Passione d’amore
Pubblicato: 20 febbraio 2017 Archiviato in: cinema, poesia, segnalazioni | Tags: ettore scola, Iginio Ugo Tarchetti, Memento, Passione d'amore, scapigliatura 2 commentiDopo averlo riguardato stasera per l’ennesima volta, eccomi a scrivere di un film (Passione d’amore, di Ettore Scola) che esercita un influsso profondo su di me per lo stesso motivo espresso dal recensore del New York Times: “it’s a movie whose meanings creep up on you“. Ecco, mi è successo esattamente questo (un po’ come mi accadde per “L’uomo che uccise Liberty Valance”), è un film le cui risonanze sono cresciute a poco a poco in me, spingendomi a tornarci più volte, a riguardarlo prendendo appunti, a farlo mio. È un film che, la prima volta che ho iniziato a vederlo, mi è parso così noioso che ho fermato il dvd e fatto altre cose; un paio di giorni dopo però, con quelle poche scene viste che mi balenavano in testa, ci ho riprovato e da lì la passione di Fosca ha vampirizzato anche me. Nonostante il titolo, non vi è nulla di “sentimentale” nel senso di sdolcinato in questo film, anzi è una storia antiromantica per eccellenza, seppur d’amore. Una triste, “irragionevole” storia d’amore. Un film che parla dolorosamente anche di noi e del conformismo schiacciante dal quale siamo pressati oggi come allora.
È l’inverno del 1862 e Giorgio, bel capitano dell’esercito regio, reduce dalla battaglia dell’Aspromonte contro le truppe garibaldine, torna in Piemonte, dove si innamora di Clara, una donna sposata e seducente, interpretata da Laura Antonelli (qui nelle vesti di un personaggio, seppur sensuale, che non umilia in alcun modo l’attrice e che sarebbe stato bello ricordare alla sua morte al posto o almeno al fianco di altre interpretazioni, ma questa è un’altra – triste – storia).
Ben presto l’idillio romantico viene interrotto dal trasferimento di Giorgio presso un presidio militare montano, sempre in Piemonte e fisicamente non molto distante dalla bella Clara ma che in realtà pare davvero un altro mondo e ricorda un po’ la fortezza Bastiani di Buzzati, “un avamposto morto, una frontiera che si affaccia sul niente”.
“Noi qui viviamo in esilio, lontani dalla vita, dalle idee, da tutto”.
In questo luogo sperduto e desolato, in questo mondo di soli uomini, rappresentato come stupido, chiuso e ottuso, vi è una donna, Fosca, la cugina del colonnello, la cui iniziale assenza – rappresentata dalla sedia vuota a tavola – si manifesta fin da subito come una presenza che si farà sempre più opprimente e poi potente nella vita di Giorgio come nella nostra percezione di spettatori, fino ad allargarsi a dismisura e ad allagare tutto (il mio cuore certamente, che a volte nel guardare il film si scioglie perfino in qualche lacrima).
Il film è tutto giocato su contrasti, in onore anche dell’autore del romanzo dal quale il film è tratto, lo scapigliato Iginio Ugo Tarchetti. Clara è la donna bella, disponibile e appassionata secondo le convenzioni di un amore adulterino e pertanto autentico, come tradizione occidentale vuole; è l’amore ideale e prettamente romantico: i due si scambiano da lontani e si sussurrano da vicini le classiche frasi fatte (oggi diremmo “da Baci Perugina”), le parole d’amore più banali ma che a ogni innamorato paiono sempre nuove, si spendono in esercizi di stile autocompiaciuti su quanto sia profondo e nobile il loro amore (fino al “Tu sei la mia religione”). Fosca suona il pianoforte e ama leggere, è “colta, uno spirito delicato, sottile”, come la descrive il medico della guarnigione, ma è al tempo stesso una donna dallo spirito indomito e sfrontato, una donna esagerata, che non si vergogna di lasciarsi scuotere da tremende crisi isteriche di fronte a Giorgio, non teme di esporre la propria terribile fragilità né di umiliarsi per inseguire il suo desiderio e in questo è una di quelle donne che fanno paura perché fuori dagli schemi della ragionevolezza convenzionale (in questo caso, della ragionevolezza maschile rappresentata da Giorgio).
