Chi se lo può permettere

Ieri, mentre ero in ospedale per cominciare la nuova terapia, guardandomi intorno e lasciando vagare la mente ho pensato che il cinismo è un lusso consentito solo ai sani (di corpo e/o di spirito). Quando stai veramente male, non puoi essere cinico. Non so se ho ragione o torto, ma sono giunta a questa conclusione.


Il favoloso mondo dell’endoscopia

In base a una mia personale teoria pseudomatematica (e in matematica non sono mai stata brava, comunque, ma fantasiosa sì, mettiamola così…), se ti capita una disgrazia puoi anche piangere, ma se te ne capitano due o tre tutte insieme (di media entità, non parlo di tragedie), l’unica cosa saggia è riderci su.
Diciamo che sono reduce da due giorni particolarmente intensi in cui tale teoria ha effettivamente retto.
Ecco dunque la mia personale recente tragicommedia.

Ieri mattina era il fatidico giorno della tanto temuta colonscopia; da quando il mio medico aveva fissato la data (circa quattro mesi fa) il pensiero di cosa mi aspettasse il giorno 28 ottobre 2008 (e anche il giorno prima, per via della pesante preparazione che l’esame richiede) non era più uscito dalla mia mente; anche quando ero concentrata su tutt’altro, in un angolino del cervello lampeggiava ininterrottamente l’avviso: 28 ottobre: colonscopia. Ne avevo già fatta una quattro anni fa ma allora ero ricoverata, ero più di là che di qua, un corpo inerte senza quasi più coscienza, quindi quel vago ricordo non era indicativo.

Dieci giorni fa, come forse ricorderete, avevo trascorso una fruttuosa giornata in compagnia di Erik l’idraulico, a causa del mio water ingolfato. Tutto sembrava risolto e Erik l’idraulico era ormai uscito dalla mia vita quand’ecco che, all’improvviso, il problema si è ripresentato uguale esattamente lunedì, il giorno della preparazione: il giorno in cui, completamente a digiuno, il povero candidato alla tortura endoscopica deve ingerire quattro litri (e non un centilitro di meno) di una purga disgustosa al sapore di mandarino marcio. Senza scendere nei dettagli, capirete che il wc diventa a quel punto un bene primario, lo scopo dell’esistenza, oserei dire. Per cui provate solo a immaginare cos’ha provato la sottoscritta quando il suo wc ha deciso di piantarla in asso proprio nel giorno sbagliato, dopo che in teoria era stato riparato appena una settimana prima.

Comunque tesa alla meta e concentrata sull’esame, sono riuscita in qualche modo a tenerlo in vita mentre nel contempo (ricordiamolo: sempre a digiuno e in preda alla purga) telefonavo disperata a Erik l’idraulico affinché corresse in mio aiuto. Ma Erik l’idraulico era fuori Bologna e tutto quello che ha saputo dirmi era che mi avrebbe telefonato la mattina dopo (la mattina della colonscopia…) per mandarmi eventualmente un suo amico idraulico.

Nonostante tutto, dopo una notte in bianco e innervosita dal fatto che l’ansia per la questione del bagno  andava ormai di pari passo con quella per l’esame, mi sono recata all’ospedale pronta per la tortura. L’idea originaria era di andarci in bicicletta e tornarmene sempre in bici bel bella dopo l’esame, per non disturbare nessuno… ma dato che non mi reggevo in piedi non mi sembrava il caso di pedalare; del resto ci sarà un motivo se sul foglietto dell’ospedale c’è scritto di recarsi all’esame accompagnati. Perciò sono andata con “uno a caso”: mio padre. Il mio corpo era tutto un brivido e un tremito, per la spossatezza e per l’ansia, ma ero anche serena perché contavo sul fatto che mi avrebbero blandamente sedata, come da prassi. Perciò, quando mi hanno chiamata, sono entrata nell’ambulatorio con fare sereno, mi sono sistemata sul lettino secondo le istruzioni dell’infermiera, e mentre stavo lì in attesa pensavo: Ok, adesso mi fanno l’iniezione di Valium e mi calmo. Che stupida a preoccuparmi! Ma quando il medico, una volta arrivato, mi ha salutato affettuosamente e si è subito messo ad armeggiare con gli strumenti della tortura e con il monitor, la mia sicurezza ha cominciato a vacillare.

