Pavese o dell’adolescenza
Pubblicato: 9 settembre 2008 Archiviato in: libri | Tags: pavese 18 commentiAltre cose avvennero quel giorno, altri incontri, e la sera mangiammo e bevemmo e girammo il paese sotto le stelle. Ci pensai l’indomani, disteso nudo nella pozza sotto il sole feroce, mentre Oreste e Pieretto sguazzavano come ragazzi. Nell’afa estuosa della buca vedevo il cielo scolorito dal riverbero, e sentivo la terra tremare e ronzare. Pensavo a quell’idea di Pieretto che la campagna arroventata sotto il sole d’agosto fa pensare alla morte. Non era sbagliato. Quel brivido di starcene nudi e saperlo, di nasconderci a tutti gli sguardi, e bagnarci, annerirci come tronchi, era qualcosa di sinistro: più bestiale che umano. […]
Nessuno poteva sorprenderci là dentro, perché le melighe scosse fanno uno scroscio rumoroso. Eravamo sicuri. Oreste, disteso nell’acqua, diceva: – Prendete il sole dappertutto. Diventeremo come i tori.
Era strano pensare di laggiù al mondo in alto, alla gente, alla vita. La sera prima eravamo andati per il paese, al muricciolo della piazza, riscaldati dal vino e dal fresco, e avevamo salutato e riso, incontrato gente, sentito cantare. […] Parole e scherzi sotto le stelle, senza vederci bene in faccia, con una donna, con un vecchio, con qualcuno di noi, mi avevano dato una strana allegria, un senso festoso e irresponsabile, che gli assalti del vento tiepido, il dondolio delle stelle e dei lumi lontani, allargavano a tutto l’avvenire, alla vita.
(tratto da Il diavolo sulle colline)
Come ho già scritto più volte, Cesare Pavese è uno dei miei scrittori più cari. Cosa sarebbe stata la mia adolescenza senza le sue parole che mi suonavano in testa e nelle quali mi riconoscevo tanto? Leggere i suoi libri era come trovare una cronaca di quanto stavo io stessa vivendo. Era una voce amica e più grande. Quando mi lasciavo scarrozzare in scooter o in automobile dagli amici o dal fidanzatino di turno, quando mi sentivo incerta tra la voglia e la paura di provare tutto, non mi sentivo forse come Ginia o come Masino, magari col timore di ritrovarmi poi, in futuro, disillusa come le protagoniste di Tra donne sole? E quando nelle sere d’inverno gironzolavo per le strade del quartiere avvolto nella nebbia, chiacchierando con gli amici prima di tornare ognuno a casa propria, o quando in piena estate mi lasciavo bruciare dal sole in mezzo alla campagna, respirandone l’odore, non rivivevo le stesse sensazioni descritte nei suoi romanzi e nei suoi racconti? Quell’ebbrezza e quella sensualità che animano le pagine de Il diavolo sulle colline erano (e a volte sono) anche mie.
Penso che – tuttora – l’adolescenza sia l’età d’elezione per leggere Pavese. Poi questo amore ti accompagna per il resto della vita. Conosco ragazzi che non amano leggere, ma Pavese lo leggono (l’ultimo in ordine di tempo: mio cugino sedicenne, incontrato proprio tre giorni fa).
Per questo non capisco come mai, negli ultimi anni, quando sento parlare (o leggo) di Pavese, di solito il dibattito verte sulla sua presunta inattualità (è ormai superato, parla di un’Italia che non esiste più eccetera). Be’, non sono un critico letterario, ma questo discorso non lo riesco proprio a comprendere. Allora dovremmo smettere di leggere Dickens, Dostoevskij, Verga o Pirandello? Io no. Io voglio continuare a emozionarmi, e non solo. Trovo che la sua prosa sia dotata di una musicalità speciale: a volte mi piace semplicemente leggere dei brani solo per sentire come suonano, senza neanche badare al contenuto. Mi piace il legame forte con la sua terra, le Langhe, Torino, il Po, il dialetto piemontese usato soprattutto nei racconti. Mi piace sapere che lui sapeva, teorizzava, studiava come voleva scrivere i suoi romanzi, cosa voleva metterci, quali simboli, quali temi. E lo faceva. Ma oltre a questo, non dimenticava mai di metterci tutto se stesso. E si sente.
Pavese uomo-ragazzo, come qui, in quella che potremmo definire una spontanea dichiarazione di poetica:
In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito ricomincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito. Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento […]. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. […] L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.
(tratto da Feria d’agosto)
A me piace anche il Pavese cinico, disincantato (un po’ per posa un po’ sul serio), sbruffone, triste, arrabbiato, deluso e pronto a illudersi di nuovo, delle lettere e dei diari. Perciò concludo questo post con una citazione (che mi fa ridere ma tutto sommato a volte è vera) dal suo diario-zibaldone (Il mestiere di vivere):
Un uomo che soffre lo si tratta come un ubriaco: «Su, andiamo, basta, via, ora basta, non così, basta…»
Nascita di una passione
Pubblicato: 27 luglio 2008 Archiviato in: esperimenti, libri 15 commentiCari amici, scusate l’assenza ma la settimana scorsa per me son cominciate le desiderate vacanze e mi sono data alla pazza gioia, che non contempla l’utilizzo di computer, anzi prevede di tenersene alla larga. Ora, ristabilito un minimo di equilibrio, avrei così tante cose da raccontare che dovrei scrivere dieci post e invece devo partire per il mare, allora racconterò intanto una piccola scoperta fatta ieri.