“Buona e mite, lei mi è cara; ironica e sprezzante mi è indifferente.”
“Glielo avevo detto, un giorno, che ho difetti imperdonabili in una donna, oltre alla bruttezza, s’intende. Mi dispiace per lei e per tutti: io non sono né buona né mite.”
Mentirei se dicessi che i modi in cui Fosca umilia se stessa per piacere a Giorgio non mi siano risultati, a una prima visione, decisamente indigesti, fastidiosi e insopportabili. Ma questo è un film che ti entra dentro lentamente, come si diceva all’inizio, nel quale nulla può essere liquidato in modo semplice anzi il rovesciamento è la chiave. Di fronte al ragionevole Giorgio, al quale risulta comodo e nobile intimarle: “Signora, sia più gelosa della sua dignità, non offenda il suo amor proprio!”, Fosca risponde a viso alto: “Ognuno si ama come più gli aggrada”. E così, a poco a poco, ho cominciato a capire Fosca. Il suo urlare ad alta voce e buttarsi per terra in preda alle sue crisi incurante della figura che fa, il suo attaccamento a Giorgio incurante dell’ostilità di lui, il suo portare avanti un proprio discorso e un proprio modo di essere, incurante delle reazioni altrui. Così alla fine, proprio come accade a Giorgio, anch’io amo Fosca, cioè la comprendo.
“Amo Fosca! È fuori dalle regole? È contro natura? Lei [rivolto al dottore che cerca di dissuaderlo] dice che ogni giorno dimentica qualcosa. Be’, oggi dimentichi il suo senso estetico!”.
E qui sta il punto. Fosca è brutta. Forse tutto le verrebbe perdonato se lei fosse bella; anzi se fosse nata bella probabilmente non avrebbe in sé tutti quei mali e quelle intemperanze. Fosca è brutta in una società che non può accettare e collocare in modo dignitoso la bruttezza femminile; e allora, in fin dei conti, non è Fosca poco dignitosa nel suo apparente umiliarsi, è la società in cui vive che lo è.
La chiave del film, amara e per nulla consolatoria, sta nel dialogo finale tra Giorgio e un avventore di una taverna, un nano, che non anticipo per non rovinare il film (vi assicuro che tutto ciò che ho scritto non compromette né rovina il godimento del film per chi non conoscendolo volesse vederlo).
Il film si conclude poi sui versi della poesia Memento, di Iginio Ugo Tarchetti, riadattati per attagliarsi alla musica:
“Vorrei dimenticare, dimenticarmi Amor, quel pensiero che getta un’ombra triste sul nostro amor.
Quando ti bacio, sul tuo bel viso vedo il tuo teschio gelido apparir.
E sul tuo bel seno il tuo scheletro apparir!
E quando accarezzo trepido il tuo bel corpo, Amor, quell’orrida visione m’agghiaccia il cuor”.
Anche se per il tempo di un’ora soltanto, di una notte, Giorgio e Fosca sono stati capaci di dimenticare quell’orrida visione e di immergersi soltanto in una fugace ma piena Bellezza. Questa è stata la loro ribellione, la loro affermazione di dignità che pagheranno a caro prezzo.
To flee from
Pubblicato: 17 dicembre 2016 Archiviato in: arte e bellezza, poesia | Tags: emily dickinson 2 commentiSe per volare via dalla memoria
avessimo le ali
in molti voleremmo.
A più lente cose avvezzi
gli uccelli sgomenti osserverebbero
il carro poderoso
degli uomini in fuga
dalla mente dell’uomo.
To flee from memory
Had we the Wings
Many would fly
Inured to slower things
Birds with dismay
Would scan the mighty van
Of men escaping
From the mind of man.
Emily Dickinson
A parte la verità espressa in questi versi, non so se fosse intenzione della poetessa ma l’immagine finale – quella fuga così scomposta e pesante contrapposta alla leggerezza e calma degli uccelli che osservano – mi sembra tanto comica… e quindi ancor più rivelatrice.