– Ehm… – ho buttato lì – Adesso mi date il sedativo, vero? –
– No, no, niente sedazione, tanto tu sei forte. –

Nooo! Non sono forte, sono una pappamollaaa! Voglio il Valium!, ho protestato interiormente, limitandomi però a ribattere:
– Veramente sto tremando dalla paura…–
– Sta’ tranquilla e vedrai che non sentirai niente, stellina –, ha concluso lui carezzandomi sulla guancia, e io mi sono rassegnata (per inciso, sono estremamente sensibile al fascino del mio gastroenterologo, come tutte le altre sue pazienti, del resto. Con quella voce e quello sguardo riesce a farmi digerire parecchie brutte cose. E lui lo sa).

L’esame è cominciato e mentre il medico mi rendeva partecipe della situazione invitandomi a osservare il monitor, mostrandomi passo passo tutto ciò che vi appariva (che poi erano le mie interiora) e che lui commentava con grande maestria, io ero intenta, oltre che a guardare effettivamente il mio colon in diretta televisiva, a stringere i denti e ad aggrapparmi con tutte le mie forze alla sponda del lettino: efficace alternativa naturale alla sedazione chimica, atta a impedirmi di urlare per il dolore che a tratti provavo.

Ebbene, proprio nel momento clou, mentre sul monitor sfilava il mio ileo e quando ormai temevo che mi si sgretolassero i denti da quanto li stringevo e non sentivo più le mani, odo squillare il mio cellulare.
Oh, no!, questo è Erik l’idraulico!, ho pensato. Ma ovviamente non potevo rispondere.

Finita la tortura, con esito ben poco bello (sinceramente non me l’aspettavo, uffi!), invece di rilassarmi ero già impegnata a contattare Erik l’idraulico, mentre divoravo un panino col prosciutto che, dopo tre giorni di digiuno, mi sembrava il cibo più buono del mondo. Ferale notizia da Erik l’idraulico: certamente non era un problema del mio wc ma della colonna condominiale, quindi dovevo rivolgermi all’autospurgo (Eeeh? Esiste una cosa chiamata autospurgo?). E qui è iniziata la seconda, grande avventura della giornata, intitolata Il favoloso mondo dell’autospurgo, che mi ha vista a capo di un’intera squadra di autospurgo nonché dell’intero condominio, sotto la pioggia battente e incurante del mio stato di salute. Ma per non tediarvi troppo, questa seconda avventura sarà argomento del secondo e ultimo capitolo di questa tragicomica saga, il prossimo post.

Grazie a tutti per i vostri commenti e gli incoraggiamenti nel post precedente. 


Il silenzio sarebbe d’oro

In questo periodo ricorre il quarto anniversario del mio soggiorno in ospedale, un periodo in cui stavo malissimo ma che non riesco a definire brutto, forse perché quando il corpo si ammala la mente si rinvigorisce, tutta tesa com’è a voler guarire.
Ora, al momento, di questo strano periodo voglio ricordare un “simpatico” episodio.

Il contesto è questo:
ospedale Sant’Orsola di Bologna, reparto congestionato, con 85 letti tutti occupati da anziani molto ammalati e impossibilitati ad alzarsi. Tra costoro ci sono anch’io (definita in reparto “la ragazzina”), che posso alzarmi per andare in bagno ma giaccio perlopiù a letto con:
febbre a +39° ininterrottamente da oltre un mese
forti dolori articolari (il che significa che camminare era un dolore unico)
apparato digerente fuori uso: il che mi aveva portato a perdere 14 chili in un mese (e non avevo nessun bisogno di dimagrire): pesavo 37 kg per 165 cm (che schifoooo!!!)
flebo perennemente conficcata nel braccio.

