Passione d’amore

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Dopo averlo riguardato stasera per l’ennesima volta, eccomi a scrivere di un film (Passione d’amore, di Ettore Scola) che esercita un influsso profondo su di me per lo stesso motivo espresso dal recensore del New York Times: “it’s a movie whose meanings creep up on you“. Ecco, mi è successo esattamente questo (un po’ come mi accadde per “L’uomo che uccise Liberty Valance”), è un film le cui risonanze sono cresciute a poco a poco in me, spingendomi a tornarci più volte, a riguardarlo prendendo appunti, a farlo mio. È un film che, la prima volta che ho iniziato a vederlo, mi è parso così noioso che ho fermato il dvd e fatto altre cose; un paio di giorni dopo però, con quelle poche scene viste che mi balenavano in testa, ci ho riprovato e da lì la passione di Fosca ha vampirizzato anche me. Nonostante il titolo, non vi è nulla di “sentimentale” nel senso di sdolcinato in questo film, anzi è una storia antiromantica per eccellenza, seppur d’amore. Una triste, “irragionevole” storia d’amore. Un film che parla dolorosamente anche di noi e del conformismo schiacciante dal quale siamo pressati oggi come allora.

È l’inverno del 1862 e Giorgio, bel capitano dell’esercito regio, reduce dalla battaglia dell’Aspromonte contro le truppe garibaldine, torna in Piemonte, dove si innamora di Clara, una donna sposata e seducente, interpretata da Laura Antonelli (qui nelle vesti di un personaggio, seppur sensuale, che non umilia in alcun modo l’attrice e che sarebbe stato bello ricordare alla sua morte al posto o almeno al fianco di altre interpretazioni, ma questa è un’altra – triste – storia).
Ben presto l’idillio romantico viene interrotto dal trasferimento di Giorgio presso un presidio militare montano, sempre in Piemonte e fisicamente non molto distante dalla bella Clara ma che in realtà pare davvero un altro mondo e ricorda un po’ la fortezza Bastiani di Buzzati, “un avamposto morto, una frontiera che si affaccia sul niente”.

“Noi qui viviamo in esilio, lontani dalla vita, dalle idee, da tutto”.

In questo luogo sperduto e desolato, in questo mondo di soli uomini, rappresentato come stupido, chiuso e ottuso, vi è una donna, Fosca, la cugina del colonnello, la cui iniziale assenza – rappresentata dalla sedia vuota a tavola – si manifesta fin da subito come una presenza che si farà sempre più opprimente e poi potente nella vita di Giorgio come nella nostra percezione di spettatori, fino ad allargarsi a dismisura e ad allagare tutto (il mio cuore certamente, che a volte nel guardare il film si scioglie perfino in qualche lacrima).

Il film è tutto giocato su contrasti, in onore anche dell’autore del romanzo dal quale il film è tratto, lo scapigliato Iginio Ugo Tarchetti. Clara è la donna bella, disponibile e appassionata secondo le convenzioni di un amore adulterino e pertanto autentico, come tradizione occidentale vuole; è l’amore ideale e prettamente romantico: i due si scambiano da lontani e si sussurrano da vicini le classiche frasi fatte (oggi diremmo “da Baci Perugina”), le parole d’amore più banali ma che a ogni innamorato paiono sempre nuove, si spendono in esercizi di stile autocompiaciuti su quanto sia profondo e nobile il loro amore (fino al “Tu sei la mia religione”). Fosca suona il pianoforte e ama leggere, è “colta, uno spirito delicato, sottile”, come la descrive il medico della guarnigione, ma è al tempo stesso una donna dallo spirito indomito e sfrontato, una donna esagerata, che non si vergogna di lasciarsi scuotere da tremende crisi isteriche di fronte a Giorgio, non teme di esporre la propria terribile fragilità né di umiliarsi per inseguire il suo desiderio e in questo è una di quelle donne che fanno paura perché fuori dagli schemi della ragionevolezza convenzionale (in questo caso, della ragionevolezza maschile rappresentata da Giorgio).

“Buona e mite, lei mi è cara; ironica e sprezzante mi è indifferente.”
“Glielo avevo detto, un giorno, che ho difetti imperdonabili in una donna, oltre alla bruttezza, s’intende. Mi dispiace per lei e per tutti: io non sono né buona né mite.”