Storia di Madame Aupick, già vedova Baudelaire
Pubblicato: 11 dicembre 2016 Archiviato in: libri, poesia | Tags: aupick, baudelaire, bleus, caroline archenbaut-defayis, castelvecchi, franca zanelli quarantini, honfleur, quiberon 3 commenti“Era lì, in un angolo del mio immaginario. Mi aspettava? Di certo un giorno è accaduto. Ho sentito che tra noi due la più forte era lei, con la sua storia: che chiedeva di essere raccontata, lo chiedeva con insistenza. Così ho provato a scriverla. […] Quello che adesso comincia è uno dei romanzi possibili.”
Così l’autrice introduce al lettore la protagonista del suo breve ma denso romanzo: Caroline Archenbaut-Defayis, la mamma del poeta Charles Baudelaire. È una di quelle occasioni in cui la letteratura si fa lente d’ingrandimento e, cogliendo un personaggio nel flusso della Grande Storia, fa risaltare la sua vita (o parte di essa) attraverso la forza dell’immaginazione e, in questo caso, anche dell’affetto. Così, fin dall’incipit del romanzo iniziamo a seguire – letteralmente, perché ci imbattiamo in Caroline che cammina per le vie di Honfleur, la sua cittadina – la protagonista e a entrare in intimità con lei, trovando fin da subito inadeguata quella definizione di “donnetta insignificante” che Sartre pensò bene di attribuirle. Caroline infatti fu molto criticata perché, una volta conquistata a fatica la sua posizione di borghese benestante, temeva di perdere benessere economico e reputazione a causa di quel figlio che era arrivata anche a mettere sotto tutela affinché non dilapidasse in un sol colpo l’eredità paterna. Nel romanzo trova spazio il rapporto complesso tra madre e figlio, anche attraverso stralci delle lettere con le quali il poeta sommergeva la madre e nelle quali dichiarazioni d’amore melodrammatiche e richieste pressanti di denaro si sovrapponevano costantemente.
Ma perché questo romanzo è piaciuto a me che non amo né Baudelaire né i romanzi “al femminile”?
Perché la bellezza di questo romanzo – che comunque non è per niente “al femminile” – sta intanto nello stile usato dall’autrice: non asettico o freddo ma per nulla melenso o sentimentale; arricchito da un lessico e una padronanza del linguaggio e della materia (dagli oggetti di uso quotidiano agli ambienti alle vicende storiche) che rendono presente e vivo ogni dettaglio. Poi, soprattutto, perché la vita di Caroline, così come ricostruita/immaginata dall’autrice a partire dalle ricerche biografiche (al termine del romanzo è presente una ricchissima bibliografia relativa alle fonti letterarie e storiche utilizzate), è stata molto avventurosa e si intreccia con le più ampie vicende storiche degli anni in cui era bambina, in primis la resistenza dei monarchici francesi nei confronti dei Bleus (i Repubblicani usciti vincitori dalla Rivoluzione) – il padre di Caroline era un monarchico emigrato in Inghilterra ai tempi del Terrore – che sfocia nel massacro di Quiberon, cuore del romanzo e nel quale svetta la forza morale e la nobiltà di alcuni tra gli sconfitti (sì, è un ottimo esempio di storia raccontata dal punto di vista dei vinti); poi la Parigi di Caroline bambina, orfana e poverissima; la Honfleur di Caroline ormai anziana e benestante; gli echi della Parigi nella quale vive, scrive, si indebita e si angoscia il figlio; pare di trovarci anche noi lì. C’è il tema del passato che cura e che salva, che aiuta a ritrovare se stessi, ad addentrarsi in quella “stanza buia in fondo al cuore” nella quale sono conservati i ricordi d’infanzia che abbiamo voluto dimenticare; il tema dell’incontro con l’altro (e l’Altro – in questo caso un compagno di vecchia data – apre nuovi orizzonti, nuove interpretazioni del mondo, offre stimoli e confronto), dell’amicizia, quello della maternità. E altro che non sto a elencare… perché non sono qui a scrivere un bugiardino.
