Passione d’amore
Pubblicato: 20 febbraio 2017 Archiviato in: cinema, poesia, segnalazioni | Tags: ettore scola, Iginio Ugo Tarchetti, Memento, Passione d'amore, scapigliatura 2 commentiDopo averlo riguardato stasera per l’ennesima volta, eccomi a scrivere di un film (Passione d’amore, di Ettore Scola) che esercita un influsso profondo su di me per lo stesso motivo espresso dal recensore del New York Times: “it’s a movie whose meanings creep up on you“. Ecco, mi è successo esattamente questo (un po’ come mi accadde per “L’uomo che uccise Liberty Valance”), è un film le cui risonanze sono cresciute a poco a poco in me, spingendomi a tornarci più volte, a riguardarlo prendendo appunti, a farlo mio. È un film che, la prima volta che ho iniziato a vederlo, mi è parso così noioso che ho fermato il dvd e fatto altre cose; un paio di giorni dopo però, con quelle poche scene viste che mi balenavano in testa, ci ho riprovato e da lì la passione di Fosca ha vampirizzato anche me. Nonostante il titolo, non vi è nulla di “sentimentale” nel senso di sdolcinato in questo film, anzi è una storia antiromantica per eccellenza, seppur d’amore. Una triste, “irragionevole” storia d’amore. Un film che parla dolorosamente anche di noi e del conformismo schiacciante dal quale siamo pressati oggi come allora.
È l’inverno del 1862 e Giorgio, bel capitano dell’esercito regio, reduce dalla battaglia dell’Aspromonte contro le truppe garibaldine, torna in Piemonte, dove si innamora di Clara, una donna sposata e seducente, interpretata da Laura Antonelli (qui nelle vesti di un personaggio, seppur sensuale, che non umilia in alcun modo l’attrice e che sarebbe stato bello ricordare alla sua morte al posto o almeno al fianco di altre interpretazioni, ma questa è un’altra – triste – storia).
Ben presto l’idillio romantico viene interrotto dal trasferimento di Giorgio presso un presidio militare montano, sempre in Piemonte e fisicamente non molto distante dalla bella Clara ma che in realtà pare davvero un altro mondo e ricorda un po’ la fortezza Bastiani di Buzzati, “un avamposto morto, una frontiera che si affaccia sul niente”.
“Noi qui viviamo in esilio, lontani dalla vita, dalle idee, da tutto”.
In questo luogo sperduto e desolato, in questo mondo di soli uomini, rappresentato come stupido, chiuso e ottuso, vi è una donna, Fosca, la cugina del colonnello, la cui iniziale assenza – rappresentata dalla sedia vuota a tavola – si manifesta fin da subito come una presenza che si farà sempre più opprimente e poi potente nella vita di Giorgio come nella nostra percezione di spettatori, fino ad allargarsi a dismisura e ad allagare tutto (il mio cuore certamente, che a volte nel guardare il film si scioglie perfino in qualche lacrima).
Il film è tutto giocato su contrasti, in onore anche dell’autore del romanzo dal quale il film è tratto, lo scapigliato Iginio Ugo Tarchetti. Clara è la donna bella, disponibile e appassionata secondo le convenzioni di un amore adulterino e pertanto autentico, come tradizione occidentale vuole; è l’amore ideale e prettamente romantico: i due si scambiano da lontani e si sussurrano da vicini le classiche frasi fatte (oggi diremmo “da Baci Perugina”), le parole d’amore più banali ma che a ogni innamorato paiono sempre nuove, si spendono in esercizi di stile autocompiaciuti su quanto sia profondo e nobile il loro amore (fino al “Tu sei la mia religione”). Fosca suona il pianoforte e ama leggere, è “colta, uno spirito delicato, sottile”, come la descrive il medico della guarnigione, ma è al tempo stesso una donna dallo spirito indomito e sfrontato, una donna esagerata, che non si vergogna di lasciarsi scuotere da tremende crisi isteriche di fronte a Giorgio, non teme di esporre la propria terribile fragilità né di umiliarsi per inseguire il suo desiderio e in questo è una di quelle donne che fanno paura perché fuori dagli schemi della ragionevolezza convenzionale (in questo caso, della ragionevolezza maschile rappresentata da Giorgio).
“Buona e mite, lei mi è cara; ironica e sprezzante mi è indifferente.”
“Glielo avevo detto, un giorno, che ho difetti imperdonabili in una donna, oltre alla bruttezza, s’intende. Mi dispiace per lei e per tutti: io non sono né buona né mite.”
Mentirei se dicessi che i modi in cui Fosca umilia se stessa per piacere a Giorgio non mi siano risultati, a una prima visione, decisamente indigesti, fastidiosi e insopportabili. Ma questo è un film che ti entra dentro lentamente, come si diceva all’inizio, nel quale nulla può essere liquidato in modo semplice anzi il rovesciamento è la chiave. Di fronte al ragionevole Giorgio, al quale risulta comodo e nobile intimarle: “Signora, sia più gelosa della sua dignità, non offenda il suo amor proprio!”, Fosca risponde a viso alto: “Ognuno si ama come più gli aggrada”. E così, a poco a poco, ho cominciato a capire Fosca. Il suo urlare ad alta voce e buttarsi per terra in preda alle sue crisi incurante della figura che fa, il suo attaccamento a Giorgio incurante dell’ostilità di lui, il suo portare avanti un proprio discorso e un proprio modo di essere, incurante delle reazioni altrui. Così alla fine, proprio come accade a Giorgio, anch’io amo Fosca, cioè la comprendo.
“Amo Fosca! È fuori dalle regole? È contro natura? Lei [rivolto al dottore che cerca di dissuaderlo] dice che ogni giorno dimentica qualcosa. Be’, oggi dimentichi il suo senso estetico!”.
E qui sta il punto. Fosca è brutta. Forse tutto le verrebbe perdonato se lei fosse bella; anzi se fosse nata bella probabilmente non avrebbe in sé tutti quei mali e quelle intemperanze. Fosca è brutta in una società che non può accettare e collocare in modo dignitoso la bruttezza femminile; e allora, in fin dei conti, non è Fosca poco dignitosa nel suo apparente umiliarsi, è la società in cui vive che lo è.
La chiave del film, amara e per nulla consolatoria, sta nel dialogo finale tra Giorgio e un avventore di una taverna, un nano, che non anticipo per non rovinare il film (vi assicuro che tutto ciò che ho scritto non compromette né rovina il godimento del film per chi non conoscendolo volesse vederlo).
Il film si conclude poi sui versi della poesia Memento, di Iginio Ugo Tarchetti, riadattati per attagliarsi alla musica:
“Vorrei dimenticare, dimenticarmi Amor, quel pensiero che getta un’ombra triste sul nostro amor.
Quando ti bacio, sul tuo bel viso vedo il tuo teschio gelido apparir.
E sul tuo bel seno il tuo scheletro apparir!
E quando accarezzo trepido il tuo bel corpo, Amor, quell’orrida visione m’agghiaccia il cuor”.
Anche se per il tempo di un’ora soltanto, di una notte, Giorgio e Fosca sono stati capaci di dimenticare quell’orrida visione e di immergersi soltanto in una fugace ma piena Bellezza. Questa è stata la loro ribellione, la loro affermazione di dignità che pagheranno a caro prezzo.