Dovete sapere che l’estate scorsa, leggendo un bellissimo romanzo di Walter Tevis intitolato La regina degli scacchi, ho cominciato a desiderare di imparare a giocare a questo gioco. A Natale ho ricevuto in regalo una scacchiera e un libro sugli scacchi e ora, finalmente, ho iniziato ad applicarmi (noterete i tempi biblici intercorsi tra la nascita del desiderio e l’inizio della sua attuazione…). Giovedì scorso, grazie a un caro amico che mi farà da maestro, ho giocato la mia prima partita, persa miseramente, com’era ovvio. Ieri, poi, la scoperta: qui a Bologna esiste un negozio (dal nome “Le due torri”, notate l’originalità) interamente dedicato agli scacchi. Scoprirne l’esistenza e recarmici è stato un tutt’uno. Varcatane la soglia, mi è sembrato di entrare in un luogo per pochi eletti; ho curiosato con timore reverenziale tra scaffali pieni di libri e tavoli su cui erano posate numerose scacchiere, alcune bellissime. Sapete che esistono delle scacchiere elettroniche, dotate di programmi raffinatissimi per sfidare il computer? E poi ci sono scacchiere per non vedenti. Il reparto libreria fa spavento: a ogni minima mossa e strategia di gioco sono dedicati saggi su saggi! Per non parlare dei corsi in dvd o per pc.
Imparare a giocare (seriamente) a scacchi è un’impresa terribile. Questa per ora è l’unica cosa che ho realmente capito. Come ho capito che per me – mente poco analitica – non è il gioco più indicato, cosa che mi rende ancor più motivata a impegnarmici (del resto, sarà ora che mi alleni a ragionare).
Mentre ero circondata da quei sacri testi, ho avuto un barlume di buon senso nel quale mi sono chiesta: ma con tutto quello che ho da studiare e da fare, e considerando che nel tempo libero il mio hobby è ancora la lettura, chi me la fa fare di caricarmi volontariamente di un’altra mole di libri (più scacchiera) su cui scervellarmi? Be’, non lo so, ma mi piace. Se diventerò non dico brava ma decente potrò trovare tanti scacchisti con cui giocare.
Nel frattempo, parto per il mare con: i libri da studiare per gli ultimi due esami universitari; i libri da studiare per la tesi; i libri da studiare per gli scacchi; i libri da leggere per piacere. Credo che più che passare l’estate al mare, passerò l’estate nella biblioteca di Riccione!
E poi si profila un altro problema: sempre la casa editrice Minimum fax ha appena ripubblicato un altro famoso libro di Walter Tevis: Lo spaccone, ambientato stavolta nel mondo del biliardo. Naturalmente l’ho subito acquistato e ho appena iniziato a leggerlo, con un certo timore: e se mi venisse il desiderio di diventare anche una giocatrice di biliardo?
C’è qualcuno, tra voi amici, che sia per caso appassionato di scacchi?
P.S.: non ho ancora ringraziato qui sul mio blog Melchisedec che mi ha conferito questo premio:
Io i blog che mi piacciono li ho già segnalati altre volte e non mi ripeto, ma sono molto felice di essere stata premiata da Mel!
Inoltre, come ho annunciato, parto per Riccione; anche da lì potrò usare internet ma, come potete immaginare, molto meno che come da qui, quindi sarò meno assidua sul mio e sui vostri blog. Buone vacanze a tutti!
Salvare il mondo morendo d’imbarazzo
Pubblicato: 31 marzo 2008 Archiviato in: libri 18 commentiAmici, vorrei scrivere ma sono troppo stanca, mi si chiudono gli occhi. Eppure ho tante cose da raccontare, grrr! Be’, due cose le voglio dire. Oggi ho passato tutto il giorno alla Fiera del libro per ragazzi. Tra le altre cose, c’è stata una conferenza stampa per il Festival letterario rivolto ai giovani adulti alla cui organizzazione sto partecipando. Si svolgerà a Rimini dal 20 al 22 giugno (ecco perché, come anticipato in un commento, ogni settimana passo alcuni giorni a Rimini). Stasera ho visto che ne hanno dato notizia anche al tg2! Naturalmente vi terrò aggiornati sui vari progressi e sul programma, nel caso qualcuno fosse interessato, nonché su tutto ciò che di comico o simpatico potrà capitarmi. Chi mi segue da un po’ potrà forse immaginare la mia gioia e il mio entusiasmo quando mi è stato proposto di collaborare. Forse potete immaginare come sono felice di svegliarmi presto al mattino, correre in stazione e partire alla volta di una città che amo, a cui sono emotivamente legata e nella quale ora mi trovo a dover lavorare!
Nel pomeriggio, ho assistito a un incontro con Silvana De Mari e Helga Schneider. Di Silvana De Mari (che sarà presente al nostro festival, così come la Schneider, anche se in momenti diversi) ho già parlato qui e oggi non posso che ribadire quanto ami ascoltarla parlare: è una tipa tostissima, accidenti! Propone idee sempre molto personali (talvolta anche abbastanza sconcertanti, sul momento) con una tale forza, una potenza, ma riuscendo al tempo stesso a non essere presuntuosa. E poi trasmette una grande energia, cosa che avviene anche leggendo i suoi libri. Parlava del genere Fantasy e di come oggi vada molto di moda, forse perché il nostro immaginario collettivo ha bisogno di eroi per opporsi al clima culturale “genocidiario” e mortifero che rischia di soffocarci. Ha esposto le sue argomentazioni con tanta convinzione che io, arrivata all’incontro piuttosto abbacchiata per via di un problemino sentimentale in corso, ne sono uscita baldanzosa e sovreccitata. Mentre lei parlava, infatti, influenzata dalle sue parole ho pensato una cosa del tipo: Ma cosa sto qui a preoccuparmi per queste cosucce quando devo andare a salvare il mondo?! Be’, magari non salverò il mondo ma almeno non starò a piangermi addosso! Mentre pedalavo con forza verso casa mi sentivo davvero un piccolo Davide, pronto a sconfiggere il Golia di turno!