Mentirei se dicessi che i modi in cui Fosca umilia se stessa per piacere a Giorgio non mi siano risultati, a una prima visione, decisamente indigesti, fastidiosi e insopportabili. Ma questo è un film che ti entra dentro lentamente, come si diceva all’inizio, nel quale nulla può essere liquidato in modo semplice anzi il rovesciamento è la chiave. Di fronte al ragionevole Giorgio, al quale risulta comodo e nobile intimarle: “Signora, sia più gelosa della sua dignità, non offenda il suo amor proprio!”, Fosca risponde a viso alto: “Ognuno si ama come più gli aggrada”. E così, a poco a poco, ho cominciato a capire Fosca. Il suo urlare ad alta voce e buttarsi per terra in preda alle sue crisi incurante della figura che fa, il suo attaccamento a Giorgio incurante dell’ostilità di lui, il suo portare avanti un proprio discorso e un proprio modo di essere, incurante delle reazioni altrui. Così alla fine, proprio come accade a Giorgio, anch’io amo Fosca, cioè la comprendo.

“Amo Fosca! È fuori dalle regole? È contro natura? Lei [rivolto al dottore che cerca di dissuaderlo] dice che ogni giorno dimentica qualcosa. Be’, oggi dimentichi il suo senso estetico!”.

E qui sta il punto. Fosca è brutta. Forse tutto le verrebbe perdonato se lei fosse bella; anzi se fosse nata bella probabilmente non avrebbe in sé tutti quei mali e quelle intemperanze. Fosca è brutta in una società che non può accettare e collocare in modo dignitoso la bruttezza femminile; e allora, in fin dei conti, non è Fosca poco dignitosa nel suo apparente umiliarsi, è la società in cui vive che lo è.

La chiave del film, amara e per nulla consolatoria, sta nel dialogo finale tra Giorgio e un avventore di una taverna, un nano, che non anticipo per non rovinare il film (vi assicuro che tutto ciò che ho scritto non compromette né rovina il godimento del film per chi non conoscendolo volesse vederlo).

Il film si conclude poi sui versi della poesia Memento, di Iginio Ugo Tarchetti, riadattati per attagliarsi alla musica:

“Vorrei dimenticare, dimenticarmi Amor, quel pensiero che getta un’ombra triste sul nostro amor.
Quando ti bacio, sul tuo bel viso vedo il tuo teschio gelido apparir.
E sul tuo bel seno il tuo scheletro apparir!
E quando accarezzo trepido il tuo bel corpo, Amor, quell’orrida visione m’agghiaccia il cuor”.

Anche se per il tempo di un’ora soltanto, di una notte, Giorgio e Fosca sono stati capaci di dimenticare quell’orrida visione e di immergersi soltanto in una fugace ma piena Bellezza. Questa è stata la loro ribellione, la loro affermazione di dignità che pagheranno a caro prezzo.


Pessimismo cosmico in prima serata

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Plaisir d’amour ne dure qu’un moment,
chagrin d’amour dure toute la vie.

Il film comincia e finisce con una fotografia di famiglia ma le persone in posa, tranne quella al centro che nella prima fotografia era un neonato e ora compie ottant’anni, sono cambiate perché generazioni sono passate, altre sono arrivate ma la Famiglia rimane.

Quando guardo questo film di Ettore Scola ‒ “La famiglia” – e lo guardo tutte le volte che viene trasmesso in tv, perché evidentemente mi piace, provo sempre quel po’ di tristezza, nostalgia, rassegnazione e nervosismo ma ogni volta distribuite in dosi diverse. Per esempio l’ultima volta avevano prevalso la tristezza e la malinconia e sul finale ero scoppiata a piangere come una povera derelitta. Stasera fino a un certo punto è stato il nervosismo a guidare la carretta delle emozioni: il nervoso nel vedere il protagonista (interpretato da Vittorio Gassman, sempre ottimo nel ruolo dell’antipatico) stare perennemente nel mezzo: non si espone mai in politica (mentre il fratello si arruola, va in guerra e tornerà menomato nella psiche e il cugino, sul fronte opposto, morirà volontario nella guerra di Spagna), non si espone nei sentimenti (sposa una donna, Beatrice, pur amando per tutta la vita la sorella di lei, con la quale però non è mai felice), domina silenziosamente tutti quelli che lo circondano e ha anche il coraggio di fare a tratti la vittima. Tuttavia verso la fine del film, durante l’ennesimo litigio con Adriana, la donna-mito amata/odiata, il nostro Carlo se ne esce con una grande verità, seppur detta alla donna sbagliata: e cioè che senza la moglie (che nel frattempo, poveretta, è pure morta) niente sarebbe stato costruito, non ci sarebbe stato niente di buono nella sua vita, niente famiglia, niente figli, niente affetti, niente equilibrio, solo vuoto ed egoismo. Nessuna Adriana, nessuna grande passione può essere più forte e autentica di quel che un matrimonio di anni (per quanto senza grandi emozioni) riesce a mettere in piedi. E infatti è grazie a queste unioni, felici o infelici che siano, che la famiglia (cioè il mondo) va avanti. È la forza della natura e della storia che prevale sul singolo, a meno che il singolo non sia così forte da resistere ma a rischio di condannarsi alla solitudine e all’isolamento, come osserva Adriana stessa.

