Bambini per sempre
Pubblicato: 11 gennaio 2017 Archiviato in: arte e bellezza, cinema, evoluzioni tecnologiche, uomini al lavoro | Tags: Gabriel Veyre, Lumière 3 commentiOggi ho visto un bambino di 120 anni. Tenuto stretto dal papà mentre in bilico sul tavolo sperimenta l’equilibrio avvolto in una vestina di pizzo bianco (lo avevo infatti scambiato per una bambina); seduto a tavola tra il papà e la mamma, imboccato insieme con affetto e veemenza; nel cortile di casa, tutto concentrato nel muovere i primi incerti passi. Sarà cresciuto, diventato un uomo; avrà avuto figli? Sarà stato un adulto felice? Qualunque cosa gli sia accaduta, ora non è più, eppure attraverso questo schermo davanti ai miei occhi è bambino per sempre.
Ecco i lieti pensieri che attraversavano la mia mente mentre mi aggiravo tra le sale della mostra “Lumière – L’invenzione del cinematografo”, seguendo la bravissima guida che con grande competenza ci ha accompagnato nell’avvincente percorso del cinema e delle sue origini.
La mostra si snoda su due livelli: quello tecnologico – vi sono tutti i marchingegni del cosiddetto Precinema, dalla Lanterna magica al Kinetoscopio di Edison passando per prassinoscopio e teatro ottico – e quello dei filmati con i loro contenuti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato davvero interessante potere toccare e utilizzare questi strumenti antenati del cinema moderno, con la commozione di constatare come da sempre gli uomini, che senza storie, racconti e immaginazione non possono vivere, abbiano cercato di creare immagini in movimento. È sempre emozionante, inoltre, constatare come nessuno inventa nulla dal nulla: le invenzioni che hanno segnato la nostra cultura sono sempre frutto di un percorso costituito dal contributo di molti e illuminato sì da qualche scintilla di genio, ma sempre debitore del contesto. La cosa più buffa è stata quando, aggirandomi tra gli svariati modelli di cineprese creati dai Lumière, tra esse ho notato una “cinepresa” che era uguale a una macchina da cucire, una di quelle portatili.
“Una cinepresa a forma di macchina da cucire?”, mi sono detta, non volendo ammettere che quella fosse proprio una macchina da cucire. Dopo poco sento la guida spiegare che ormai all’epoca era chiaro a tutti che per creare la percezione del movimento occorreva che immagini simili si susseguissero velocemente ma come fare? A Louis (il più inventivo dei due Lumière) la soluzione decisiva fu ispirata osservando lavorare sua madre alla macchina da cucire: occorreva “cucire” le immagini tra loro. Nasce da qui il concetto della pellicola cinematografica, un nastro costituito da immagini “cucite” tra loro. Quindi quella che stavo osservando era proprio una macchina da cucire e nell’invenzione del cinematografo c’è pure lo zampino inconsapevole di mamma Lumière.
E a proposito di mamma, l’altro aspetto, come dicevo, è quello dei filmati: dal primo “film” (questi film duravano tutti pochi secondi), che mostra l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière a un tentativo di film comico (un ragazzino preme con un piede la canna con la quale un contadino sta innaffiando un orto, bloccando il flusso dell’acqua per poi rilasciarlo tutto d’un colpo) a film che mostrano cavalli, ciclisti, uomini alla moda… tra tutti spiccano i filmati di famiglia. E io osservandoli ritrovo un clima che conosco: sono scene felici di una famiglia numerosa e unita. La guida ci spiega che i Lumière erano progressisti per l’epoca: nei filmati mariti e mogli si divertono insieme, alla pari, giocano insieme; i padri sono affettuosi con i figli piccoli e giocano con loro, li imboccano, li sostengono nei primi passi. Io osservo questi volti sorridenti, queste persone ben vestite, e rivedo i vecchi filmati, girati proprio con la cinepresa, in cui la mia nonna, le sue sorelle e i fratelli, giovani, baldanzosi, si mostrano spensierati all’obiettivo. Filmati che a guardarli ora, col tempo che intanto ha portato via tutti, mi si spezza anche un po’ il cuore.
Le parole della guida tornano a catturare la mia attenzione di lettrice di romanzi per ragazzi quando raccontano un episodio vero della vita dei fratelli Lumière, che in quei romanzi ci starebbe benissimo: da ragazzini, Louis e Auguste rimasero intrappolati in una grotta che a causa dell’alta marea si stava inesorabilmente riempiendo d’acqua: terrorizzati, si promisero solennemente che se si fossero salvati sarebbero rimasti insieme per tutta la vita. E mantennero la promessa: non solo perché lavorarono sempre insieme, creando e inventando, ma vissero anche tutti nella stessa casa con le rispettive famiglie.
In una sala, negli schermi scorrono i film dei vari operatori che, formatisi alla scuola dei Lumière, andarono poi in giro per il mondo a effettuare riprese. Sono tanti ma in uno di questi una particolare scena colpisce la mia attenzione e mi si imprime nel cuore divenendo la mia preferita: in un villaggio dell’allora Indocina francese, Namo, una folla di bambini corre allegra verso l’obiettivo, quindi verso noi che guardiamo. Tra questi c’è un piccolo dal visino allegro; un ragazzino più grande gli si avvicina e gli dà un colpetto sulla nuca; il piccolo ci resta male, si cruccia, resta offeso. Con le manine a proteggere la parte toccata, resta fermo e teso mentre prima correva leggero. Poi passa un adulto che con delicatezza lo invita a riprendere il passo. Quante volte ‒ basta osservare dei bambini al parco o in cortile ‒ capita di osservare una scena identica a questa, con comportamenti e reazioni, espressioni e atteggiamenti perfettamente uguali? A dispetto della distanza di tempo e di spazio, io osservo l’infanzia nella sua essenza immutabile. E allora potrà avere anche 120 anni questo bambino (ne ha 117 perché il film è del 1900) ma è davvero un bambino per sempre.