Rinascita
Pubblicato: 20 Maggio 2013 Archiviato in: impegno, sport, uomini al lavoro | Tags: josefa idem, meeting della rinascita, nolympic sporting games, terremoto emilia romagna 5 commentiEsulo un po’ dallo stile del blog per fare una segnalazione che riguarda la mia regione. Esattamente un anno fa ci svegliavamo spaventati e scossi da un terremoto che, come ci avevano insegnato a scuola, mai pensavamo potesse colpire con tanta forza la nostra terra. E invece… le nostre vite ne sono state cambiate, in misura ovviamente molto diversa a seconda che si stia stati direttamente colpiti (perdendo la casa, le proprie cose o addirittura i propri cari) o che ci si sia trovati ad affrontare la paura prima e l’emergenza poi, portando aiuto e solidarietà nelle zone più ferite.
Tra le iniziative che, a un anno dal terremoto, sono state messe in campo ne voglio segnalare una che ho potuto seguire da vicino fin dall’origine, conoscendo bene chi la organizza: il Meeting della Rinascita, una manifestazione che raccoglie gli sport non olimpici (tantissimi e divertenti da conoscere e sperimentare) i quali scenderanno in campo con tornei, gare e dimostrazioni aperte a tutti, dal 24 maggio al 2 giugno nei comuni colpiti dal terremoto. Alla cerimonia di apertura, a Crevalcore, sarà presente la ministra dello sport Josefa Idem. Proprio un paio di giorni fa ho visto le foto degli ultimi sopralluoghi nel campetto di basket di Crevalcore; mi sono emozionata, guardandole, perché poco meno di un anno fa – nei giorni della massima emergenza – mi ero seduta esattamente ai bordi di quello stesso campetto dopo un intero pomeriggio passato in tendopoli coi ragazzini terremotati. Tutto, attorno, era rovina e distruzione; il paese un’unica “zona rossa”, inaccessibile. La psicologa dell’infanzia che sedeva con noi ci illustrava i sintomi del trauma più ricorrenti nei bambini che vivevano in quella tendopoli. Noi eravamo lì con noi stesse, i nostri albi illustrati, i nostri libri che speravamo curativi (e in parte le storie curano davvero) e la nostra buona volontà. Nel campetto alcuni ragazzini delle nazionalità più diverse giocavano insieme. Ricordo lo stato d’animo turbato con cui li osservavo, facendomi tante domande sul futuro. Ora mi emoziona pensare che in quello stesso campetto, che allora sembrava una minuscola oasi in un deserto di paura, si farà festa, perché la festa si può fare: in quest’anno non si è stati con le mani in mano e la ricostruzione si è avviata bene fin da subito. C’è ancora tanto da fare e da ricostruire ma anche la fiducia di poter tornare meglio di prima. E anche nove giorni di sport, condivisione e aggregazione aiutano a riportare vita, fiducia, gioia e normalità. Se siete o passate da quelle parti, fateci un salto.
Qui il link alla pagina facebook della manifestazione:
https://www.facebook.com/MeetingDellaRinascita
Questo il sito ufficiale, col programma delle giornate: http://www.nolympicsports.net
Perdermi m’è dolce in questa mappa
Pubblicato: 14 ottobre 2012 Archiviato in: camminando, esperimenti, sport | Tags: leggere cartine, orientamento, orienteering, perdersi 9 commentiLa premessa è che io sono un essere umano sprovvisto di orientamento né mi è mai interessato di migliorare tale lacuna perché vivo benissimo così, come vivevo benissimo miope e senza occhiali. Mi piace perdermi, è il mio modo di muovermi e anche il mio modo di visitare i posti, le città. Anche perché “tutte le strade portano a Roma” è il mio motto, la cui veridicità è confermata dalla mia esperienza: riesco sempre a raggiungere la mia meta anche andando un po’ a casaccio, cioè basandomi sulla direzione, come i pionieri nel vecchio West, di cui in effetti sono una fan. Il mio livello di perdizione è tale che non sono capace di orientarmi nemmeno con una cartina in mano, anzi di solito è proprio con la cartina che mi perdo di più; ho grossi problemi perfino col “Tuttocittà” e ce ne vuole a non saper leggere bene le piantine del “Tuttocittà”, lo so. Non consigliatemi il navigatore perché mi muovo in bici o a piedi e perché, appunto, perdermi e brancolare per lande sconosciute non mi dispiace affatto. Credo che tutto ciò rientri in quel lato del mio carattere che si è formato – come normalmente accade – attorno ai due anni d’età e tale mi è rimasto: il mood del Voglio Fare a Modo Mio.