In un inserto, l’autrice racconta un aneddoto divertentissimo di lei undicenne alle prese con Baudelaire e con un certo “premio Hemingway”. A quella età, in un’estate degli anni Sessanta, nasce il suo amore per questo autore e per quella letteratura francese a cui poi ha dedicato la vita professionale, come docente universitaria francesista e traduttrice.
[Franca Zanelli Quarantini, Storia di Madame Aupick, già vedova Baudelaire, Castelvecchi, Roma 2016]
And I’m a Rose!
Pubblicato: 21 marzo 2013 Archiviato in: poesia | Tags: a sepal a petal and a thorn, emily dickinson, giornata mondiale della poesia 5 commentiA sepal, petal and a thorn
Upon a common summer’s morn –
A flask of Dew – A Bee or two –
A Breeze – a caper in the trees –
And I’m a Rose!
Un sepalo, un petalo e una spina
in un comune mattino d’estate,
un fiasco di rugiada, un’ape o due,
una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi –
e io sono una rosa!
Emily Dickinson
Oggi è la giornata mondiale della poesia.
Il naufragar m’è dolce in questo mare
Pubblicato: 8 luglio 2008 Archiviato in: poesia | Tags: pavese 19 commentiRaccolgo l’invito di Melchisedec a partecipare a questa catena poetica e lo ringrazio perché, nonostante il poco tempo a disposizione in questi giorni, immergermi tra i miei poeti più amati mi ha procurato un grande piacere (sapete, quello struggimento del: Come posso pensare di morire un giorno se ho tutte queste cose meravigliose da leggere e rileggere??!). La scelta tanto dei poeti quanto delle poesie potrebbe cambiare ogni secondo, ma d’istinto ho scelto i seguenti versi (disposti in ordine crescente di disillusione/disperazione, m’è venuto così!); quando il titolo c’è, è in neretto:
Abito nella possibilità,
una casa più bella della prosa,
più ricca di finestre
e superiore per porte.
Ha stanze simili a cedri,
impenetrabili allo sguardo,
e per tetto la volta
perenne del cielo.
Ha i visitatori più belli
e il mio compito è questo:
divaricare le mie mani sottili
per accogliervi il Paradiso.
(Emily Dickinson)
Pendono squarciate le ali
dell’eucalipto, non volerà più
nel cuore dei venti
il grande uccello vegetale. Ma
gli è rimasto un ramo,
un grido verticale:
nel silenzio sordo del mondo
la bellezza non tacerà.
(Gianni Rodari)
George Gray
Molte volte ho studiato
la lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà questa non è la mia destinazione
ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme.
(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)
Fides
Quando brillava il vespero vermiglio,
e il cipresso pareva oro, oro fino,
la madre disse al piccoletto figlio:
Così fatto è lassù tutto un giardino.
Il bimbo dorme, e sogna i rami d’oro,
gli alberi d’oro, le foreste d’oro;
mentre il cipresso nella notte nera
scagliasi al vento, piange alla bufera.
(Giovanni Pascoli, Myricae)
Mito
Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà più dov’erano le spiagge d’un tempo.
Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio i fragori del sole
fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca più il cielo; le nubi
non s’ammassano più come frutti; nell’acqua
non traspare più un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.
Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.
[…]
(Cesare Pavese, Lavorare stanca)
Lamento
Sonno e morte, le cupe aquile
sussurrano la notte intorno al mio capo:
che dell’uomo l’aurea immagine
sommerga la gelida onda
dell’eternità? Ai paurosi scogli
schiantasi il corpo purpureo.
E lamenta la cupa voce
sopra il mare.
Sorella di tempestosa tristezza,
guarda: un impaurito battello affonda
dinnanzi a stelle,
al muto volto della notte.
(Georg Trakl)
E per finire, qui c’è – modestamente – un ritratto che il simpatico, sublime (e a sua volta un po’ bipolare) Francesco Petrarca mi ha dedicato qualche secolo fa (un poeta è anche un profeta, no?), nel senso che a volte mi sento proprio così esplosiva e irrequieta come lui:
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ‘l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ‘l mondo abbraccio.
Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.
Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.
Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.