Vedo comparire una mia amica che gentilmente è venuta a trovarmi. Si siede accanto al mio letto, mi squadra per bene (avevo in un braccio l’ago della flebo e nell’altro braccio l’ago della trasfusione di sangue), poi, dopo un po’ di convenevoli, sospirando dice:

– Sai, vorrei averla io la tua malattia. Almeno riuscirei a dimagrire! – (vi assicuro che parlava sul serio)

Per sua fortuna ero troppo stremata e inchiodata da ben due aghi per poter saltare su e strozzarla, e poi mi sembrava un’uscita così assurda e fuori luogo che il mio senso dell’umorismo ha prevalso sull’indignazione. Però la palma dell’insensibilità non gliela toglie nessuno e, per quanto mi riguarda, almeno finora, nessuno gliel’ha sottratta!


Tutto per benino

Siccome ogni due mesi devo sottopormi a un prelievo di sangue, ormai ho accumulato una certa esperienza nel settore. Oggi voglio soffermarmi sull’interessante relazione “Esami del sangue & Anziani”.

L’Anziano, in genere, è un tipo scrupoloso, soprattutto nei confronti dell’Autorità. Se tale autorità è quella medica, potete star certi che l’Anziano si sentirà ancora più motivato a fare tutto per benino.
Perciò, nel caso debba fare dei semplici esami del sangue, non starà a chiedere al dottore che glieli prescrive se debba fare anche quelli dell’urina; l’Anziano dà per scontato che siano richiesti anche questi ultimi (sempre per il fatto che bisogna fare tutto per benino), sarebbe inconcepibile il contrario, perciò il giorno del prelievo egli si presenterà immancabilmente col suo bel barattolino trasparente ricolmo della sua preziosa urina, nell’80% dei casi assolutamente inutile, in quanto non richiesta.

Oltre a essere scrupoloso, l’Anziano va anche fiero di tutto ciò che produce, quindi anche della sua urina. Onde per cui si presenterà in ospedale con la sua pipì in bella vista nel suddetto barattolino o fialetta. Cioè non fa come me (esagerata, lo so) che, le volte in cui mi è stato richiesto tale esame, sono sempre arrivata col barattolino ben avvolto in dieci strati di carta e plastica, celato in un sacchetto non trasparente e nascosto alla vista di chiunque per essere, al momento giusto, fuggevolmente rilasciato nelle mani dell’infermiera addetta; no, loro lo tengono ben in equilibrio sul palmo della mano e magari ti si avvicinano per chiederti:
– Scusi, Signorina, lei che è giovane, sa mica se bisogna prendere un numerino o chiamano loro? –
e intanto tu (già schizzinosa di tuo, ammettiamolo) ti ritrovi questo barattolino col suo sgradevole contenuto color giallo paglierino (se va bene) a distanza pericolosamente ravvicinata, alle sette del mattino senza neanche aver fatto colazione. E nel frattempo dai una risposta che – quasi certamente – l’Anziano conosce già, ma ha sentito comunque il bisogno di chiedertelo, per maggiore sicurezza.

Poi, sempre per lo scrupolo di cui sopra, l’Anziano arriva regolarmente in anticipo; ma non in anticipo di qualche minuto, in anticipo almeno di un’ora. A quel punto gli sembra giusto non dover aspettare un’ora (logico, no?). Quindi a ogni chiamata ecco cosa succede:

Infermiera: “Numero 14 delle sette e trenta!”

Si fa avanti un Anziano preceduto dalla sua pipì ben in mostra.

Infermiera: “No, signore, lei è il 14 delle otto e trenta, è scritto qui”.

E via così.