E infine, un’ultima cosa, di cui mi vergogno un po’, anzi molto, ma insomma, aprirla di nascosto da voi che leggete il mio blog mi farebbe sentire in colpa, anche se è un ragionamento poco logico e anche un po’ stupido (del resto non ho mai detto di non essere stupida). Be’, per farla breve, ho dovuto aprire un mio scaffale su anobii. Sono sempre stata contraria a questa cosa (anche se ho visto che molti di voi lo hanno) perché, chissà per quale motivo, mi viene uno strano senso del pudore a mettere in mostra la mia libreria, mi vergogno, insomma, perché penso che dovrebbe restare una cosa mia privata e non una realtà da esibire né tantomeno da usare per competizione tra lettori. Ma le mie colleghe pensano che sia utile aprirci un varco anche lì (dato che buona parte della pubblicità al festival la faremo tramite internet, dovendo raggiungere un pubblico adolescente) e così ho aperto la mia pagina. Però non ho la pazienza di metterci tutti i libri che ho (sono troppi e non ho tempo), così ne ho inseriti un po’ alla rinfusa. Inoltre, inserirò solo quello che ho letto e su cui posso esprimere un giudizio (quello che mi piace di più è scrivere i commenti ai libri, anche se finora non ne ho scritti molti ma rimedierò; tra di essi vi sono ben due dichiarazioni d’amore letterario per Paolo Ferrucci!), perché secondo me è questo il fine di anobii (se proprio vogliamo trovargliene uno): trovare suggerimenti su libri da leggere o confrontare il proprio giudizio con quello degli altri. Non trovo molto sensato riempire intere pagine di libri non iniziati. Nel mio scaffale, i libri che al momento appaiono come tali sono tre o quattro e sono lì perché in procinto di essere letti.
Voi non avete avuto questo imbarazzo nell’esibire le vostre librerie (lo chiedo a chi usa questo servizio)?
Scusate se ho scritto male, noiosamente e di fretta ma sono molto stanca. Buonanotte (anche se leggerete di giorno)!
La cosa bella dei romanzi russi
Pubblicato: 20 gennaio 2008 Archiviato in: libri 38 commentiOgni tanto sento il bisogno di leggere un romanzo russo.
Chissà perché i romanzi russi nella mia testa vengono classificati, prima che per nome dell’autore o per genere, come, appunto, Romanzi Russi, nonostante siano ovviamente tanto diversi tra loro. Cosa che non mi capita – non in modo così automatico – con romanzi di autori inglesi o francesi; il Romanzo Russo mi sembra così lontano e irriducibile (Dostoevskij ne sarebbe felice), scomodo e spaesante quasi come il mitico inverno russo (benché più confortevole).
La cosa brutta dei romanzi russi è che i personaggi hanno dei nomi complicatissimi e delle parentele ancor più complicate, per non parlare del grado che occupano nella società della Russia zarista dell’epoca, così rigidamente stratificata. Ciò comporta, per quanto mi riguarda, la compilazione di schemini finalizzati a ricordarmi chi è e come si chiama ogni personaggio e che ruolo ha. Solo che poi gli schemini, a mano a mano che li aggiorno, diventano più complicati del romanzo e perdo più tempo a raccapezzarmi nello schemino che non a leggere il romanzo.
La cosa bella dei romanzi russi è che nonostante questa difficoltà e anche nonostante una certa irritazione per quei toni affettati che di solito i personaggi (soprattutto gli uomini) usano tra loro (comprese smancerie assurde, salamelecchi vari e sentimentalismi esasperati), la cosa bella – dicevo – è che nonostante tutto ciò, per quanto inizi a leggere di malavoglia, come fosse un obbligo, superati i primi capitoli è difficile che non resti intrappolata. Anzi, in questi giorni in cui ho molto poco tempo per leggere (causa impegni pressanti di studio e lavoro), mi chiedo come posso vivere così tranquillamente senza sapere cosa sta combinando nel frattempo l’impetuosa Nastas’ja Filíppovna dopo la scenata incredibile di ieri (ieri notte – l’idea iniziale era di leggere giusto una decina di paginette prima di dormire… – Nastas’ja mi ha tenuto sveglia fino alle due perché continuava a differire un’importantissima decisione a proposito di un matrimonio) o come se la sta cavando il Principe a Mosca, dove si è recato per questioni di eredità. Per consolarmi, penso con piacere a quell’odioso Ganja che si sta rodendo il fegato e continuerà a farlo finché non aprirò di nuovo il libro e ricomincerò a leggere. E così, una parte di me (quella che preferisco) sta vivendo nella Pietroburgo ottocentesca tra bettole, ubriachi e macchinazioni varie, un’altra è qui davanti al suo modernissimo computer.
Per la cronaca, il romanzo in questione è L’idiota, di Dostoevskij e il mio problema è che sto ormai centellinando i romanzi di Dostoevskij che mi restano da leggere perché mi chiedo come farò dopo, quando non avrò più un romanzo di Dostoevskij da leggere per la prima volta. Mi capite, vero?
L’angelo (alcolizzato) del focolare
Pubblicato: 9 settembre 2007 Archiviato in: crudeltà, libri, mia mamma 29 commentiStamattina, su Repubblica, ho letto la notizia dell’imminente ri-pubblicazione de Il saper vivere di Donna Letizia, manuale di galateo uscito per la prima volta nel 1953 con lo scopo di insegnare le buone maniere alle donne italiane perché restassero, sì, Angeli del Focolare, ma raffinati e al passo con i tempi.
Conosco abbastaza bene la mentalità dell’epoca dato che mia madre, nata nel 1951, si comporta da sempre come se negli anni ’50 avesse avuto vent’anni e da allora il tempo non fosse più passato. Non ho mai ben capito perché sia prigioniera di tale paradosso cronologico, so solo che non c’è niente da fare, bisogna accettarla così ed entrare nella “sua” epoca per comprenderla. Ecco perché, come ho già raccontato qualche mese fa, fin da piccola mi sono sorbita la lettura di tutta L’enciclopedia della fanciulla più i film hollywoodiani anteriori al 1962. Ho provato anche a leggere un romanzo di Delly ma lì non ce l’ho proprio fatta… c’è un limite a tutto.