Pertanto, non mi ci vedevo molto bene con bussola e cartina, a praticare Orienteering (cos’è e cosa non è – per es.non è una caccia al tesoro – lo trovate qui e nei link in rosso nella suddetta pagina). Però oltre a essere curiosa, da poco più di un anno conosco colui che, per rispettare la sua privacy, chiameremo il Capo (dell’Orienteering), una persona molto simpatica e soprattutto molto tenace (e paziente) quando si tratta di Orienteering; essendomi affezionata a lui ho cominciato a vedere di buon occhio anche il suo sport. Meno male non ho conosciuto un esperto di bungee jumping o lotta libera se no a quest’ora mi starei lanciando da un picco o medicando un occhio nero; della serie “Zelig mi fa un baffo”. Un po’ per questo ma soprattutto perché la mia amica Anto voleva provare, ecco che venerdì pomeriggio ci siamo ritrovati ai Giardini Margherita in tre amiche più lui, il Capo, e un suo collaboratore, per un giretto di prova. Io addirittura mi son trovata in mano, oltre alla cartina del Parco, non una ma ben tre bussole, e a parte un primo brividino di disagio non ho fatto una piega. Anzi, sarà che eravamo tra amici, sarà che i parchi sono il mio locus amoenus assoluto, ma dopo un po’ che sgambettavamo ho cominciato a familiarizzare coi segni della cartina (tutte le cartine di Orienteering utilizzano segni convenzionali che sono gli stessi in tutto il mondo e quelli che ho imparato per primi sono: un cerchietto verde indica un albero isolato; un cerchietto azzurro indica un oggetto particolare, per es. un cestino della spazzatura; un ovale verde scuro indica un tratto di vegetazione non attraversabile, per es. un cespuglio. Lo dico perché da allora quando cammino per strada non vedo più cestini o alberi ma solo cerchietti azzurri o verdi). Auto-osservando la mia mente nel suo essere messa al lavoro su questa esperienza nuova, mi ha sorpresa il modo in cui da un iniziale caos e disorientamento nel cercare di riscontrare una corrispondenza tra il paesaggio concreto che mi circondava e dei simboli astratti sulla carta, a poco a poco e grazie alle spiegazioni del Capo tutto ha cominciato a chiarificarsi e appunto quel cerchietto sulla carta era evidentemente quell’albero alla mia sinistra e così via. Già il giorno dopo mi veniva spontaneo leggere il paesaggio traducendo ciò che vedevo in simboli, secondo la legenda appresa il giorno prima.
