poi, in futuro, disillusa come le protagoniste di Tra donne sole? E quando nelle sere d’inverno gironzolavo per le strade del quartiere avvolto nella nebbia, chiacchierando con gli amici prima di tornare ognuno a casa propria, o quando in piena estate mi lasciavo bruciare dal sole in mezzo alla campagna, respirandone l’odore, non rivivevo le stesse sensazioni descritte nei suoi romanzi e nei suoi racconti? Quell’ebbrezza e quella sensualità che animano le pagine de Il diavolo sulle colline erano (e a volte sono) anche mie.
Penso che – tuttora – l’adolescenza sia l’età d’elezione per leggere Pavese. Poi questo amore ti accompagna per il resto della vita. Conosco ragazzi che non amano leggere, ma Pavese lo leggono (l’ultimo in ordine di tempo: mio cugino sedicenne, incontrato proprio tre giorni fa).
Per questo non capisco come mai, negli ultimi anni, quando sento parlare (o leggo) di Pavese, di solito il dibattito verte sulla sua presunta inattualità (è ormai superato, parla di un’Italia che non esiste più eccetera). Be’, non sono un critico letterario, ma questo discorso non lo riesco proprio a comprendere. Allora dovremmo smettere di leggere Dickens, Dostoevskij, Verga o Pirandello? Io no. Io voglio continuare a emozionarmi, e non solo. Trovo che la sua prosa sia dotata di una musicalità speciale: a volte mi piace semplicemente leggere dei brani solo per sentire come suonano, senza neanche badare al contenuto. Mi piace il legame forte con la sua terra, le Langhe, Torino, il Po, il dialetto piemontese usato soprattutto nei racconti. Mi piace sapere che lui sapeva, teorizzava, studiava come voleva scrivere i suoi romanzi, cosa voleva metterci, quali simboli, quali temi. E lo faceva. Ma oltre a questo, non dimenticava mai di metterci tutto se stesso. E si sente.
Pavese uomo-ragazzo, come qui, in quella che potremmo definire una spontanea dichiarazione di poetica:
In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito ricomincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento […]. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. […] L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
(tratto da Feria d’agosto)
A me piace anche il Pavese cinico, disincantato (un po’ per posa un po’ sul serio), sbruffone, triste, arrabbiato, deluso e pronto a illudersi di nuovo, delle lettere e dei diari. Perciò concludo questo post con una citazione (che mi fa ridere ma tutto sommato a volte è vera) dal suo diario-zibaldone (Il mestiere di vivere):
Un uomo che soffre lo si tratta come un ubriaco: «Su, andiamo, basta, via, ora basta, non così, basta…»
Il naufragar m’è dolce in questo mare
Pubblicato: 8 luglio 2008 Archiviato in: poesia | Tags: pavese 19 commentiRaccolgo l’invito di Melchisedec a partecipare a questa catena poetica e lo ringrazio perché, nonostante il poco tempo a disposizione in questi giorni, immergermi tra i miei poeti più amati mi ha procurato un grande piacere (sapete, quello struggimento del: Come posso pensare di morire un giorno se ho tutte queste cose meravigliose da leggere e rileggere??!). La scelta tanto dei poeti quanto delle poesie potrebbe cambiare ogni secondo, ma d’istinto ho scelto i seguenti versi (disposti in ordine crescente di disillusione/disperazione, m’è venuto così!); quando il titolo c’è, è in neretto:
Abito nella possibilità,
una casa più bella della prosa,
più ricca di finestre
e superiore per porte.
Ha stanze simili a cedri,
impenetrabili allo sguardo,
e per tetto la volta
perenne del cielo.
Ha i visitatori più belli
e il mio compito è questo:
divaricare le mie mani sottili
per accogliervi il Paradiso.
(Emily Dickinson)
Pendono squarciate le ali
dell’eucalipto, non volerà più
nel cuore dei venti
il grande uccello vegetale. Ma
gli è rimasto un ramo,
un grido verticale:
nel silenzio sordo del mondo
la bellezza non tacerà.
(Gianni Rodari)
George Gray
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà questa non è la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme.