Credevo ormai di essere vaccinata, dunque, e invece oggi ho riso per mezzora, leggendo a chiunque mi capitasse sotto tiro i piccoli brani che ora vi riporto.
Il primo è dedicato al grosso problema di accasare le figlie che cominciano a inacidire causa età avanzata:
Se, passati i ventitré o i venticinque anni, la ragazza che fino a ieri era un fiore incomincia improvvisamente ad appassire, si fa acida e nervosa, la madre accorta non tarda a “capire”. Capisce cioè che quello che angustia la poverina è il fatto di non aver ancora trovato marito, e che è giunto il momento, per lei, di intervenire. Con estrema discrezione comincerà a darsi da fare: riaggancerà i rapporti con la signora X, che forse non le è simpatica ma ha tre figli in gamba, tutti scapoli. Solleciterà il consiglio e l’aiuto dell’immancabile amica che “conosce tutti”. Spronerà il marito a invitare a teatro il giovane ingegnere Rossi che è povero ma ha una zia ricchissima e zitella, o l’avvocato Bianchi che non è più di primo pelo ma ha una vasta clientela e un appartamento arredato.
Noterete che la figlia non deve fare nulla, si limita a inacidire; è la madre che si dà da fare (e come!) per quell’ebete della figlia, spronando pure il povero marito, e mostrando un cinismo degno di Crudelia De Mon (lunga vita alla zia dell’ingegner Rossi!). L’amore poi, non esiste: cosa volete che sia di fronte a un “appartamento arredato”?
Tra l’altro questa figlia, oltre a non essere in grado di trovare un fidanzato in modo autonomo, non è neanche capace di vestirsi, benché abbia ormai superato i 25 anni (come potrà essere una buona moglie, mi chiedo io, e reggere da sola un’intera casa, allora? Meglio che non si sposi, una tale ebete!).
Leggete qui:
Giustamente persuasa che da una vacanza estiva possa fiorire l’agognato fidanzamento della figlia, la madre previdente prima di decidere la villeggiatura sottopone la sua ragazza a un lucido, spassionato esame. Ha le gambe stortine? Alta un metro e sessanta pesa ottanta chili? Montagna e gonne a campana. Ha le gambe affusolate e un busto da statua? Spiaggia e bikini. Ma anche su questo punto la madre accorta ha idee precise. Il reggiseno del “due pezzi” non avrà le proporzioni di un paio di occhiali da sole e le mutandine non saranno così piccole da potersi confondere con quelle di un neonato. La signorina protesta? Le verrà ricordato che l’immodestia, se attrae i mosconi, mette in fuga i partiti seri.
Sembra una parodia, ma è tutto vero. E c’è ben di peggio, tra l’altro, per es. un bel capitoletto dedicato a come raccomandare il proprio figliolo presso il commendatore di turno (che bel galateo!).
Ora non mi stupisco proprio del fatto che un altro consiglio sia il seguente:
La signora bene attrezzata avrà sempre a disposizione nel mobiletto bar:
una bottiglia di Carpano;
una bottiglia di Campari;
una bottiglia di Martini (secco);
una bottiglia di anisette;
una bottiglia di cognac;
una bottiglia di gin;
una bottiglia di whisky;
una bottiglia di sherry;
una bottiglia di rabarbaro per chi non beve alcolici.
Per vivere una vita come quella, soffocata tra una brillante e nuova cucina americana, qualche perfidia scambiata con le amiche e le peripezie per accasare la figlia lobotomizzata, un goccetto (anche più di uno) la brava casalinga deve pure averlo a disposizione, con la scusa ufficiale di tenerlo pronto per gli amici del marito, certo.
Ora non mi stupisco neanche del fatto che mia madre al posto dell’espressione “trovare un fidanzato” tenda normalmente a dire “accalappiare un tontolone”!
I finali sbagliati
Pubblicato: 13 agosto 2007 Archiviato in: cinema, esperimenti, libri 19 commentiLe luci nel cinema si accesero, i piccoli spettatori cominciarono a vociare allegri infilando giubbotti e cappottini con l’aiuto dei genitori, accartocciando sacchetti vuoti di pop corn.
Un pianto fragoroso e disperato echeggiò per la sala.
Due genitori imbarazzati cercavano di far tacere la bambina da cui proveniva quel pianto, invano.
Il pianto proseguì, senza affievolirsi, anche lungo la strada verso il parcheggio, anche in macchina, finché la piccola non cadde spossata sul sedile, persa in un sonno consolatore.
Quella bambina ero io, il film era la versione restaurata di “Biancaneve e i sette nani” di Walt Disney, il motivo del pianto a dirotto era il terribile finale (ancora oggi lo trovo straziante): la vista di Biancaneve che, in sella al cavallo bianco del principe, reggendosi a lui, salutava felice i sette nani per andare a vivere col principe nel suo castello mi aveva spezzato il cuore.
Insomma, dopo tutto ciò che quei buoni nani, un po’ burberi ma simpatici, avevano fatto per lei, quell’ingrata se ne andava col primo che capitava (va be’, le aveva salvato la vita, ma involontariamente; se lei fosse stata brutta, per es., non l’avrebbe baciata; i nani, invece, l’avrebbero vegliata comunque); in più era sciocca: secondo me era molto più avventuroso ed entusiasmante vivere in una casetta in mezzo alla foresta anziché in un castello pieno di regole e servitù.
Invano, arrivati a casa, i miei genitori cercarono di farmi ragionare e di convertirmi al loro punto di vista (che coincideva con quello disneyano): io restai sempre – e resto tuttora – della mia idea. Da quel momento non ho mai smesso di cercare finali alternativi, di cui vi propongo solo alcuni esempi:
Biancaneve accetta di sposare il principe solo se lui verrà a vivere nel bosco con lei e i nani.
