Perdermi m’è dolce in questa mappa

La premessa è che io sono un essere umano sprovvisto di orientamento né mi è mai interessato di migliorare tale lacuna perché vivo benissimo così, come vivevo benissimo miope e senza occhiali. Mi piace perdermi, è il mio modo di muovermi e anche il mio modo di visitare i posti, le città. Anche perché “tutte le strade portano a Roma” è il mio motto, la cui veridicità è confermata dalla mia esperienza: riesco sempre a raggiungere la mia meta anche andando un po’ a casaccio, cioè basandomi sulla direzione, come i pionieri nel vecchio West, di cui in effetti sono una fan. Il mio livello di perdizione è tale che non sono capace di orientarmi nemmeno con una cartina in mano, anzi di solito è proprio con la cartina che mi perdo di più; ho grossi problemi perfino col “Tuttocittà” e ce ne vuole a non saper leggere bene le piantine del “Tuttocittà”, lo so. Non consigliatemi il navigatore perché mi muovo in bici o a piedi e perché, appunto, perdermi e brancolare per lande sconosciute non mi dispiace affatto. Credo che tutto ciò rientri in quel lato del mio carattere che si è formato – come normalmente accade – attorno ai due anni d’età e tale mi è rimasto: il mood del Voglio Fare a Modo Mio.

Pertanto, non mi ci vedevo molto bene con bussola e cartina, a praticare Orienteering (cos’è e cosa non è – per es.non è una caccia al tesoro – lo trovate qui e nei link in rosso nella suddetta pagina). Però oltre a essere curiosa, da poco più di un anno conosco colui che, per rispettare la sua privacy, chiameremo il Capo (dell’Orienteering), una persona molto simpatica e soprattutto molto tenace (e paziente) quando si tratta di Orienteering; essendomi affezionata a lui ho cominciato a vedere di buon occhio anche il suo sport. Meno male non ho conosciuto un esperto di bungee jumping o lotta libera se no a quest’ora mi starei lanciando da un picco o medicando un occhio nero; della serie “Zelig mi fa un baffo”. Un po’ per questo ma soprattutto perché la mia amica Anto voleva provare, ecco che venerdì pomeriggio ci siamo ritrovati ai Giardini Margherita in tre amiche più lui, il Capo, e un suo collaboratore, per un giretto di prova. Io addirittura mi son trovata in mano, oltre alla cartina del Parco, non una ma ben tre bussole, e a parte un primo brividino di disagio non ho fatto una piega. Anzi, sarà che eravamo tra amici, sarà che i parchi sono il mio locus amoenus assoluto, ma dopo un po’ che sgambettavamo ho cominciato a familiarizzare coi segni della cartina (tutte le cartine di Orienteering utilizzano segni convenzionali che sono gli stessi in tutto il mondo e quelli che ho imparato per primi sono: un cerchietto verde indica un albero isolato; un cerchietto azzurro indica un oggetto particolare, per es. un cestino della spazzatura; un ovale verde scuro indica un tratto di vegetazione non attraversabile, per es. un cespuglio. Lo dico perché da allora quando cammino per strada non vedo più cestini o alberi ma solo cerchietti azzurri o verdi). Auto-osservando la mia mente nel suo essere messa al lavoro su questa esperienza nuova, mi ha sorpresa il modo in cui da un iniziale caos e disorientamento nel cercare di riscontrare una corrispondenza tra il paesaggio concreto che mi circondava e dei simboli astratti sulla carta, a poco a poco e grazie alle spiegazioni del Capo tutto ha cominciato a chiarificarsi e appunto quel cerchietto sulla carta era evidentemente quell’albero alla mia sinistra e così via. Già il giorno dopo mi veniva spontaneo leggere il paesaggio traducendo ciò che vedevo in simboli, secondo la legenda appresa il giorno prima.