Infine, quando finalmente arriva il suo legittimo turno, scatta la lotta suprema: l’Anziano consegna all’infermiera l’impegnativa e il prezioso barattolino. Attimo di silenzio. Poi, nell’80% dei casi, si sentirà la voce dell’infermiera dire:

 – No, signore, l’urina non serviva. Vede che non c’è scritto nell’impegnativa? –

Credete che l’Anziano possa accettare serenamente questo verdetto?
Innanzitutto, l’è impussébel [è impossibile] che non ci sia scritto.
Secondariamente, se anche non ci fosse scritto, sarà il dottore che se l’è dimenticato, anche lui comincia ad avere i suoi anni e poi è sempre pieno di pazienti, gli sarà sfuggito.
Terzo, scritto o non scritto, lui ormai l’ha fatta, non dovrà mica buttarla via, già che c’è

Tale lotta può durare anche a lungo, ma l’Anziano non l’avrà mai vinta. Sarà per un’altra volta.

Come potete capire, mi diverto molto a fare gli esami del sangue, consapevole che tra qualche decina d’anni anch’io sarò una temibile Anziana.


L’amara pillola

E così ingoierò l’amara pillola. Avere un medico così incredibilmente sexy è una vera sfortuna: potrebbe convincermi a sottopormi a qualunque tortura solo obnubilandomi con quella sua espressione maschia e ipnotizzandomi con quella voce bassa e potente e incredibilmente calda e rassicurante. Peccato che probabilmente io per lui non sia altro che un intestino come tanti (malato, per giunta). E poi è un tipo collerico, un po’ come me. Quasi ogni volta si infuria con la sua segretaria e i suoi collaboratori. Anche oggi, urlando come un forsennato, minacciava di licenziarli tutti (“Entro stasera vi sbatto tutti fuori”) scaraventando sul tavolo pile di cartelle cliniche e percuotendo innocenti ante di mobiletti. Ecco, mi piacerebbe essere la sua segretaria e ricevere tali sfuriate. E così mi sono ritrovata fuori dall’ambulatorio con un sorriso ebete sul volto e una pessima notizia ricevuta, della cui portata mi sono resa conto solo dopo, quando, tornando a casa in bici, numerose sferzate di aria gelida hanno risvegliato la mia mente dal suo torpore da infatuamento. Dovrò prendere una schifosa medicina per qualche ANNO. Un immunosoppressore che, se da un lato mi proteggerà dall’infame morbo che mi ha colpito, dall’altro mi esporrà maggiormente ad altre potenziali malattie. E non ho scelta, non ho alternative, prendere o crepare. La malattia non è pluralista, non è democratica, è palesemente dispotica e totalitaria. Ma con un medico affascinante la si affronta meglio, mettiamola così. 


Non tutto il male vien per nuocere

Che bello, sono felice! Non avrei mai pensato di sentirmi così serena e a mio agio in un OSPEDALE, eppure è così! Ieri sono andata per fare la mia periodica flebo, che dura la bellezza di TRE ore, e mentre raggiungevo l’ambulatorio ero felice all’idea di rivedere il mio meraviglioso medico e i suoi due assistenti, che sono non semplicemente gentili, ma affettuosi e amorevoli nei miei confronti. Anche ieri, al mio arrivo, il dottore mi ha dato un bacio sulla fronte, mi ha accarezzato il viso chiedendomi nel frattempo come stavo, e anche il suo assistente, che adoro, ha fatto altrettanto nel vedermi e si è fermato a chiacchierare con me nonostante fosse indaffarato. Mi fanno tanto piacere questi gesti, perché vanno al di là di quella gentilezza formale che ci si aspetta da un medico, sono gesti che non sono richiesti, non sono dovuti, che sicuramente a qualche altro paziente possono dare fastidio, e che a me invece danno una grande gioia e una grande forza, mi piace essergli simpatica e che provino tenerezza per me. Mi piace che tocchino il mio corpo anche per farmi una carezza sul viso, per darmi un bacio e non solo per visitarlo freddamente, mi piace che mi tocchino anche dove non c’è bisogno, perché così viene a cadere quella barriera tra il medico e il paziente, si crea un’intimità che è ciò di cui io personalmente ho bisogno per riuscire ad affrontare serenamente la mia malattia. Ecco perché ogni volta che esco dall’ospedale sono euforica, ho l’adrenalina a mille, è come se assieme a quella flebo mi venisse instillata un’abbondante razione di gioia di vivere! So che può sembrare strano, lo sembra anche a me, e non voglio sembrare irrispettosa nei confronti di chi, forse più malato di me, vive la malattia e l’ospedale con profonda sofferenza e disagio fisico e mentale; quella che racconto è soltanto la mia personale esperienza, quello che vivo nel mio cuore e sulla mia pelle. Ho imparato com’è bello imparare a fidarsi degli altri, a volte a dipendere dagli altri, dai medici, dagli infermieri, dagli amici e parenti che si preoccupano per te, e com’è bello riuscire a ricambiare. E com’è emozionante, e non troppo raro, incontrare medici che si prendono a cuore la vita, e non solo la salute, dei propri pazienti, che mostrano affetto e dolcezza per loro, che non si limitano a curare una malattia, ma si prendono cura della persona. E così mi ritrovo a ringraziare la mia malattia, senza la quale non mi sarei ritrovata a riflettere oggi su come sia bello vivere, su come sia importante amare.