Altri motivi per cui tutto sommato questo sport comincia a interessarmi si ricollegano direttamente a quel mio Voglio Fare a Modo Mio. Questo è uno sport che puoi viverti un po’ come ti pare. Hai un percorso prescritto e devi arrivare al traguardo essendo passato per tutti i punti segnati sulla mappa che ti viene consegnata alla partenza, ok: ma il tuo percorso, intanto, non è uguale a quello dei concorrenti che partono prima o dopo di te (per non condizionarsi o copiarsi lungo la gara): è il tuo e te lo devi risolvere tu; cercare di seguire o imitare gli altri può essere solo dannoso. Inoltre, sulla cartina sono segnati i traguardi intermedi (contrassegnati nel percorso dalle lanterne – degli affari bianchi e arancioni con attaccato il punzonatore che serve per marcare sulla propria mappa o cartellino il passaggio per quel punto) e la sequenza da rispettare, ma il percorso per raggiungerli lo scegli tu, leggendo la mappa e il terreno e ragionando su quale sia la via più efficace, che non sempre è quella apparentemente più breve. Non solo: puoi gareggiare con spirito di agonismo, per vincere, e allora correrai a testa bassa tra un punto e l’altro, senza fare caso al paesaggio nel quale ti trovi; ma puoi anche decidere di viverti la stessa gara in modo rilassato, soffermandoti lungo il percorso ad ammirare un panorama, a chiederti il nome di un albero o a spiare un cerbiatto nel bosco. Insomma sei libero. Ecco perché, nonostante l’iniziale diffidenza, le mie barriere hanno cominciato a cedere. Anche le mie amiche si sono entusiasmate e il 18 novembre ci iscriviamo alla gara di Bologna. Armate di mappe cercheremo di orientarci nel centro storico della nostra città, e sarà curioso esplorarlo in un modo diverso da quello con cui solitamente calpestiamo quelle strade e quei marciapiedi. Ho già comprato la mia bussola. Io, l’esperta del disorientamento, ora sono fiera detentrice di bussola…
Eccomi qui immortalata nel mio momento preferito: il punzonamento! In mano ho la mappa e quel “coso” a cui è attaccato il punzonatore è la “lanterna”.
Che questo sport mi conquisti o resti solo un passatempo cui dedicarsi ogni tanto, per l’ennesima volta devo riscontrare quanto bene faccia alla mia mente il provarsi in esperienze nuove per il semplice fatto che siano nuove, ignote, inesplorate. Siccome sono un tipo abitudinario faccio sempre una gran fatica a lanciarmi in qualcosa che non conosco… ma non mi è mai successo di tornare pentita, dopo, perché anche quando mi butto e le cose vanno male o la novità non mi convince, ne esco sempre con la soddisfazione di avere imparato qualcosa; anche dagli errori. Uno dei miei obiettivi è proprio quello di mettermi alla prova ancor più di quanto stia comunque già facendo (è da un po’ che ho iniziato a perseguirlo e realizzarlo) perché sono davvero sempre più convinta, con Antonio Scurati, che oggi “l’esperienza è la nuova forma di indigenza”. E invece fare esperienza non è niente più e niente meno che vivere. Se poi l’esperienza la fai con i tuoi amici o attraverso essa ne scopri di nuovi, il tutto è ancora più bello, la vita è ancora più vita.
Triste saluto
Pubblicato: 22 febbraio 2009 Archiviato in: morte, sport 2 commentiMi dispiace tanto! Dopo avere salutato una settimana fa il grande Giacomo Bulgarelli, ora ci ha lasciati anche Candido Cannavò: grande giornalista, amante dello sport, uomo di cuore. Tra poco ricomincia il Giro d’Italia, quanto ci mancheranno la sua voce con quell’inconfondibile accento, i suoi commenti e la sua passione!
Che riposi in pace…
Come fu che andai a un matrimonio e mi sembrò di essere stata al bar sotto casa
Pubblicato: 15 luglio 2007 Archiviato in: feste, sport 19 commentiEra da un mese che attendevo con timore la giornata di ieri: un matrimonio a cui ero stata invitata, assieme a tutta la mia famiglia, ma dove, a parte un po’ gli sposi, non conoscevo quasi nessuno (solo qualche persona, in modo superficiale).
Era il ricevimento che mi spaventava (prevedevo un pranzo interminabile durante il quale non sarei riuscita a spiccicare parola) mentre ero molto contenta di partecipare alla cerimonia, che è stata molto semplice e intensa.