Altri motivi per cui tutto sommato questo sport comincia a interessarmi si ricollegano direttamente a quel mio Voglio Fare a Modo Mio. Questo è uno sport che puoi viverti un po’ come ti pare. Hai un percorso prescritto e devi arrivare al traguardo essendo passato per tutti i punti segnati sulla mappa che ti viene consegnata alla partenza, ok: ma il tuo percorso, intanto, non è uguale a quello dei concorrenti che partono prima o dopo di te (per non condizionarsi o copiarsi lungo la gara): è il tuo e te lo devi risolvere tu; cercare di seguire o imitare gli altri può essere solo dannoso. Inoltre, sulla cartina sono segnati i traguardi intermedi (contrassegnati nel percorso dalle lanterne – degli affari bianchi e arancioni con attaccato il punzonatore che serve per marcare sulla propria mappa o cartellino il passaggio per quel punto) e la sequenza da rispettare, ma il percorso per raggiungerli lo scegli tu, leggendo la mappa e il terreno e ragionando su quale sia la via più efficace, che non sempre è quella apparentemente più breve. Non solo: puoi gareggiare con spirito di agonismo, per vincere, e allora correrai a testa bassa tra un punto e l’altro, senza fare caso al paesaggio nel quale ti trovi; ma puoi anche decidere di viverti la stessa gara in modo rilassato, soffermandoti lungo il percorso ad ammirare un panorama, a chiederti il nome di un albero o a spiare un cerbiatto nel bosco. Insomma sei libero. Ecco perché, nonostante l’iniziale diffidenza, le mie barriere hanno cominciato a cedere. Anche le mie amiche si sono entusiasmate e il 18 novembre ci iscriviamo alla gara di Bologna. Armate di mappe cercheremo di orientarci nel centro storico della nostra città, e sarà curioso esplorarlo in un modo diverso da quello con cui solitamente calpestiamo quelle strade e quei marciapiedi. Ho già comprato la mia bussola. Io, l’esperta del disorientamento, ora sono fiera detentrice di bussola…

Eccomi qui immortalata nel mio momento preferito: il punzonamento! In mano ho la mappa e quel “coso” a cui è attaccato il punzonatore è la “lanterna”.

Che questo sport mi conquisti o resti solo un passatempo cui dedicarsi ogni tanto, per l’ennesima volta devo riscontrare quanto bene faccia alla mia mente il provarsi in esperienze nuove per il semplice fatto che siano nuove, ignote, inesplorate. Siccome sono un tipo abitudinario faccio sempre una gran fatica a lanciarmi in qualcosa che non conosco… ma non mi è mai successo di tornare pentita, dopo, perché anche quando mi butto e le cose vanno male o la novità non mi convince, ne esco sempre con la soddisfazione di avere imparato qualcosa; anche dagli errori. Uno dei miei obiettivi è proprio quello di mettermi alla prova ancor più di quanto stia comunque già facendo (è da un po’ che ho iniziato a perseguirlo e realizzarlo) perché sono davvero sempre più convinta, con Antonio Scurati, che oggi “l’esperienza è la nuova forma di indigenza”. E invece fare esperienza non è niente più e niente meno che vivere. Se poi l’esperienza la fai con i tuoi amici o attraverso essa ne scopri di nuovi, il tutto è ancora più bello, la vita è ancora più vita.


A zonzo

Da alcuni giorni ho finalmente – sempre buona ultima, eh? – una macchina fotografica digitale. Così posso farvi vedere (giusto ogni tanto, tranquilli!) i “miei” posti. Quelli dove adoro andare a zonzo, camminare per ore, e i posti che ancora non conosco ma che vedrò. L’unico problema è che secondo me non sono ancora molto abile a fare foto, cioè non come lo sono alcuni tra voi, ecco. Ma intendo esercitarmi e diventare brava! Quindi non preoccupatevi, posso solo migliorare. Ecco tre scatti dal mio piccolo “Eden” vicino a casa.

Finalmente i ghiacci si sono sciolti e sono comparsi i primi fiori a colorare il mondo:

Mi piacerebbe molto vivere in una città attraversata da un fiume; per ora mi accontento del piccolo fiume che scorre vicino casa e dà il nome al mio quartiere (Savena):

DSC00222(1)Come Alice non posso resistere; adoro perdermi tra i sentieri più o meno conosciuti:

DSC00227(1)Be’, adesso quando scrivo che ho passeggiato nel parco sapete dove immaginarmi.