Eccomi

E vabbè, riproviamoci. La prima volta ho lasciato perdere, perché non sono un tipo da blog. Sono riservata perfino con me stessa, dunque l’idea di scrivere parole al vento non mi eccita per niente e pensavo non ci avrei più riprovato… ma ora rieccomi, anche se sicuramente non scriverò tutti i giorni. In fondo, avrò pure ogni tanto qualcosa d’interessante da dire, ma senza obblighi!

Per il momento posso dire di vivere in una condizione di totale euforìa, quasi di ubriachezza, il tutto in seguito a un lungo soggiorno in ospedale durante il quale ho scoperto di avere una malattia autoimmune cronica (anche se in forma molto leggera per cui non dovrebbe crearmi troppi problemi, speriamo!). Può sembrare strano, ma sono felice di avere vissuto questa esperienza, tanto che quasi mi è dispiaciuto essere stata dimessa (non so se si tratti di “sindrome di Pollyanna” o, secondo mio padre, di “sindrome di Stoccolma”, cioè l’affezionarsi ai propri carcerieri; o forse è masochismo puro) perché in questo periodo di sofferenza mi sono trovata ad affrontare sentimenti e situazioni che prima mi spaventavano tantissimo e sinceramente non credevo di avere in me tanta forza d’animo come quella che inspiegabilmente ho tirato fuori. Credevo di essere una “debole” e invece mi sono scoperta davvero forte, resistente, positiva. Prima del ricovero l’ospedale mi terrorizzava, e ancor più mi terrorizzava l’idea di avere una malattia seria; addirittura pensavo che se ciò fosse successo mi sarei completamente lasciata andare. Tutte queste paure si sono realizzate e però non è successo alcun dramma! Ho accettato la cosa, ho scoperto che rispetto alle mie visioni apocalittiche l’ospedale non era poi così tremendo e ho cominciato a provare dentro me una GIOIA profonda, autentica, dirompente. Non certo per l’essermi ammalata, ma… non lo so bene nemmeno io, forse ho scoperto che mi piace vivere. E’ triste pensare che sia stata necessaria la malattia per aiutarmi ad apprezzare cose semplici come riuscire a camminare senza dolore alle articolazioni o semplici cose del genere, però purtroppo è andata così. In ospedale ho spesso pensato a quante volte quando stavo bene mi capitava di lamentarmi, di disprezzare la mia vita… e mi sono ripromessa che non sarò mai più così superficiale, neppure in quelle giornate in cui tutto va storto! Ora sto di nuovo bene, devo solo fare una flebo ogni tanto, e mi godo la vita in un modo incredibile! E mi accorgo anche di avere una felicità contagiosa, riesco a trasmetterla agli altri! Insomma, è cambiato il mio modo di vedere le cose e questo mi fa sentire cresciuta, migliore. Proprio pochi giorni fa sono incappata in questa osservazione di Henry Miller. “La nostra destinazione non è mai un luogo, ma un modo nuovo di vedere le cose”. Be’, chissà, forse anche questo blog mi aiuterà nel mio nuovo cammino!