Proprio quando sull’altare sta per pronunciare il fatale Sì, il principe muore.
Si sposano ma poco dopo scoppia una terribile guerra a cui il principe deve partecipare, perciò Biancaneve nell’attesa (che sarà lunghissima perché la guerra è interminabile) torna a vivere nel bosco con i sette nani.
Il principe, se anche torna, torna smemorato e non si ricorda neanche più di avere una moglie, la quale può quindi continuare a vivere con i nani.
Biancaneve sposa il principe e vive con lui nel castello ma fa tanti di quei capricci che alla fine lui la ripudia e lei torna nel bosco, dove ci sono ben sette persone che la amano.
E così via (in ogni caso, mi sembra chiaro che, nella mia mente, Biancaneve non è separabile dai nani).
Problemi analoghi li ho avuti con i finali di parecchi film e romanzi. Attenzione: non mi interessa il lieto fine, ma solo una fine coerente con le mie personali aspettative (delle quali l’autore, poverino, non è certo responsabile).
Per dire: uno dei miei racconti preferiti è La metamorfosi di Kafka; ebbene, lo conosco a memoria eppure sono convinta che finisca con il padre che calpesta barbaramente il figlio-scarafaggio fino a ucciderlo (cosa che ovviamente non avviene: per fortuna, perché oggettivamente in questo caso la conclusione di Kafka è incomparabilmente superiore al mio scenario pulp; eppure nel mio inconscio io sono convinta che il finale sia questo e devo sforzarmi ogni volta per ricordare quello vero).
E “Vacanze romane”? Non sono mai riuscita ad accettare che il giorno dopo la loro giornata di sana follia, la principessa finga di non riconoscere il giornalista [e che giornalista! ;-)] e lui accetti… Inutilmente, in quel caso (avevo 12 anni la prima volta che lo vidi), mio padre citò tutte le leggi dell’estetica cinematografica e letteraria per rabbonirmi e convincermi che un finale diverso sarebbe stato scontato, favolistico e sentimentale… lo accusai di essere senza cuore (pur convenendo dentro me che aveva ragione, s’intende)!
Insomma, ho dei problemi con la fine delle cose, inventate o reali che siano.
E se, per le opere di fantasia, ci si può immaginare un finale diverso, nella vita reale questo non si può fare (o lo si può fare fino a un certo punto). Questa è una delle constatazioni preferite usate da mia madre per scagliarsi contro la lettura, la visione di film o il semplice atto di fantasticare. Non potrò mai essere d’accordo con lei: è vero, nessuna fantasia può essere barattata con la realtà, ma se non avessimo l’immaginazione non esisterebbe neanche la realtà come la conosciamo, sarebbe una cosa così povera e triste che l’unica cosa positiva sarebbe la sua fine (e forse per una volta concorderei con un finale)!
Arbusta iuvant humilesque myricae [Un guizzo chiama, un palpito risponde]
Pubblicato: 18 giugno 2007 Archiviato in: libri, poesia 35 commentiUn giorno, in terza media, la mia prof. di lettere, durante una lezione, iniziò a muggire e a fare altri versi più o meno ameni. Non era impazzita, semplicemente riteneva necessario leggere Pascoli in quel modo, sottolineando le onomatopee (prendendolo in giro). Ritenne indispensabile anche parlarci del rapporto tra Pascoli e le sue sorelle, con allusioni di cui non capii niente (capii solo che alludeva e, soprattutto, che odiava il poeta).
Ma mentre la prof. muggiva e gracidava tra le risa dei miei compagni, quelle parole, benché deformate benché straziate, riuscirono a farsi largo fino a una certa zona inesplorata del mio cuore, fino a toccarla, col risultato che quel giorno tornai a casa con tutti i sintomi dell’innamoramento poetico.
Dopo pranzo, anziché guardare il solito programma di cartoni animati (di cui non perdevo mai una puntata), mi chiusi subito in camera col libro di antologia aperto al settore Pascoli. Lessi avidamente tutte le sue poesie contenute nel libro (non certo le migliori del poeta), imparandole a memoria una dopo l’altra, senza alcuno sforzo.
Quello che avevo colto immediatamente fin dalla mattina in classe, e che ora mi si confermava in tutta la sua potenza, era soprattutto questo elemento: quasi tutte le poesie iniziavano con immagini felici, di serenità e tranquillità quotidiana; poi, nel corso della poesia (nel giro di pochi, a volte pochissimi versi) tutto mutava colore, tono, intensità: lentamente o improvvisamente, ma sempre in modo inesorabile e fatale, arrivava la delusione delle aspettative, il crollo delle certezze, lo sradicamento, la perdita, l’abbandono, la morte. Restava, però, di quella gioia, il ricordo, indelebile.
A me, leggendo, batteva forte il cuore perché questo miscuglio di gioia e dolore, queste rapide metamorfosi dell’una nell’altro e il desiderio che almeno qualcosa restasse saldo, rispecchiavano perfettamente il mio stato d’animo dell’epoca. E anche i rapporti familiari così presenti nelle poesie, l’amore e la perdita, il legame e la separazione, rappresentavano bene, credo, ciò che stavo cominciando a vivere rispetto alla mia famiglia e al mondo: da un lato l’esigenza di una maggiore autonomia, dall’altro il desiderio di sentirmi ancora piccola.
Credo che siano stati proprio questi, all’inizio, i nuclei pulsanti che mi fecero innamorare. Oltre al fatto che Pascoli fosse romagnolo (Romagna è ancor oggi la mia bandiera; sarà retorica, sarà melensa o patetica, ma è così) e che le sue poesie fossero popolate di fiori, piante, uccellini, tutti amati, tutti chiamati col loro nome, tutti messaggeri però, nonostante l’apparente normalità, di un mondo altro.