Nascita di una passione

Cari amici, scusate l’assenza ma la settimana scorsa per me son cominciate le desiderate vacanze e mi sono data alla pazza gioia, che non contempla l’utilizzo di computer, anzi prevede di tenersene alla larga. Ora, ristabilito un minimo di equilibrio, avrei così tante cose da raccontare che dovrei scrivere dieci post e invece devo partire per il mare, allora racconterò intanto una piccola scoperta fatta ieri.
Dovete sapere che l’estate scorsa, leggendo un bellissimo romanzo di Walter Tevis intitolato La regina degli scacchi, ho cominciato a desiderare di imparare a giocare a questo gioco. A Natale ho ricevuto in regalo una scacchiera e un libro sugli scacchi e ora, finalmente, ho iniziato ad applicarmi (noterete i tempi biblici intercorsi tra la nascita del desiderio e l’inizio della sua attuazione…). Giovedì scorso, grazie a un caro amico che mi farà da maestro, ho giocato la mia prima partita, persa miseramente, com’era ovvio. Ieri, poi, la scoperta: qui a Bologna esiste un negozio (dal nome “Le due torri”, notate l’originalità) interamente dedicato agli scacchi. Scoprirne l’esistenza e recarmici è stato un tutt’uno. Varcatane la soglia, mi è sembrato di entrare in un luogo per pochi eletti; ho curiosato con timore reverenziale tra scaffali pieni di libri e tavoli su cui erano posate numerose scacchiere, alcune bellissime. Sapete che esistono delle scacchiere elettroniche, dotate di programmi raffinatissimi per sfidare il computer? E poi ci sono scacchiere per non vedenti. Il reparto libreria fa spavento: a ogni minima mossa e strategia di gioco sono dedicati saggi su saggi! Per non parlare dei corsi in dvd o per pc.

Imparare a giocare (seriamente) a scacchi è un’impresa terribile. Questa per ora è l’unica cosa che ho realmente capito. Come ho capito che per me – mente poco analitica – non è il gioco più indicato, cosa che mi rende ancor più motivata a impegnarmici (del resto, sarà ora che mi alleni a ragionare).

Mentre ero circondata da quei sacri testi, ho avuto un barlume di buon senso nel quale mi sono chiesta: ma con tutto quello che ho da studiare e da fare, e considerando che nel tempo libero il mio hobby è ancora la lettura, chi me la fa fare di caricarmi volontariamente di un’altra mole di libri (più scacchiera) su cui scervellarmi? Be’, non lo so, ma mi piace. Se diventerò non dico brava ma decente potrò trovare tanti scacchisti con cui giocare.
Nel frattempo, parto per il mare con: i libri da studiare per gli ultimi due esami universitari; i libri da studiare per la tesi; i libri da studiare per gli scacchi; i libri da leggere per piacere. Credo che più che passare l’estate al mare, passerò l’estate nella biblioteca di Riccione!

E poi si profila un altro problema: sempre la casa editrice Minimum fax ha appena ripubblicato un altro famoso libro di Walter Tevis: Lo spaccone, ambientato stavolta nel mondo del biliardo. Naturalmente l’ho subito acquistato e ho appena iniziato a leggerlo, con un certo timore: e se mi venisse il desiderio di diventare anche una giocatrice di biliardo?

C’è qualcuno, tra voi amici, che sia per caso appassionato di scacchi?

 

P.S.: non ho ancora ringraziato qui sul mio blog Melchisedec che mi ha conferito questo premio:e33e8e7ca500a6f45aad74264a104755

Io i blog che mi piacciono li ho già segnalati altre volte e non mi ripeto, ma sono molto felice di essere stata premiata da Mel!

Inoltre, come ho annunciato, parto per Riccione; anche da lì potrò usare internet ma, come potete immaginare, molto meno che come da qui, quindi sarò meno assidua sul mio e sui vostri blog. Buone vacanze a tutti!


Felicità familiare

Oggi al telefono mi hanno chiesto quanto il dentifricio Tal dei Tali contribuisce, da uno a dieci, alla felicità della mia famiglia.
Sì, hanno detto proprio così, la felicità familiare può dipendere anche (secondo loro: soprattutto) dal dentifricio utilizzato per lavarsi i denti.
Ho visualizzato un attimo la mia famiglia, composta perlopiù da persone particolarmente nevrotiche, isteriche e talvolta sgarbate, soprattutto di questi tempi, e ho pensato che forse dovremmo cambiare dentifricio.