Quando, dopo la messa e un breve viaggio in macchina, siamo approdati presso il luogo dei festeggiamenti, in aperta campagna, l’ansia aveva lasciato il posto alla rassegnazione; avevo deciso che mi sarei stampata sulla faccia un sorriso che niente al mondo – né imbarazzo né noia né disperazione – avrebbe potuto togliermi (pensavo che sarebbe stato davvero brutto se gli sposi, guardandosi intorno, avessero visto un’invitata con un’espressione palesemente afflitta).
Mentre cameriere accaldate servivano antipasti a base di pollo fritto (bollente) in mezzo a un prato assolato e senza ombra (e quello era solo l’antipasto, una sorta di buffet di riscaldamento, è il caso di dire) mi chiedevo, osservando le varie invitate che si scoprivano le spalle mostrando per lo più abbondanti scollature, come noi donne abbiamo potuto vivere finora senza coprispalle, dato che a parte me e mia sorella, la quale pur di non indossare tale subdolo indumento si era avvolta in una sciarpona, tutte in chiesa avevano il loro bel coprispalle indosso.
Finalmente, dopo circa un’ora di antipasti bollenti, è arrivato l’ordine di avviarci verso i tavoli; iniziava il pranzo. Giungeva dunque il momento fatidico, quello che da un mese visualizzavo nella mente con scenari l’uno più imbarazzante dell’altro; lo so, sembra esagerato, ma son fatta così, tuttavia non mi tiro neanche indietro, vado e soffro, piuttosto.
Sotto un tendone bianco erano dunque disposti parecchi tavoli rotondi, ai quali gli invitati si sarebbero accomodati seguendo le disposizioni decise in anticipo dagli sposi ed esplicitate su un cartellone. E qui, una sorpresa: ogni tavolo era stato battezzato con il nome di una cima importante del Giro d’Italia (lo sposo è un appassionato di ciclismo). Trovare qualcosa di familiare in un contesto così alieno mi è sembrato molto confortante, tanto che ho esclamato – rivolta a nessuno in particolare, ma ho pensato che un’invitata sorridente ma muta non era comunque un bello spettacolo, allora era meglio parlare, anche se da sola – che mi sembrava una bellissima idea, questa dei tavoli dedicati al giro d’Italia, e che ero proprio curiosa di sapere a quale cima ero stata assegnata. E dal nulla alle mie spalle una voce mi ha risposto, una voce dal tono entusiasta, tra l’altro; e si rivolgeva proprio a me.
– Ma dai! Ti interessi di ciclismo?! – mi ha detto questo ragazzo con gli occhi che gli brillavano.
– Sì! – ho cinguettato io pensando Forse sono salva!.
Dopo tre secondi eravamo già lanciati in un’appassionante conversazione su tappe e campioni, interrotta da esclamazioni compiaciute (come quando abbiamo scoperto che nell’estate ’98 eravamo entrambi a Cesenatico alla festa per Pantani o quando abbiamo rievocato le tappe che ci hanno commosso fino alle lacrime).
Speravo che fossimo stati assegnati allo stesso tavolo – sarebbe stato perfetto – invece io ero al Passo Rolle, lui allo Zoncolan, non lontano dal mio.
Mi sentivo comunque così sollevata e rasserenata che sono stata in grado di conversare abbastanza disinvoltamente con i miei commensali per tutta la durata del pranzo. Se mi tornava lo smarrimento sbirciavo il mio salvatore al tavolo a fianco; sapere che lì in mezzo esisteva almeno una persona con cui potevo parlare mi rassicurava, ho questo carattere qui, io, ho sempre bisogno di un punto di riferimento che sia incoraggiante, poi vado avanti da sola, devo solo sapere che c’è, anche se è un appiglio precario come un giovane appassionato di ciclismo pressoché sconosciuto.