Ora, avevo notato che quasi tutte le poesie dell’antologia erano tratte dal libro intitolato Myricae. Dovevo possederlo immediatamente e corsi in cucina da mia madre per dirglielo.
– Oggi tuo padre è ad Arezzo. Devi aspettare almeno fino a domani – ha risposto lei.
– Fino a domaniii?! Ma non posso resistere, ne ho bisogno. Ti pregooo!!! –
Il problema era che tutte le librerie erano in centro e io, dodicenne, non c’ero mai stata da sola; mia madre non aveva nessuna voglia di uscire, né io intendevo cedere: ero già pronta a buttarmi sul pavimento strillando come un’oca semisgozzata quando mia madre senza dire niente prese Tuttocittà, lo aprì cercando la pagina giusta, mi fece cenno con la mano di raggiungerla e mi indicò dove avrei dovuto prendere l’autobus, dove scendere, come raggiungere la libreria una volta in centro, e come tornare a casa.
– Te la senti? –
– Sì! – (tuffo al cuore, salto di gioia)
E così la scoperta della poesia ha coinciso per me con il mio primo viaggio in centro completamente sola (una sorta di piccola iniziazione).
Andò tutto bene tranne al ritorno, quando mi persi e tornai a casa a piedi (impiegandoci più di due ore), camminando trasognata per il tesoro che stringevo in mano e per l’impresa compiuta.
Da allora e per lungo tempo io e Myricae diventammo inseparabili; leggevo poesie nei momenti di pausa durante il giorno e la sera prima di addormentarmi, dopo le preghiere. Imparai a memoria senza farlo apposta la maggior parte delle poesie. Trascrivevo su un quadernino tutte le parole e gli accostamenti più dolci e musicali che trovavo (altro che i gracidii della prof.) ed era quasi una musica a sé quella che pronunciavo leggendo le parole in quel modo.
Le poesie di Pascoli sono state per me la porta verso la dimensione poesia, una porta che – ho scoperto – a volte resta chiusa anche a chi è comunque un gran lettore, ma di romanzi (le due cose non vanno necessariamente insieme). Se in quel preciso giorno di scuola le sue parole non mi avessero toccato il cuore, forse a quest’ora non sarei una lettrice di poesie.
A voi piace leggere poesie? Oppure vi annoia? Ricordate il primo poeta che vi ha teso la mano per portarvi in quel mondo, come ha fatto Pascoli con me e Petrarca con mia sorella? Oppure gli avete sbattuto la porta sul naso?
Libri come rockstar
Pubblicato: 10 giugno 2007 Archiviato in: libri 14 commentiFinalmente trovo un po’ di tempo per raccontare una bella esperienza vissuta mercoledì mattina, incentrata – che novità! – sulla lettura. Ma da un’ottica particolare, che come saprete mi interessa particolarmente: adolescenti e lettura.
Mercoledì c’è stata la festa conclusiva del ciclo di letture e incontri con gli adolescenti (terza media e primo biennio scuole superiori) durato tutto l’anno scolastico. Il tema era: nostalgia del futuro. I ragazzi hanno scelto libri all’interno della bibliografia, molto vasta, da noi proposta, votando e commentando su questosito i libri letti. Non si vinceva nessun premio se non quello di vedere il libro amato tra i primi posti in classifica.
Ho provato l’ebbrezza di sedere in un teatro pieno zeppo di ragazzi di 14 e 15 anni che applaudivano e acclamavano con cori e fischi da stadio i loro libri preferiti man mano che questi venivano nominati. I due autori intervenuti all’incontro (Gianni Biondillo e Silvana De Mari) sono stati accolti come rockstar (soprattutto Biondillo, il cui romanzo Per sempre giovane è arrivato primo nella classifica di seconda superiore) e, mentre parlavano, sono stati ascoltati con partecipazione.
Io ho molto apprezzato soprattutto Silvana De Mari (autrice di romanzi fantasy niente affatto banali o “allineati”) che ha fatto un intervento duro, severo, rapportandosi ai ragazzi con grande serietà e schiettezza.
All’inizio ha parlato del suo modo di intendere il fantasy: una letteratura che proprio per il suo essere non realistica facilita l’immedesimazione in personaggi anche molto diversi da noi, stimolando la sfera emotiva del nostro cervello oltre a quella razionale, aiutandole a dialogare tra loro e a vivere, con umana partecipazione, storie che altrimenti rischiano di sembrare lontane, chiuse in mal sopportati libri di storia per esempio. Perché nella sua letteratura (e nella sua sensibilità) il tema centrale è il genocidio. Non a caso i due libri che legge regolarmente ogni anno sono: Se questo è un uomo e Il Signore degli anelli. Vi sembra un accostamento strano? Provate a leggere L’ultimo elfo (che è molto breve) o L’ultimo orco, il suo ultimo romanzo. Oppure, se la lunghezza di quest’ultimo vi spaventa (eppure è un libro che coinvolge e stimola, che parlando di un mondo altro ci parla proprio di noi) vi consiglio un suo breve saggio appena uscito per la casa editrice Salani (Il drago come realtà), sulla letteratura fantastica e sul significato che può avere per noi, esaminato tra l’altro da una prospettiva un po’ particolare, quella neurobiologica (la De Mari di mestiere fa il medico e ciò è tra l’altro evidente nel modo in cui scrive e nel modo scientifico di analizzare le cose).