(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)
Fides
Quando brillava il vespero vermiglio,
e il cipresso pareva oro, oro fino,
la madre disse al piccoletto figlio:
Così fatto è lassù tutto un giardino.
Il bimbo dorme, e sogna i rami d’oro,
gli alberi d’oro, le foreste d’oro;
mentre il cipresso nella notte nera
scagliasi al vento, piange alla bufera.
(Giovanni Pascoli, Myricae)
Mito
Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio i fragori del sole
fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
[…]
(Cesare Pavese, Lavorare stanca)
Lamento
Sonno e morte, le cupe aquile
sussurrano la notte intorno al mio capo:
che dell’uomo l’aurea immagine
sommerga la gelida onda
dell’eternità? Ai paurosi scogli
schiantasi il corpo purpureo.
E lamenta la cupa voce
sopra il mare.
Sorella di tempestosa tristezza,
guarda: un impaurito battello affonda
dinnanzi a stelle,
al muto volto della notte.
(Georg Trakl)
E per finire, qui c’è – modestamente – un ritratto che il simpatico, sublime (e a sua volta un po’ bipolare) Francesco Petrarca mi ha dedicato qualche secolo fa (un poeta è anche un profeta, no?), nel senso che a volte mi sento proprio così esplosiva e irrequieta come lui:
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.
Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.
Una menzione speciale per Guido Gozzano: amo molto le sue poesie e lo spirito che le abita. Quelle che preferisco, però, sono troppo lunghe e non riesco a estrapolarne dei versi mantenendone l’essenza. Però questi versi de La signorina Felicita mi fanno morire… forse perché anche a me non dispiacerebbe un Signorino Felicino:
Tu non fai versi, tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… e non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…
Per essere diligente, le regole esatte sono queste:
1. Scrivere il nome di almeno cinque poeti di ogni tempo e luogo dei quali si è innamorati.
2. Citare alcuni versi significativi di almeno uno dei poeti elencati.
3. In aggiunta o in alternativa al punto 2 citare almeno un PROPRIO componimento poetico, o anche soltanto alcuni versi di esso.
4. Per i veri patiti dell’arte poetica, sarebbe gradito un componimento, anche brevissimo, appositamente creato e pubblicato.
5. Coinvolgere altri bloggers raccomandando il rispetto di queste semplici regole.
Buona poesia a tutti!
Cinque libri per una vita?
Pubblicato: 23 aprile 2007 Archiviato in: libri | Tags: pavese 43 commentiL’amico Paolo Ferrucci è curioso di sapere come cominciano i 5 romanzi della mia vita… Io dico subito che i romanzi che mi hanno segnata sono ben più di cinque e che con le classifiche sono una frana, però i seguenti cinque sono stati tra quelli più importanti per me.
Procediamo (l’ordine è quello in cui li ho letti per la prima volta):
Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.
Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse a una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Italo Calvino, Marcovaldo
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. – Siete sane, siete giovani, – dicevano, – siete ragazze, non avete pensieri, si capisce -.
Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.
Cesare Pavese, La bella estate
Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta da letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi.
Franz Kafka, La metamorfosi (e in generale tutti i suoi racconti, che preferisco ai romanzi)
Nel grande edificio del palazzo di giustizia, durante la sospensione dell’udienza al processo Melvinskij, i giudici e il pubblico ministero s’erano raccolti nel gabinetto di Ivan Egorovič Šebek e stavano parlando del famoso affare Krasovskij. Fedor Vasil’evič s’affannava a sostenere l’incompetenza, Ivan Egorovič non si lasciava convincere, e Petr Ivanovič, che non era entrato nel discorso da principio, non vi prendeva parte e scorreva la Gazzetta di Pietroburgo appena arrivata.
– Signori! – disse a un tratto, – Ivan Il’ič è morto.
– Davvero? –
– Ecco, leggete, – disse lui a Fedor Vasil’evič, porgendogli il giornale fresco e ancora odorante di stampa. Entro una fascia nera era scritto: «Praskov’ja Fedorovna Golovina annuncia con profondo cordoglio ai parenti e agli amici la morte del suo adorato sposo Ivan Il’ič Golovin, consigliere di Corte d’Appello, seguita il 4 febbraio di quest’anno 1882. Il trasporto avrà luogo venerdì alle ore 1 pomeridiane».