Mentre (verso le ore 18!) aspettavamo il dolce e la maggior parte degli invitati ne approfittava per alzarsi e sgranchirsi le gambe, io ero alle prese con la mia camicetta che tendeva a spostarsi sul davanti lasciandomi una scollatura troppo osée per i miei gusti, però se la spostavo indietro mi scopriva troppo la schiena; ero lì che la tiravo avanti e indietro meditando sulle affinità tra il concetto di eleganza e quello di tortura, sulla sorellanza tra moda e morte di leopardiana memoria, quando il ciclofilo mi si è seduto a fianco e ha ripreso il discorso da dove lo avevamo interrotto; e mentre attorno a noi era in corso prima un karaoke, poi una serie di scherzi agli sposi, poi cori canti e balli, io ero sempre lì a ragionare su Cunego e Rasmussen (dopo un po’ mi ero anche stancata).
Alla fine è arrivata l’ora di tornare a casa, ho salutato gli sposi, ho pensato che del matrimonio, tranne la cerimonia al mattino, io non me n’ero neanche accorta, a me è sembrato di avere passato tutto il pomeriggio a un tavolino di un bar sport.
Autodenuncia di stupidità
Pubblicato: 27 Maggio 2007 Archiviato in: sport 16 commentiUna “perla” odierna di Auro Bulbarelli, telecronista del Giro d’Italia su rai 3:
Che tappa meravigliosa, questa, cari telespettatori! Spero che siate tutti davanti agli schermi delle vostre tv!
E dove, se no? Se siamo tele-spettatori, Auro mio…
Da ciò comunque si desume che nonostante gli ultimi scandali e a dispetto anche di tutto il lavoro che devo fare e che mi impedisce di aggiornare il blog, anche quest’anno non riesco a resistere: a una certa ora del pomeriggio accendo la tv, benché con aria più scettica e rassegnata del solito, e seguo le ultime fasi della tappa quotidiana. A volte, come oggi, rischio quasi di emozionarmi leggermente; riesco quasi a dimenticare che sto guardando dei drogati su due ruote e a crederci: credere che sia tutto vero.
Non sono forse terribilmente stupida? Così, con questo post mi autodenuncio.
Aveva ragione Bulbarelli: se tutto fosse regolare, la tappa di oggi sarebbe stata davvero mozzafiato; solo qualche anno fa credo che mi sarebbero venute le lacrime agli occhi dall’emozione. Ma oggi, dopo il caso Basso (ultimo e non ultimo di una lunga serie) e soprattutto dopo la reticenza, anzi l’omertà, che ho osservato tra tutti i ciclisti intervistati sul caso (e che sono lì a sgambettare solo perché finora non sono stati “fregati”, per dirla alla Pantani, cioè: scoperti, per dirla correttamente), io non ci credo più. Certo, vivo lo stesso. Ma lo sport dovrebbe essere un gioco, un’esperienza piacevole ed emozionante, per quanto faticosa; sia per chi lo pratica, sia per chi lo segue da appassionato. E invece non è più così e un altro piccolo grande piacere – l’ennesimo – ci è stato tolto. Pensate che sono pure juventina e capirete in che stato mi trovo. Potrei darmi all’ippica; ma anche lì gonfiano i cavalli come mucche, poveretti. Tornerò ai miei studi, allora, e mi collegherò nostalgicamente al Giro giusto così, per avere un rimpianto, per nutrire la mia malinconia.
Forse non vi interessa lo sport; allora pensate, per capire il senso del post, a come vi sentireste se scopriste che il vostro artista preferito (cantante, musicista, scrittore, pizzaiolo) vi ha costantemente ingannati; quelle opere che vi hanno emozionato e commosso fino alle lacrime non erano farina del suo sacco. Le canzoni le cantava in playback, i romanzi glieli scriveva un altro, le paradisiache pizze erano surgelate e riscaldate al momento. E provate a immaginare che questo non valga solo per il vostro artista preferito, ma per quasi tutti; cioè che tutto il sistema in cui il truffatore è collocato sia marcio in ogni sua parte. Anche se potete vivere senza quei romanzi o quella musica vi sentirete ingannati, defraudati delle vostre emozioni: delusi, insomma. Che poi il paragone è imperfetto: nel caso del finto romanziere, potreste sempre diventare ammiratori del “vero” romanziere (quello che scriveva i romanzi per conto del truffatore); ma nel caso dello sport cosa devo fare: ammirare una droga? O chi si droga meglio, riuscendo a farla franca? (A non farsi fregare?)