E poi, perché mai resistere?

Adriana è cosciente di tutto ciò e vive con saggezza questo sentimento dal quale infatti sa tenere le distanze. Peccato vi siano tante “Adriana” molto meno risolute e più romanticamente ingenue, alle quali questo concetto non è affatto chiaro e che, inseguendo una felicità illusoria, si condannano da sole a un’infelicità molto concreta.

Resta il fatto che questo film, più lo vedo più lo trovo tremendamente pessimista. Non si salva niente e nessuno. Non c’è il buon Antonio di quel capolavoro che è “C’eravamo tanto amati” (lui, un uomo medio sì ma non mediocre e anzi l’unico che con la sua pragmatica dirittura si salva in quel contesto) né per contro la forza di vivere i sentimenti di un altro film di Scola che amo tanto e che si chiama “Passione d’amore” (tratto da “Fosca” di Iginio Ugo Tarchetti).
C’è solo un cupo corridoio nel quale si nasce, si vive di velleità e si viene spazzati inesorabilmente via mentre ci sarà sempre qualcun altro a prendere il nostro posto davanti a un obiettivo freddo e indifferente.


Il sorpasso

Lo so, è assurdo; ma ho cominciato per ben due volte a guardare il film Il sorpasso e non riesco a reggere più di mezzora di film di seguito perché quel maledetto suono di quel maledettissimo clacson, che Gassman suona praticamente sempre, mi fa diventare letteralmente nevrastenica. Mi punge il cervello, mi fa friggere il sangue, mi fa fare dei salti sul divano, mi fa sobbalzare il cuore… mi innervosisce, OK??? Roba che durante la visione del film mi è squillato il telefono e io ho risposto un “pronto” così nervoso e infuriato che il povero malcapitato si è preso paura. Ma non lo trovate un suono insopportabile? Non a caso, mentre digitavo nel motorino di ricerca di You tube le parole “Il sorpasso” (proprio perché cercavo degli spezzoni in cui ci fosse il clacson, da mettere nel mio post per chi non conoscesse il film), tra i suggerimenti di “completamento frase” suggeriti da You Tube c’era proprio “il sorpasso clacson”! Sentite dunque che amabile suono percuoterà i vostri timpani per 102 minuti di film:

Il risultato è che sto guardando quel film a spezzoni di mezzora sparsi in momenti diversi della giornata, possibilmente in momenti in cui sono calma. Che nervi!!! Che poi… ora so che dirò un’eresia… ma anche mettendo da parte il clacson (cosa impossibile), c’è che a me Gassman come attore mi è antipaticissimo. Non so che farci, lo so che è un “mostro sacro” ma la mia è un’antipatia “a pelle”. Sarà che finora in tutti i film che ho visto con lui protagonista interpretava sempre personaggi insopportabili, boriosi, arroganti o cinici, disillusi… Ma per interpretare così bene tutti questi personaggi odiosi… sarà mica che ci aveva le physique e anche le caractère du rôle? E comunque, ultimamente me lo trovo dappertutto, anche perché sto guardando tantissimi film di Ettore Scola – eccezionali! – e lui c’è praticamente in tutti!

Piccola nota: ultimamente si è aggiunta un’ulteriore attività a quelle che già riempiono la mia piccola vita e sto cercando di prendere il nuovo ritmo; l’aggiornamento del blog ne risente parecchio ma conto che, una volta adattatami al nuovo andazzo, riuscirò a far rientrare nel mio tempo anche tutte quelle attività che al momento sto sacrificando. Se consideriamo che io non sono MAI stata brava a organizzare il mio tempo in modo ragionieristico, anzi sono una cultrice dei tempi morti che ti ammortizzano lo stress tra un’occupazione e un’altra – e al momento questi tempi morti mi sono letteralmente spariti da un giorno all’altro – direi che me la sto anche cavando bene. Cioè, sinceramente, conoscendomi, pensavo di arrivare esaurita già alla fine della prima settimana e invece sono qui tutta bella arzilla, quindi… mi complimento con me stessa!