Ivan Il’ič era collega dei signori lì raccolti, e tutti lo amavano.
Lev N. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič
GLI UCCELLI VOLANO IO INVECE MI AVVIAI A PIEDI VERSO LA STAZIONE DELLE FERROVIE
C’era una guerra in Africa. I soldati attraversavano la città con le divise di tela massaua e le teste di sughero, la testa imbottita di sughero, i caschi di sughero sulla testa. Cantavano quella canzone là che tutti sanno, marciando sulla strada Garibaldi verso la Stazione delle Ferrovie. Che cosa fanno? Dove vanno? Che cosa vanno a fare? Devono essere molto contenti se cantano, mi dicevo. La canzone mi risuonava nelle orecchie cantata o fischiettata per la strada, anche dai caffè e dalle finestre delle case attraverso la voce della radio. La radio continuava a cantare anche di notte, quando smetteva di cantare parlava, continuava a parlare e poi cantava di nuovo, non si fermava mai.
Agli angoli delle strade comparvero carretti carichi di banane che mia madre non comprava per paura delle infezioni (sulla punta della banana c’è il cadavere di un insetto).
“Le banane sono pericolosissime,” diceva mia madre a suo figlio e lo portava a vedere i bambini che mangiavano il gelato.
Luigi Malerba, Il serpente
Bene. Avrei potuto tranquillamente mettere solo autori dell’Ottocento, dato che sono stati loro a formarmi. Ma l’idea di dover scegliere tra Austen e Brontë, Dickens e Balzac, Flaubert, Dostoevskij, Sthendal, Hugo… no no, vada per i cinque che ho scelto.
Adesso spiego brevemente le mie scelte:
Marcovaldo: perché chi legge da un po’ questo blog si sarà forse accorto che io sono un po’ una Marcovalda!
La bella estate: è il primo romanzo di Pavese che lessi e che mi fece innamorare di lui, uno dei grandi autori della mia adolescenza e tuttora uno dei miei preferiti in assoluto (da leggere, rileggere, amare…).
La metamorfosi (ma, in generale, tutto Kafka, compresi diari, lettere eccetera): perché io sono Kafka, senza ovviamente il suo genio, il suo talento e la sua arte…
La morte di Ivan Il’ič: perché questo brevissimo romanzo (o lungo racconto) è una piccola stilettata al cuore; una specie di monito a cercare di vivere una vita autentica, prima che sia troppo tardi.
Il serpente: perché è un romanzo che non è un romanzo, perché dice tutto e il contrario di tutto, perché è scritto in un modo superbo, perché negli anni ’60 Malerba era già dove sono oggi gli Eggers e i Foster Wallace di turno. E perché mi fa morire dal ridere!
Ora devo passare il testimone… Scelgo cinque nomi di cui mi piacerebbe sapere i libri preferiti, ma rispondete solo se ne avete tempo e voglia. E poi chiunque altro voglia farlo, lo faccia!
Allora io passo il testimone a Laura(e ovviamente anche a Lory, se vuole, ma so che non le piacciono i questionari!), a Diego(se ha tempo dato che è sempre super-indaffarato!), alla simpaticissima Cappelli a Volute (poiché ci sono tante affinità tra noi, sono proprio curiosa!), a Ellee (perché ammiro moltissimo la sua cultura e la sua sensibilità) e a Melchisedec(caro Mel, forse non sei il tipo da “catene” ma mi piacerebbe accettassi perché non riesco a prevedere cosa potresti scrivere!). Avevo pensato innanzitutto a Massimo, ma la sua “redazione” è in vacanza (però i vari redattori potrebbero cimentarsi in questo esercizio, al termine dell’ammodernamento della redazione…). E, ripeto, a chiunque piaccia l’idea.
Cosa pensate dei libri che ho citato? Li conoscete? Li amate? Li odiate? Cosa avreste messo voi?