Apro una parentesi: dato che la platea era composta da adolescenti, ben presto alcuni hanno cominciato a fare domande particolari, alcune delle quali mi hanno colpito: un ragazzo, per es., ha chiesto alla De Mari quanto ha contato l’amore di sua madre e l’amore che lei a sua volta prova per il figlio, nello scrivere le sue opere. Una domanda che normalmente non capita di sentire, rivolta a un autore. Quando l’autrice, rispondendo (e cito esattamente le sue parole) ha detto che lei, «prima di essere medico e prima di essere scrittrice si sente moglie di suo marito, figlia di sua madre e, soprattutto, madre di suo figlio», e questi rapporti verranno sempre prima di tutto, è esploso un boato e un applauso di approvazione così sentito che mi si è stretto il cuore. Esattamente come quando, in seguito, all’interno di un altro discorso, sempre la De Mari ha detto che un genitore che ama un figlio, pur non capendo né approvando magari niente di questo figlio, sarebbe comunque disposto ad attraversare il deserto per portare un bicchiere d’acqua a questo figlio straniero ma amato. Anche qui, applausi e partecipazione (come ogni volta che sono stati sfiorati i rapporti familiari o anche l’amore). Dato che mi trovo spesso a confrontarmi con adolescenti, la cosa non mi sorprende. Ma siccome negli ambienti adulti che mi trovo a frequentare una donna che dicesse le cose che ha detto la De Mari (la quale non è una sprovveduta né una donnetta sottomessa, è un medico che ha lavorato anche all’estero, è tra le più affermate scrittrici contemporanee per ragazzi e inoltre ha un caratterino di quelli che già con un’occhiata ti stende, se vuole) sarebbe guardata con un misto di ilarità e disprezzo, mi commuovo nel vedere che fino a una certa età tutto ciò non esiste, e una persona (uomo o donna) che si presenta non solo per quello che fa ma anche per quello che ama è entusiasticamente apprezzato e riconosciuto/a nella sua completezza (soprattutto, ovviamente, se dice di amare i figli…).
Chiusa questa piccola parentesi che mi stava a cuore, le domande sono state tante, tutte interessanti. Come è capitato anche negli incontri durante l’anno, i ragazzi leggono i libri vivendoli spesso in prima persona, immedesimandosi, usandoli come trampolini per rilanciare le domande esistenziali che si portano dentro; è una lettura ancora molto di pancia, molto emotiva, che forse solo da adolescenti si vive così.
Perché l’adolescenza, diciamo spesso tra noi nel preparare gli incontri, è un’età di per sé pensosa e filosofica. Piena di grandi domande, di cui a volte non è pienamente consapevole neppure chi le ha dentro (eppure, le vive). Gli adulti che non vogliono riconoscere queste domande, che vogliono negarle o aggirarle, commettono un grave crimine, secondo me.
Vedere centinaia di ragazzi giunti da tutta Italia applaudire dei libri che li hanno emozionati mi è sembrato liberatorio e salvifico rispetto anche a certi allarmismi mediatici non del tutto innocenti. A proposito di questo: dopo il rigenerante incontro sono andata al lavoro e mi son messa a correggere le bozze di un fumetto. Volete saperne una? Il mio direttore ha inventato un neologismo: il verbo bullare. Ho letto (nella presentazione di un fumetto): “Il Tal dei Tali viene bullato pesantemente dai compagni di scuola”… :-S
D’ora in poi non saremo più di questa terra, mendace, condominiale, illogica, giovanilista*
Pubblicato: 4 giugno 2007 Archiviato in: la mia città, libri 29 commentiÈ successo che nel post precedente ho scritto che mi è piaciuto un libro e però leggendo il post sembra che il libro non mi sia piaciuto. Cose che capitano. Che poi, in realtà, la prima cosa che ho pensato dopo aver finito il romanzo di Nori è stata questa: sì, devo proprio andarmene da Bologna (e lo farò). È già da un po’ che lo penso, e poi ho letto questo romanzo e mi son detta: Vedi? Anche lui…
Io amo la mia città – ci sono nata – ma non la sopporto più. Troppo grande, caotica, inquinata, sporca e anche degradata.
Sono stanca di spostarmi nel traffico e avere continuamente dei flash nella mente in cui mi vedo spappolata contro l’automobile davanti o falciata da uno scooter in corsa.
Sono stanca di dover scegliere il parcheggio per la bici in base a dove ci sono meno probabilità che me la rubino e non sopporto di dovere usare – per andare in centro – la bici detta Scassona anziché la mia bici sportiva nuova e agile, proprio per evitare che me la rubino (come già accaduto).
Sono stanca di essere sempre assordata dal rumore dei motori quando sono per strada e di respirare il mio gas quotidiano.
Poi sono stanchissima di dover scavalcare punk-a-bestia stravaccati in piazza o sotto il portico davanti a dove lavoro, mezzi nudi e perennemente alienati da droghe, alcool e vita grama (grama dal mio punto di vista ma non dal loro, ché ne vanno fieri. Non sto parlando di poveri ma di sbandati), di dover sopportare le loro molestie fisiche e verbali (alle quali non posso reagire), i loro cani e i loro bisogni. Di dover rispondere No, grazie con un sorriso gentile quando mi offrono droga o bici rubate (perché se no si offendono e rischio le botte, come già capitato, non direttamente a me fortunatamente, che sono sempre comunque gentile).
Sono anche stanca del divertimento coatto “perché gli studenti si devono divertire”, alimentato dal falso ma resistente mito di una Bologna – Paese di Cuccagna e Mecca del comunismo (magari lo fosse ancora, ma non come lo intende la maggior parte di loro, cioè una sorta di anarco-libertarismo senza regole. Purtroppo, a sentire certi discorsi che sento o leggo io anche solo girando per l’università non mi stupisco degli attuali rigurgiti terroristici che partono proprio da qui).
Sono stanca di una città i cui abitanti si sentono infinitamente buoni (abbiamo la bontà nel DNA) e tolleranti e invece non è vero, siam come tutti gli altri.
Poi ci sono anche un sacco di cose belle, bellissime, che potrei dire sulla mia città. Sanità funzionante, per esempio, sperimentata sulla mia pelle. Servizi, biblioteche (tra cui una delle biblioteche pubbliche più belle e fornite d’Italia). Tutte cose a cui non rinuncerò neanche andandomene da qui, dato che sono un essere rigorosamente stanziale e radicato, non riesco a concepirmi a vivere fuori dalla mia regione. A me basta andarmene in provincia, anche solo a Ferrara, o a Reggio Emilia o in Romagna, che amo e conosco bene. Non sarà il paradiso ma un po’ meglio sarà (il mio ideale a dire il vero sarebbe trasferirmi in campagna ma per ora, da sola, non ce la posso fare).