Istruzioni per rendersi infelici

Avete mai letto Istruzioni per rendersi infelici, di Paul Watzlawick? È un simpatico librino che spiega in modo umoristico alcuni meccanismi psicologici in cui a ognuno di noi capita di incappare nella vita di tutti i giorni e suggerisce anche alcuni esercizi per rendersi infelici, appunto. Per esempio:

Sedetevi in una comoda poltrona, tenete gli occhi chiusi; concentrate la vostra attenzione sulle vostre scarpe. Ben presto vi accorgerete di quanto scomodo sia portare delle scarpe. Per quanto comode vi sembrassero finora, comincerete a sentirle strette in qualche punto e immediatamente diverrete consapevoli di altri fastidi, come bruciori, sfregamenti, dita ricurve, caldo o freddo e cose del genere. Esercitatevi finché il portare scarpe, cosa finora ovvia e banale, divenga per voi particolarmente spiacevole. Acquistate poi delle scarpe nuove e notate come esse, che in negozio calzavate alla perfezione, divengano dopo un po’ scomode quanto le altre. 

Tutti converrete, credo, che un simile esercizio può avere infinite variazioni, tutte quelle che la nostra mente stuzzichina può partorire… io ormai sono un’esperta (modestamente, è da anni che mi alleno e non solo su questo esercizio…).
Ieri sera, per esempio, ho trovato per caso una nuova variante.

Dovete sapere che quando, verso mezzanotte, mi apprestavo a concedermi il meritato riposo, proprio mentre sbrigavo gli ultimi riti pre-sonno nella casa ormai silenziosa, mi è parso di udire come un rumore in sottofondo, una sorta di vibrazione continua e fastidiosa.
Non riuscirò mai ad addormentarmi con questo rumoraccio!, mi son detta con disappunto. A un certo punto, a forza di ascoltare, non sapevo più se il rumore c’era veramente o se nel frattempo era finito ma le mie orecchie continuavano a sentirlo. Perciò ho aperto la porta della mia camera e ho chiesto ai miei genitori, che si erano coricati da poco e avevano spento la luce del tutto ignari di qualunque rumore, con mio padre già in procinto di russare:
– Ma non sentite anche voi questo rumore di fondo? –
– No, che rumore? – ha risposto mia madre con voce assonnata (la risposta di mio padre è stata un mugugno).
– Ma non sentite? Una vibrazione… – ho insistito io.

Silenzio. I due ascoltano.

Poi…

– Ma sì, lo sento! Non salterà mica per aria la casa? – ha esclamato mia madre (la cui preocuppazione, qualunque minima cosa accada, è sempre questa) e poi, rivolta a mio padre:
– Mario, vai a controllare! -.
– Ma cosa controllo… E poi non c’è nessun rumore… Ah, no… Aspetta… Sì sì, lo sento anch’io! -.

E fu così che nessuno riuscì più a prendere sonno…


Il fiore della felicità

Cari amici, questo povero blog è rimasto abbandonato per quasi due settimane perché la sua scribacchina è stata letteralmente risucchiata in un vortice di incombenze, faticose però piacevoli (dato che amo quello che faccio), ma che si sono impossessate di tutto il mio tempo e un po’ anche della mia anima, perché non avevo quasi il tempo di pensare (se non in modo strumentale) o di interrogare me stessa. Che brutto quando succede così, sembra di vivere come automi. Per fortuna ora sono di nuovo in possesso di me stessa.

Mi siete mancati!

Be’, con tutto quello che mi è capitato di bello e di brutto, potrei scrivere tante cose ma cominciamo con una disavventura ridicola, anche se mi ha temporaneamente gettato nello sconforto.

Dovete sapere che ogni tanto mi cade il cielo sulla testa (suona un po’ megalomane ma l’impressione è quella). Non è una cosa a cui si possa fare del tutto l’abitudine, quindi ogni volta mi sento un po’ spaesata; se ci sono poi anche dei motivi oggettivi per cui sentirsi oppressi da questo dolore che ti piomba addosso, si è disposti anche ad abbassare le difese abituali, pur di trovare un po’ di pace. Perciò mercoledì scorso, vagando con la mia bici in preda all’angoscia mi è venuta una delle idee più nefaste che mi abbiano mai visitato in simili circostanze: entrare in un’erboristeria (dovete sapere che sono non semplicemente scettica ma direi ostile all’omeopatia). Non so cosa mi sia venuto in mente, credo sia stato perché proprio qualche giorno prima il mio amico del cuore mi aveva detto di aver provato certi intrugli erboristici e io sono propensa a prendere in grande considerazione le esperienze degli amici. Be’, ho visto che il negozio era semivuoto e, approfittandone, sono entrata, mascherando disagio e diffidenza. Quello che mi ispirava era il disordine che avevo adocchiato da fuori; sembrava più il laboratorio di un alchimista o l’antro di una strega: tutto era ammassato alla rinfusa (cosa insolita per un’erboristeria e per un negozio in generale), aprendo la porta avevo rischiato di far crollare una pila di scatoloni e l’erborista era seminascosta da altri scatoloni e al momento non poteva neanche guardarmi, intenta com’era a reggere boccetti in precario equilibrio su uno scaffale già zeppo di altri boccetti e scatoline.