Una menzione speciale per Guido Gozzano: amo molto le sue poesie e lo spirito che le abita. Quelle che preferisco, però, sono troppo lunghe e non riesco a estrapolarne dei versi mantenendone l’essenza. Però questi versi de La signorina Felicita mi fanno morire… forse perché anche a me non dispiacerebbe un Signorino Felicino:
Tu non fai versi, tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… e non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…
Per essere diligente, le regole esatte sono queste:
1. Scrivere il nome di almeno cinque poeti di ogni tempo e luogo dei quali si è innamorati.
2. Citare alcuni versi significativi di almeno uno dei poeti elencati.
3. In aggiunta o in alternativa al punto 2 citare almeno un PROPRIO componimento poetico, o anche soltanto alcuni versi di esso.
4. Per i veri patiti dell’arte poetica, sarebbe gradito un componimento, anche brevissimo, appositamente creato e pubblicato.
5. Coinvolgere altri bloggers raccomandando il rispetto di queste semplici regole.
Buona poesia a tutti!
Arbusta iuvant humilesque myricae [Un guizzo chiama, un palpito risponde]
Pubblicato: 18 giugno 2007 Archiviato in: libri, poesia 35 commentiUn giorno, in terza media, la mia prof. di lettere, durante una lezione, iniziò a muggire e a fare altri versi più o meno ameni. Non era impazzita, semplicemente riteneva necessario leggere Pascoli in quel modo, sottolineando le onomatopee (prendendolo in giro). Ritenne indispensabile anche parlarci del rapporto tra Pascoli e le sue sorelle, con allusioni di cui non capii niente (capii solo che alludeva e, soprattutto, che odiava il poeta).
Ma mentre la prof. muggiva e gracidava tra le risa dei miei compagni, quelle parole, benché deformate benché straziate, riuscirono a farsi largo fino a una certa zona inesplorata del mio cuore, fino a toccarla, col risultato che quel giorno tornai a casa con tutti i sintomi dell’innamoramento poetico.
Dopo pranzo, anziché guardare il solito programma di cartoni animati (di cui non perdevo mai una puntata), mi chiusi subito in camera col libro di antologia aperto al settore Pascoli. Lessi avidamente tutte le sue poesie contenute nel libro (non certo le migliori del poeta), imparandole a memoria una dopo l’altra, senza alcuno sforzo.
Quello che avevo colto immediatamente fin dalla mattina in classe, e che ora mi si confermava in tutta la sua potenza, era soprattutto questo elemento: quasi tutte le poesie iniziavano con immagini felici, di serenità e tranquillità quotidiana; poi, nel corso della poesia (nel giro di pochi, a volte pochissimi versi) tutto mutava colore, tono, intensità: lentamente o improvvisamente, ma sempre in modo inesorabile e fatale, arrivava la delusione delle aspettative, il crollo delle certezze, lo sradicamento, la perdita, l’abbandono, la morte. Restava, però, di quella gioia, il ricordo, indelebile.
A me, leggendo, batteva forte il cuore perché questo miscuglio di gioia e dolore, queste rapide metamorfosi dell’una nell’altro e il desiderio che almeno qualcosa restasse saldo, rispecchiavano perfettamente il mio stato d’animo dell’epoca. E anche i rapporti familiari così presenti nelle poesie, l’amore e la perdita, il legame e la separazione, rappresentavano bene, credo, ciò che stavo cominciando a vivere rispetto alla mia famiglia e al mondo: da un lato l’esigenza di una maggiore autonomia, dall’altro il desiderio di sentirmi ancora piccola.
Credo che siano stati proprio questi, all’inizio, i nuclei pulsanti che mi fecero innamorare. Oltre al fatto che Pascoli fosse romagnolo (Romagna è ancor oggi la mia bandiera; sarà retorica, sarà melensa o patetica, ma è così) e che le sue poesie fossero popolate di fiori, piante, uccellini, tutti amati, tutti chiamati col loro nome, tutti messaggeri però, nonostante l’apparente normalità, di un mondo altro.