Io ho capito che a me di Bologna ormai piace solo il mio quartiere, tranquillo, verdeggiante e dove ci si conosce un po’ tutti; un piccolo paese, insomma. La mia dimensione è questa. Non sono fatta per la grande città.
Voi siete contenti di dove vivete? O avete il sogno di trasferirvi – un giorno – altrove? Ed è solo un sogno o lo farete? Io aspetto solo di laurearmi. Dopodiché cercherò direttamente lavoro fuori di qui, lascerò quello che ho ora e me ne andrò; così, poi, sarà bello tornare a Bologna per vedere gli amici o i genitori, o per fare un giro non sentendola più così mia. Mio cugino lo ha appena fatto – si è trasferito a Ferrara per gli stessi miei motivi – ed è contentissimo.
*Il titolo è una frase tratta da Storia naturale dei giganti, di Ermanno Cavazzoni. Dato che, come avrete notato dal tono insolitamente lugubre e disperato del post, mi sento un attimo soffocare, mi sento giusto un tantino stretta, questo libro fantastico, surreale, erudito e leggero insieme, spero mi aiuti a scalfire un po’ quel macigno che porto sulla testa. E, a scanso di equivoci, dico: mi sta piacendo tantissimo!
La vergogna delle scarpe nuove
Pubblicato: 2 giugno 2007 Archiviato in: libri 21 commentiHo letto La vergogna delle scarpe nuove di Paolo Nori; l’ho letto tutto d’un fiato, come ogni suo romanzo quando esce. E l’ho trovato molto intenso, ricco di spunti, di situazioni. Ho trovato il suo solito umorismo misto però a molta amara tristezza. Del resto, è la storia di una fine.
Quello che più mi ha colpito è il senso di paternità che emerge fortissimo tra le righe. Questa cosa mi ha molto coinvolta, forse perché di sentimenti paterni se ne parla (ingiustamente) così poco – e quel poco, spesso, così male – che trovarli espressi in modo così forte e, al tempo stesso, pudico, mi ha toccata. Poi c’è lo spaesamento, la separazione, il fare le cose e chiedersi Ma cosa sto facendo?, i segnali che cerchi in ogni dettaglio della vita (o della letteratura) per tentare di opporti o al contrario di assecondare il destino.
Però… però… io non so se questo libro lo consiglierei a qualcuno. Intanto mi chiedo se è “autonomo” o se, letto indipendentemente dai romanzi precedenti, non abbia lo stesso valore. Se uno non sa chi è Francesca e cosa è stata per il narratore, o non conosce com’era il narratore prima di diventare padre (per citare due cose fondamentali), non so se coglie fino in fondo – fino a commuoversi, per esempio – tutte le sfumature di questo ultimo romanzo.
E poi, con Paolo Nori mi succede una cosa strana: io sono convinta di non amare né lui né i suoi libri. Non è un autore che abbia mai consigliato di leggere a qualcuno e non m’ispira simpatia. Eppure, ho letto quasi tutti i suoi romanzi, e li ho letti non appena uscivano, interrompendo magari letture in corso, o togliendo ore al lavoro o al sonno (con la scusa che tanto si leggono in fretta). E me li ricordo tutti bene, per lo più; perciò, come faccio a dire che non mi piace?
Forse sbaglio, ma io associo sempre Nori a Cornia, forse perché sono amici, forse perché li ho scoperti nello stesso periodo grazie al prof. Cavazzoni (di cui sto per iniziare il nuovo romanzo: Storia naturale dei giganti). Chi legge questo blog sa che per Cornia nutro una vera adorazione, nel corso degli anni non solo ho letto e riletto qualunque cosa abbia scritto ma ho acquistato decine di copie dei suoi libri per regalarli ad amici che non lo conoscevano; cosa che, come ho detto, non ho mai fatto con Nori.
Forse i romanzi di Nori li trovo, nonostante le apparenze, molto artificiosi, falsi. Anche questo ultimo, non mi ha commossa, avrei voluto emozionarmi, non ci sono riuscita, o meglio ci sono riuscita fino a un certo punto, poi l’ho trovato troppo costruito e mi è parso falso (un dubbio, questo, che alla fine del romanzo lancia anche il narratore). Non so se vi è mai capitato di leggere un romanzo e pensare che l’autore si autocompiace un po’ troppo, che vi sta prendendo in giro, che se la ride alle vostre spalle…
Poi, voglio togliermi una soddisfazione: finalmente, in questo romanzo, il narratore (che qui si fonde proprio con l’autore, direi) sbotta contro tutti quelli che ne copiano stile e linguaggio. Allora, è vero che, come accade con qualunque autore abbia uno stile molto personale ed espressivo (ma con Nori il fenomeno è praticamente automatico, io stessa mi sto imponendo di scrivere nel mio solito modo perché invece mi verrebbe naturale scrivere questo post a modo suo) è vero – dicevo – che dopo averlo letto o mentre lo si legge viene voglia di scrivere come scrive lui, ma trovo che questo sia insopportabile (e lo pensa anche lui, a quanto pare). È da tempo che noto che ci sono parecchi autori ma soprattutto bloggers che scrivono come Nori… e mi viene un nervoso tremendo, perché è proprio una scopiazzatura. Meno male il nervoso viene anche a Nori (che poi, non è che quello stile lo abbia inventato lui di sana pianta, eh? Solo che lui, a differenza degli scopiazzatori, riconosce tranquillamente a quali autori si è ispirato).
Alla fine, insomma, tutto sommato io questo libro lo consiglio, sì, credo proprio valga la pena leggerlo.