Cercava nel contempo di placare una cliente che aveva involontariamente offeso proponendole una crema contro le rughe; costei strepitava di non sapere cosa farsene di una crema antirughe, non ne aveva alcun bisogno, aveva solo chiesto una crema idratante per il viso, non un’antirughe (in effetti – pensavo osservandola – non poteva fare assolutamente niente per quei solchi – altro che rughe! – che aveva in viso); la cosa andava per le lunghe e io avevo il terrore che entrasse qualche altro cliente che avrebbe ascoltato la mia richiesta, quindi sono intervenuta (l’erborista stava ormai soccombendo) dicendo alla vecchia che le creme antirughe servono per prevenire e che anch’io le uso già alla mia età (balla colossale).
– Su quel bel visino? – ha chiesto la signora con diffidenza;
– Certo, visto che risultato? – (eh eh, mi vedevo già testimonial pubblicitaria al posto di qualche super modella… perché io valgo, voi valete, noi valiamo ecc.)
La vecchia ha comprato la crema (be’, tanto una crema voleva comunque comprarla, non ho corrotto nessuno, no?) ed è uscita di scena.

Proprio quando la negoziante, riconoscente, si è accostata per servirmi, ecco che la porta si è aperta e sono entrate ben due clienti.
– Che cosa desidera, signorina? -, mi ha chiesto quella, con voce flautata.
– Ehm… be’, insomma… qualcosacontroglieffettidell’ansia -, è stata la mia risposta, semi-sussurrata.
– QUALCOSA CONTRO L’ANSIA?-, ha urlato di rimando lei.

Cosa urla, non c’è bisogno di urlare, pietà!, ho pensato arrossendo e intanto ho biascicato qualcosa come:
– Contro l’ansia non credo esista, contro le sue conseguenze fisiche forse sì; ricordo che mia sorella usava delle gocce di valeriana, di biancospino, vorrei una cosa così -.
Mi sentivo veramente stupida perché un conto è crederci, ma fare una cosa in cui non hai fiducia e verso la quale sei normalmente scettica e diffidente è davvero poco sensato.
Invece di prendermi ‘sta benedetta valeriana l’erborista ha cominciato a farmi domande.
– Non è niente di grave, signora, vorrei solo sapere se è possibile calmare il cuore quando te lo trovi dappertutto anziché al suo posto, ma se non si può, sto bene lo stesso, davvero! -.
Ormai ero violacea dalla vergogna e il cuore poveretto nel suo peregrinare doveva evidentemente aver trovato una temporanea via d’uscita dal mio corpo perché non lo sentivo più, neanche in un angolino del tallone, per dire.
– Qui ci vuole Emergency! – ha strillato quella, e frugando tra una montagna di scatoline sul bancone ne ha estratto trionfante un boccetto minuscolo. Conteneva un miscuglio di cinque Fiori di Bach, mi ha spiegato.
Ora, posso anche tollerare l’idea che cose come la camomilla o il biancospino possano calmare il nostro fisico ma l’idea che esistano degli intrugli a base di fiori che magicamente vanno a influire su degli stati mentali mi sembra un’assurdità bella e buona. Ma lei insisteva, c’era gente che aspettava, mi vergognavo, alla fine li ho presi, volevo solo fuggire di lì. Giusto così, per dirne una, ho chiesto se potevano avere effetti collaterali o interagire con medicinali e lei sorridendo divertita mi ha detto che semmai non facevano niente (“Cosa vuole, dei fiorellini sciolti in acqua, non si sa neanche se agiscono sul serio”), quindi nessun effetto collaterale.