Ora, avevo notato che quasi tutte le poesie dell’antologia erano tratte dal libro intitolato Myricae. Dovevo possederlo immediatamente e corsi in cucina da mia madre per dirglielo.
– Oggi tuo padre è ad Arezzo. Devi aspettare almeno fino a domani – ha risposto lei.
– Fino a domaniii?! Ma non posso resistere, ne ho bisogno. Ti pregooo!!! –
Il problema era che tutte le librerie erano in centro e io, dodicenne, non c’ero mai stata da sola; mia madre non aveva nessuna voglia di uscire, né io intendevo cedere: ero già pronta a buttarmi sul pavimento strillando come un’oca semisgozzata quando mia madre senza dire niente prese Tuttocittà, lo aprì cercando la pagina giusta, mi fece cenno con la mano di raggiungerla e mi indicò dove avrei dovuto prendere l’autobus, dove scendere, come raggiungere la libreria una volta in centro, e come tornare a casa.
– Te la senti? –
– Sì! – (tuffo al cuore, salto di gioia)
E così la scoperta della poesia ha coinciso per me con il mio primo viaggio in centro completamente sola (una sorta di piccola iniziazione).
Andò tutto bene tranne al ritorno, quando mi persi e tornai a casa a piedi (impiegandoci più di due ore), camminando trasognata per il tesoro che stringevo in mano e per l’impresa compiuta.
Da allora e per lungo tempo io e Myricae diventammo inseparabili; leggevo poesie nei momenti di pausa durante il giorno e la sera prima di addormentarmi, dopo le preghiere. Imparai a memoria senza farlo apposta la maggior parte delle poesie. Trascrivevo su un quadernino tutte le parole e gli accostamenti più dolci e musicali che trovavo (altro che i gracidii della prof.) ed era quasi una musica a sé quella che pronunciavo leggendo le parole in quel modo.
Le poesie di Pascoli sono state per me la porta verso la dimensione poesia, una porta che – ho scoperto – a volte resta chiusa anche a chi è comunque un gran lettore, ma di romanzi (le due cose non vanno necessariamente insieme). Se in quel preciso giorno di scuola le sue parole non mi avessero toccato il cuore, forse a quest’ora non sarei una lettrice di poesie.
A voi piace leggere poesie? Oppure vi annoia? Ricordate il primo poeta che vi ha teso la mano per portarvi in quel mondo, come ha fatto Pascoli con me e Petrarca con mia sorella? Oppure gli avete sbattuto la porta sul naso?
Intermezzo lirico
Pubblicato: 8 marzo 2007 Archiviato in: attualità, libri, poesia 18 commentiOggi molte di noi avranno ricevuto o riceveranno un fiore, un bacio, un augurio gentile.
Anche se questa è una festa che a molte dà fastidio, io penso che faccia sempre piacere ricevere un’attenzione in più, anche l’8 marzo. Dico questo perché mi ha molto colpito la reazione inviperita di alcune quando oggi un collega ci ha fatto trovare un piccolo, grazioso rametto di mimosa per ognuna di noi. Per una volta che uno ha un pensiero gentile (lui, poi, non è gentile solo l’8 marzo)…
Io non festeggio questo tipo di ricorrenze (ma accolgo con entusiasmo gli auguri) però, come ho fatto per San Valentino, voglio dedicare alle mie lettrici e anche ai miei lettori (dato che sta anche a voi farci sentire amate e, soprattutto, rispettate) due poesie. Una, scritta da una donna che potrebbe essere un esempio per tutte noi, perché non si è mai lasciata ingabbiare (né dalle imperfezioni del suo corpo, né dai pregiudizi altrui, né dalle mura di un manicomio) pur continuando ad amare appassionatamente la vita e gli uomini; l’altra è una poesia d’amore, dolce e intensa, che un uomo dedica a una donna.
Secondo me infatti la festa della donna va condivisa con gli uomini.