Puerperi all’attacco
Pubblicato: 11 marzo 2007 Archiviato in: curiosità, sport, uomini al lavoro 11 commentiPuerperi all’attacco
[Vi sembra strana quella parola al maschile? Non è una svista…]
Ieri ho guardato la mezzora finale della partita di rugby Italia – Galles, vinta dall’Italia. Mi piace il rugby, da quando ho cominciato a capirci qualcosa grazie ai commentatori di La7. Ieri poi sapevo che allo stadio, tra il pubblico, c’era anche il nostro caro Massimo (alias Commediorafo) e quindi sono ancora più contenta che abbiamo vinto.
Dicevo che mi piace il rugby, ma quando lo guardo (preparatevi perché sto per dire una cosa assolutamente insensata) mi vengono in mente delle similitudini assurde ma per me vere. In particolare quando guardo una mischia mi viene in mente il parto. Insomma a me sembra quasi uguale. C’è questo gruppone di uomini avvinghiati gli uni agli altri che si spingono e si premono a vicenda: e tu, spettatore, sai che da un momento all’altro, da quell’intrico di gambe, verrà espulsa la palla ovale. E quando sbuca fuori all’improvviso (e c’è subito la mano di qualcuno pronta a raccoglierla amorevolmente) a me nella mente si sovrappone sempre l’immagine del neonato che esce e mi viene da ridere perché – ne convengo – è un paragone assurdo e quasi irriverente, ma mi viene spontaneo e automatico.
Non ci posso fare niente se ho una stupidità che ogni tanto sente il bisogno di manifestarsi creandomi delle spiacevoli interferenze.
Poi mi piace molto anche il momento del placcaggio: un giocatore non fa in tempo a prendere la palla tra le braccia (e, di nuovo, perdonatemi, ma la tiene stretta e la protegge col corpo come si fa con un neonato) e correre in avanti, che un avversario gli si lancia addosso per fermarlo. Poi da lì o nasce una mischia aperta (cioè tutti si buttano per terra uno sopra l‘altro cercando gli uni di proteggere e conservare l’ovale, gli altri di accaparrarselo) o, se il giocatore è veloce nel passare il bambino, pardon, la palla, a un compagno, l’attacco prosegue. E un’altra cosa bella è che bisogna correre in avanti, verso la meta, ma potendo passarsi la palla con le mani solo all’indietro, altrimenti si commette un fallo. Mi emoziona questo slanciarsi in avanti guardando indietro, come a tenere tutto insieme.
Conosco anche un ex giocatore di questo sport, che è poi il marito di una cugina di mia mamma (ramo piacentino), e lui all’inizio si è molto entusiasmato quando ha scoperto che mi interesso di rugby; ma dopo che, incoraggiata da tale entusiasmo, gli ho confidato queste mie idee, sono subito decaduta nella sua stima e lui si è anche un po’ offeso (ho pure motivo di credere, da alcuni indizi, che soffra di sindrome della virilità oppressa; insomma è un po’ complessato, su certi argomenti) e ora ogni volta che mi vede mi prende in giro additandomi al pubblico ludibrio. E io dentro me gli do anche un po’ ragione, sia chiaro.
Però, considerando che prima il rugby non se lo filava nessuno e ora invece, tramite servizi televisivi pettegolotendenziosi, si cerca di lanciare la moda del rugbista come sex-symbol, io mi premunisco vedendo quell’ammasso di omaccioni prima come campioni e sportivi, poi con la suddetta sfumatura di dolcezza materna di cui ho parlato. Più rassicurante, no?