In pratica, lei stessa ha ammesso che si tratta di acqua fresca

Uscita di lì, mi sono fermata in un angolino poco visibile e mi sono sparata la mia dose di fiori sotto la lingua; be’, non è proprio acqua fresca, è Brandy. Mi è rimasto in bocca questo sapore alcolico che mi ha fatto venir voglia di affogare i dispiaceri nell’alcool ma dovevo andare a un seminario, non mi sembrava il caso di arrivarci brilla.

Poi, arrivata a casa, ho controllato ognuno di quei cinque fiori, per curiosità; ecco alcune tra le indicazioni:
paura di avere la mente sovraffaticata e di perdere la ragione; di fare cose terribili e non volute, che tornano in mente e si ha impulso a commettere.
Per i sognatori, gli “addormentati” e quelli che non sono mai completamente svegli. Tranquilli, poco felici del presente, vivono nel futuro, coltivando la speranza di un tempo felice in cui i loro ideali si realizzeranno. C’è chi vorrebbe morire perché spera in un’esistenza migliore o di ritrovare una persona cara.
Rimedio di soccorso urgente, anche quando sembra vana la speranza. In incidente o malattia improvvisa; quando il malato è spaventato, terrorizzato; se la sua gravità procura grande paura in chi gli è intorno.

Ho sottolineato quello che mi ha più offeso. Sì, mi sono offesa, mi sono offesa anche col mio amico che riteneva che non ci fosse niente di strano in quelle indicazioni e che quella roba facesse al caso mio. Se vi sembra serio proporre alla gente della roba del genere…

La boccetta di brandy è finita immantinente nella spazzatura.

Sapete cosa mi ha poi aiutato veramente a stare meglio? Mangiare una pizza con i miei genitori (grazie a mio padre che si era accorto che stavo per esplodere) e il giorno dopo entrare nel mio bar preferito, concedermi una colazione faraonica a base di bignè al cioccolato e cappuccino preparato con affetto dal barista che ormai mi conosce e il cui sorriso (unito a caffè e dolci vari) mi rimette al mondo.

So che invece alcuni tra i miei amici lettori hanno preso o conoscono questi fiori di Bach. Ditemi come potete credere a quella roba. Non pensate che eventuali risultati siano solo un puro effetto placebo? Per me è una presa in giro colossale, un’offesa al buon senso (oltre che al portafoglio). Non esiste il fiore che ti risolve i problemi, è già difficile con gli psicofarmaci. Mi sembra offensivo anche per chi ha seri problemi d’ansia pensare che la soluzione sia così semplice. Non si scherza con le cose serie…

Per quanto mi riguarda, sarà già tanto se d’ora in poi riuscirò a bere una camomilla. Con le erboristerie ho chiuso (non che avessi mai veramente “aperto”…). Torno alla filosofia antica (io mi curo con quella).


L’ignoto che avanza

La mia è una famiglia di canterini. Siamo in quattro e ognuno ha l’abitudine di canticchiare i suoi motivetti preferiti mentre svolge le proprie attività. Tra questi non c’è la musica lirica eppure oggi, per ovvii motivi, girando per casa passavo da mia mamma che cantava La donna è mobile mentre puliva il piano cottura a mio padre che si esibiva nel Nessun dorma, mentre a me scappava un O sole mio (dopo averle ascoltate in ogni telegiornale da questa mattina, mi sembra il minimo). Tutto ciò per dire che la morte di Luciano Pavarotti mi ha rattristata, anche se quando una persona se ne va dopo una vita piena e bella come la sua c’è dispiacere ma non quel senso di palese ingiustizia che si prova di fronte ad altre morti.

Detto questo, e cambiando argomento, devo dire che sono giunta alla conclusione che in casa mia ci dev’essere un drogato in incognito. Un drogato di acido acetilsalicilico, per la precisione. Perché non è possibile che ogni volta che ho bisogno di un’aspirina, questa non ci sia. Ogni volta ne compro una nuova confezione, di cui uso una compressa o due, ma la volta dopo potete star certi che anch’essa sarà di nuovo sparita, senza che nessuno ne sappia niente.
Essendosi tale misterioso fenomeno verificato anche stamattina, sono pazientemente uscita per recarmi in farmacia ad acquistare l’ennesima nuova confezione ma, quando l’ho chiesta alla farmacista, lei mi ha proposto di acquistare la nuova aspirina, quella che si scioglie in bocca senza bisogno di acqua (mi ha detto che ne fanno anche la pubblicità). E nel suggerirmela mi ha indicato un box, proprio sul bancone, sotto il mio naso, dal quale occhieggiavano, in buon ordine, tante piccole confezioni della nuova aspirina.