[Chissà perché ci tengo a precisare che non amo le liriche d’amore, che tanto male han prodotto nella nostra cultura, ma oggi non riesco a esimermi, ohibò…]
E quando scende senza luce un velo
E distingue i contorni della sera
Quando si chiude sulla luna il cielo
E quando ogni paura sembra vera
Prendimi se mi vuoi, tienimi dentro,
Restami intorno come una coperta,
Non lasciarmi da solo senza centro
Come una stanza, una finestra aperta;
Fa in modo che non resti più sospeso
Al gancio del dolore, senza fiato
Signora mia mentre mi togli il peso
Di tutti i desideri del passato.
(Riccardo Held)
Ascolta, il passo breve delle cose
– assai più breve delle tue finestre –
quel respiro che esce dal tuo sguardo
chiama un nome immediato: la tua donna.
È fatta di ombra e ciclamini,
ti chiede il tuo mistero
e tu non lo sai dare.
Con le mani
sfiori profili di una lunga serie di segni
che si chiamano rime.
Sotto, credi,
c‘è presenza vera di foglie;
un incredibile cammino
che diventa una meta di coraggio.
(Alda Merini)
Secondo voi queste poesie, tra loro, si parlano? Battibeccano? Vanno a braccetto? Si cercano? Si trovano? Sono come le famose parallele che non s’incontrano mai?
Vi dicono qualcosa? Non vi dicono niente?
In ogni caso, i miei auguri alle donne e un bacio agli uomini che le amano.
P.S.: io il mio regalo più bello, per oggi, l’ho già ricevuto: ho acquistato l’ultimo romanzo dell’amato Ugo Cornia (Le pratiche del disgusto, ed. Sellerio), per merito di una tempestiva segnalazione del lettore Yari, che ringrazio davvero tanto!
Dedicato a Dracula [non il vampiro, un matto. Un amico]
Pubblicato: 16 febbraio 2007 Archiviato in: morte, paura, persone, poesia 26 commentiLa malattia mentale è come la legione straniera; accoglie chiunque, se ne frega della sua identità, gli dà una divisa, lo segue per tutta la vita.
Liberarsi dalla malattia – se uno ci riesce -, ritornare da una terra di nessuno… e accorgersi che per gli altri è sempre ancora lì. Lui è guarito, o almeno domina il suo male, ma tutti continuano a vederlo sempre e solo malato, perché si sono abituati così, poverini, e ci restano male se le cose cambiano.
Perciò nelle discussioni, anche in quelle che lo riguardano, non ha voce in capitolo, perché tanto è pazzo, o meglio “non può capire”, “non sa cos’è meglio per lui”. E il poveretto in questione non può a questo punto tentare di dimostrare la sua sanità mentale, perché come fai a dimostrare di non essere pazzo?
Questo perenne non ritorno cui gli altri ti condannano mi ricorda tanto alcuni cari versi di Cesare Pavese:
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
con l’odore del vino nella calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
Questo schifo di post sconclusionato è per il mio amico Dracula, un matto doc, che ha passato tutta la vita a guardare gli altri dai vetri, ieri si è stancato e si è ucciso. Così con questo tragico atto di volontà forse ha dimostrato, troppo tardi, di non essere un pazzo.
Non ho scritto questa roba per rattristare qualcuno, ma perché capita a tutti di avere paura di fronte ai matti, ai malati di mente, e perfino chi soffre “semplicemente” di depressione spesso è tenuto a distanza come fosse appestato. Non è che un matto non abbia un cuore (in giro c’è perfino l’idea che i matti siano sempre felici come dei bambini – come se i bambini fossero felici, poi – e non si accorgano delle prese in giro e degli sberleffi, o dell’indifferenza). Non è che la malattia mentale sia per forza una condizione permanente, senza variazioni. Nessuna condizione umana è immobile. L’immobilità non appartiene all’essere umano. Le persone cambiano, tutti cambiamo, non riconoscere questa semplice verità (per paura, ignoranza, comodità e non so che altro) ci trasforma in carcerieri di anime. Vogliamo davvero essere dei carnefici?
Ai miei lettori
Pubblicato: 14 febbraio 2007 Archiviato in: poesia 26 commentiDenis de Rougemont, nel suo saggio L’amore e l’Occidente, dedica queste simpatiche parole a Francesco Petrarca:
«Chiunque, anche l’abitatore del più sperduto scoglio battuto dal mare, sa che un uomo è stato superlativamente innamorato: Petrarca. […] Chiamandolo “semplicemente” un uomo innamorato non diremmo nulla: egli lo era in modo straordinario, incendiario, solare».
