L’aria delle lontananze

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Due giornate di viaggio allontanano l’uomo dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai più di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. […] Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità.
(T. Mann, La montagna incantata)

Detto a modo mio: non ti accorgi di avere bisogno di una vacanza finché non sei in vacanza. Era da tre anni che restavo in città tutte le estati, convinta che non sarei stata meglio altrove. Poi, questo agosto, mi sono decisa ad andare a Pesaro, forzandomi enormemente. Solo una volta lì, a un certo punto, mi sono accorta di quanto mi sentissi rilassata, serena e vitale, di come anche i più stacanovisti hanno bisogno a un certo punto di cambiare spazio (almeno per un po’), perché vedere cose nuove o semplicemente diverse da quelle in cui sei immerso tutti i giorni è come dare una rinfrescata al cervello, anche se poi non sei neanche così lontano da casa. Il mio iniziale timore di “perdere tempo” è risultato completamente infondato: ho potuto leggere, scrivere, pensare, studiare molto meglio che nell’afa bolognese; ho camminato e pedalato, ho mangiato e dormito; mi sono goduta i miei momenti di preziosa solitudine ma ho anche trovato un piccolo amabile cenacolo di amici con cui ho potuto conversare e trascorrere ore libere e felici. E mi è sembrato assurdo, ripensandoci, avere passato le precedenti tre estati sempre inchiodata nel pure amabile cemento bolognese. Il mio amico P., quando sono tornata, mi prendeva in giro ridendo come un matto perché secondo lui sono tornata più entusiasta io da Pesaro che non un paio di suoi amici dalla Thailandia (è anche vero che l’entusiasmo non mi manca in generale). Insomma… ricordatevelo: non ti accorgi di avere bisogno di una vacanza finché non sei in vacanza. Anche solo due giorni, una piccola pausa. Per quanto mi riguarda, è bello sapere che anche in inverno, in qualunque momento, potrò “salire in carrozza” e andare a contemplare il mare, che fuori stagione è anche più rasserenante e romantico. Ma, intanto, sono tornata.


Un invito

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(cliccare sulla foto per ingrandirla)

“Il passaggio è aperto
agli amici,
ai pochi non amici,
e anche ai falsi amici.
Conte Andrea Ciacchi
anno 1775”.
Sempre a proposito di case… Spiritoso questo conte, e conoscitore degli uomini. Avessi una macchina del tempo una visitina a uno dei suoi ricevimenti la farei!


Le case degli altri

londonPiù o meno in ogni città si può visitare la casa di qualche “personaggio illustre” del passato. Qui a Pesaro c’è la casa di Rossini. Di case di Mozart vi è un’inflazione (io ne ho visitata una a Praga). Chissà poi se a tutti questi illustri avrebbe fatto piacere sapere che tanti estranei si sarebbero aggirati tra le loro stanze; magari, sapendolo, prima di morire le avrebbero organizzate secondo una precisa intenzione: di burla o invece solennemente autocelebrativa, a seconda del carattere. Un po’ come quando, un paio d’anni fa, il domenicale de “Il Sole 24 ore” chiese ai lettori di inviare alla redazione le fotografie delle loro scrivanie e queste foto – che i lettori inviarono a iosa e, in questo caso, con intenzioni molto seriose nei propri confronti – mostravano quasi solo scrivanie disordinatissime, ai limiti della fruibilità; disordinate ad arte, in base alla diffusa quanto fallace convinzione per cui: disordine = genio creativo. E ci auguriamo che le loro mamme non abbiano visto quelle foto, che poi sono state pubblicate dal giornale. Così io, che non ho il feticismo né delle case né delle scrivanie, sorridendo voglio omaggiare il caro Jack London che, nella testimonianza di Edmondo Peluso, “siccome gli era fisicamente impossibile restare a lungo chiuso, lavorava all’aria. La mattina presto partiva a cavallo. Si portava dietro un macchina da scrivere portatile, una sedia pieghevole, un tappeto e il pasto. Quando aveva trovato un posto che gli piaceva, un prato assolato, o uno spuntone su un canyon dalle pietre multicolori, stendeva il tappeto all’ombra di un eucaliptus, di un cedro rosso o di qualche sequoia gigante. S’imponeva ogni giorno un compito preciso. Schizzava in fretta i punti che intendeva sviluppare e poi, alla macchina da scrivere, svolgeva il tema.”


La ballerina di Charleston

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Il presentatore sul palco si dilunga in un preambolo ampolloso mentre sul fondo del piazzale, alle spalle del pubblico, le tre ballerine fremono nell’attesa: tre gonnelline svolazzano al tamburellare nervoso delle gambe, tre piume oscillano, tre sorrisi si stagliano arditi su tre volti dagli sguardi sfavillanti. Di questi, una gonnellina, una piuma, un sorriso e un paio d’occhi svolazza, oscilla, si staglia e sfavilla una spanna più su.
È il momento: il presentatore si fa da parte, i fari illuminano il palco, la musica attacca: al ritmo vivace del Charleston le tre ballerine, ancheggiando a tempo, avanzano tra le due ali del pubblico indolente (i più sono lì per stare un po’ seduti al fresco, qualunque sia lo spettacolo previsto) e infine salgono sul proscenio.
La scena è tutta loro: sul palco allagato di luce, eseguono la loro complicata coreografia. Due, in perfetta sincronia; la terza, sempre un po’ in anticipo o in ritardo. Risulta goffa perché è alta e grossa: un’Atalanta in mezzo a due silfidi molto convinte.
Sembra uno spettacolo comico e non lo è. Nel pubblico qualcuno ride. A lei però non sembra interessare: il suo sorriso è il più raggiante di tutti e nel suo muoversi scomposto si agita autentico lo spirito del Charleston. Sul palco si esibisce una vera flapper.