Restia come sono (per istinto) alle novità, ho squadrato quelle piccole scatoline con aria diffidente; tuttavia non mi andava di passare per retrograda, così ne ho presa una in mano per acquistarla ma non ho potuto evitare di porre meccanicamente alla farmacista la domanda più stupida del mondo (neanche una vecchia di 90 anni si sarebbe tradita così clamorosamente):
– Funziona come l’altra, vero? –
(Mi sono vergognata nel momento stesso in cui lo dicevo ma non potevo evitarlo, è la conservatrice che è in me che deve proprio farsi sentire pur sapendo in partenza di perdere).
– Certo -, mi ha risposto la farmacista con un prevedibile sorriso di sufficienza.
– Ma bene, proviamola! -, ho esclamato allora con eccessivo entusiasmo.
E me ne sono uscita un po’ vergognosa con la mia scatolina tra le mani.

Ebbene, la conservatrice che è in me una volta tanto aveva ragione: dopo pranzo ho ingoiato, con una certa curiosità, il contenuto della minuscola bustina; è vero che si scioglie in bocca quasi istantaneamente, ma ha un sapore cattivissimo! Cattivissimissimo! Credo sia dovuto al fatto che tra gli eccipienti ci sia tanto l’aroma cola quanto quello arancio insieme. Non so voi, ma io non ho mai amato questi miscugli… Ricordate quando alle feste di compleanno alle elementari o medie si facevano miscugli impossibili tra coca, fanta, chinotto e altro ancora? E i miscugli alcolici o peggio delle superiori? Forse sono rimasta traumatizzata lì.

Insomma, almeno per quanto mi riguarda, oggi ho avuto un’ulteriore riprova che non sempre la reazionaria che è in me ha torto. Se qualcun altro ha assaporato la novità, mi faccia sapere!


I finali sbagliati

Le luci nel cinema si accesero, i piccoli spettatori cominciarono a vociare allegri infilando giubbotti e cappottini con l’aiuto dei genitori, accartocciando sacchetti vuoti di pop corn.
Un pianto fragoroso e disperato echeggiò per la sala.
Due genitori imbarazzati cercavano di far tacere la bambina da cui proveniva quel pianto, invano.
Il pianto proseguì, senza affievolirsi, anche lungo la strada verso il parcheggio, anche in macchina, finché la piccola non cadde spossata sul sedile, persa in un sonno consolatore.

Quella bambina ero io, il film era la versione restaurata di “Biancaneve e i sette nani” di Walt Disney, il motivo del pianto a dirotto era il terribile finale (ancora oggi lo trovo straziante): la vista di Biancaneve che, in sella al cavallo bianco del principe, reggendosi a lui, salutava felice i sette nani per andare a vivere col principe nel suo castello mi aveva spezzato il cuore.
Insomma, dopo tutto ciò che quei buoni nani, un po’ burberi ma simpatici, avevano fatto per lei, quell’ingrata se ne andava col primo che capitava (va be’, le aveva salvato la vita, ma involontariamente; se lei fosse stata brutta, per es., non l’avrebbe baciata; i nani, invece, l’avrebbero vegliata comunque); in più era sciocca: secondo me era molto più avventuroso ed entusiasmante vivere in una casetta in mezzo alla foresta anziché in un castello pieno di regole e servitù.   

Invano, arrivati a casa, i miei genitori cercarono di farmi ragionare e di convertirmi al loro punto di vista (che coincideva con quello disneyano): io restai sempre – e resto tuttora – della mia idea. Da quel momento non ho mai smesso di cercare finali alternativi, di cui vi propongo solo alcuni esempi:

Biancaneve accetta di sposare il principe solo se lui verrà a vivere nel bosco con lei e i nani.
Proprio quando sull’altare sta per pronunciare il fatale , il principe muore.
Si sposano ma poco dopo scoppia una terribile guerra a cui il principe deve partecipare, perciò Biancaneve nell’attesa (che sarà lunghissima perché la guerra è interminabile) torna a vivere nel bosco con i sette nani.
Il principe, se anche torna, torna smemorato e non si ricorda neanche più di avere una moglie, la quale può quindi continuare a vivere con i nani.
Biancaneve sposa il principe e vive con lui nel castello ma fa tanti di quei capricci che alla fine lui la ripudia e lei torna nel bosco, dove ci sono ben sette persone che la amano.
E così via (in ogni caso, mi sembra chiaro che, nella mia mente, Biancaneve non è separabile dai nani).