La riflessione su Petrarca s’inserisce nel più ampio discorso che de Rougemont porta avanti nel suo saggio, e quindi ha, in quel contesto, precise implicazioni.
Ma quello che interessa a noi è la parola innamorato e le qualità che la connotano in questo caso: straordinario, incendiario, solare. Chi non vorebbe provare (ed essere l’oggetto di) un amore spinto a questi livelli? Forse solo un pigro. E così, cari lettori, vi dedico uno dei miei sonetti petrarcheschi preferiti, in cui ardisco intravedere l’essenza dell’amore: non abbandonarsi all’umore altalenante tra i propri “successi” e “insuccessi”, ma concentrarsi solo sull’oggetto del proprio amore, proiettati fuori di sé. Così, anche nella solitudine o nell’angoscia non potremo dirci meno ricchi che nell’appagamento e nella pace, e potremo insomma tollerare questo ennesimo giorno di S. Valentino senza troppi nervosismi (tutta ‘sta pappardella per arrivare qui? Sì!).
Cantai, or piango, et non men di dolcezza
del pianger prendo che del canto presi,
ch’a la cagion, non a l’effetto, intesi
son i miei sensi vaghi pur d’altezza.
Indi et mansüetudine et durezza
et atti feri, et humili et cortesi,
porto egualmente, né me gravan pesi,
né l’arme mie punta di sdegni spezza.
Tengan dunque ver’ me l’usato stile
Amor, madonna, il mondo et mia fortuna,
ch’io non penso esser mai se non felice.
Viva o mora o languisca, un più gentile
stato del mio non è sotto la luna,
sì dolce è del mio amaro la radice.
Vi è piaciuto? Questo sonetto (stavo per scrivere: “questo post”!) di Petrarca rispecchia abbastanza la mia filosofia di vita. E dato che molti (tra cui anch’io, che non ho mai festeggiato S. Valentino né da fidanzata né da sfidanzata) trovano giustamente insopportabile questa giornata, ho pensato che però, al di là delle ricorrenze, parlar d’amore è sempre interessante, e così io con questo post la mia dichiarazione d’affetto e simpatia la faccio a chi mi legge e soprattutto ai commentatori e commentatrici più o meno assidui: mi fa sempre molto piacere leggere i vostri pareri e visitare i vostri blog.
Quindi un bacio a
Diego, che è sempre così puntuale, gentile e spiritoso;
Massimo, l’unico commediorafo esistente al mondo e appassionato ciclista!
Edi, grazie per i tuoi commenti acuti e per i tuoi iniziali (e, chissà, futuri) “rimproveri”.
Higurashi, dal passo leggero.
Giacomino & Trippy, siete irresistibilmente simpatici (buon S. Valentino, voi che potete!).
Melchisedec, per le tue perle di saggezza e la tua dolcezza.
Paolo Ferrucci, per i tuoi commenti e per le cose che imparo dal tuo blog.
MariaStrofa, detentore del blog più divertente, ironico e colto della rete.
Paolo-Lucenellarete, che recupera notizie da tutto il mondo, oltre che dalla sua vita, e ce le offre.
Baggins, che ha un blog degno del suo nick.
Davide, che mi ha confortata quando ho scritto di mia nonna e che mi ha fatto scoprire Cuore di tenebra.
E un bacio a chi mi legge ma non commenta (so che qualcuno c’è…) e a chi lo ha fatto solo di passaggio…
E ora, altro che amore, io corro a iniziare il mio tirocinio, l’ultimo entusiasmante ostacolo prima della laurea (ehm, oltre alla tesi, ancora in alto mare…)! Sono un po’ emozionata. Ciao!
La signorina Felicita e Nietzsche
Pubblicato: 17 gennaio 2006 Archiviato in: poesia Lascia un commentoSon d’accordo con Gozzano: meglio avere al fianco un umarell felice che un intellettuale gemebondo.