Problemi analoghi li ho avuti con i finali di parecchi film e romanzi. Attenzione: non mi interessa il lieto fine, ma solo una fine coerente con le mie personali aspettative (delle quali l’autore, poverino, non è certo responsabile).
Per dire: uno dei miei racconti preferiti è La metamorfosi di Kafka; ebbene, lo conosco a memoria eppure sono convinta che finisca con il padre che calpesta barbaramente il figlio-scarafaggio fino a ucciderlo (cosa che ovviamente non avviene: per fortuna, perché oggettivamente in questo caso la conclusione di Kafka è incomparabilmente superiore al mio scenario pulp; eppure nel mio inconscio io sono convinta che il finale sia questo e devo sforzarmi ogni volta per ricordare quello vero).

E “Vacanze romane”? Non sono mai riuscita ad accettare che il giorno dopo la loro giornata di sana follia, la principessa finga di non riconoscere il giornalista [e che giornalista! ;-)] e lui accetti… Inutilmente, in quel caso (avevo 12 anni la prima volta che lo vidi), mio padre citò tutte le leggi dell’estetica cinematografica e letteraria per rabbonirmi e convincermi che un finale diverso sarebbe stato scontato, favolistico e sentimentale… lo accusai di essere senza cuore (pur convenendo dentro me che aveva ragione, s’intende)!

Insomma, ho dei problemi con la fine delle cose, inventate o reali che siano.

E se, per le opere di fantasia, ci si può immaginare un finale diverso, nella vita reale questo non si può fare (o lo si può fare fino a un certo punto). Questa è una delle constatazioni preferite usate da mia madre per scagliarsi contro la lettura, la visione di film o il semplice atto di fantasticare. Non potrò mai essere d’accordo con lei: è vero, nessuna fantasia può essere barattata con la realtà, ma se non avessimo l’immaginazione non esisterebbe neanche la realtà come la conosciamo, sarebbe una cosa così povera e triste che l’unica cosa positiva sarebbe la sua fine (e forse per una volta concorderei con un finale)!


Esercizio di autopreservazione quotidiana [sorvolare l’assedio]

Io certe volte mentre cammino per strada – per esempio mentre vado al lavoro – vedo o ascolto delle cose, e mi dico:
non voglio credere di vedere/ascoltare quello che vedo/ascolto (e vedo brutture, tipo muri scrostati, ragazze ciccione con rotoli di pancia in vista, impalcature, ponteggi, camion della spazzatura rumorosi e puzzolenti, carcasse di bici mezze smontate legate ormai inutilmente ai pali, bambini che chiedono l’elemosina invece di giocare o studiare, locandine vicino alle edicole con titoli allarmanti, escrementi canini e umani, aria satura e grigia di smog eccetera, tutto ciò che potete bene immaginare).

Non voglio crederci ma lo vedo. Allora mi succede che mi viene un’esasperazione che fa sì che un’Ilaria continui a camminare per la sua strada e a vedere le brutture, un’altra si solleva un po’ e prende un’altra direzione.
Alla fine ci troviamo al luogo dov’eravamo dirette, ci ricomponiamo e facciamo quel che dobbiamo fare.


Voglio andare a vivere in campagna

Esperimento: se dico che voglio andare a vivere in campagna, qual è la prima cosa che vi viene in mente?

Perché insomma, dovete sapere che da anni mi succede questa cosa; quando pronuncio la frase Voglio andare a vivere in campagna, o Vorrei vivere (o trasferirmi) in campagna, oppure Basta! Prima o poi me ne andrò a vivere in campagna! (a seconda dell’umore) c’è sempre stato, c’è, e forse ci sarà sempre qualcuno attorno a me che si mette a cantare questa frase (Voglio andare a vivere in campagna) e basta, perché un’altra cosa curiosa è che questa canzone tutti (tranne me) la conoscono ma nessuno la conosce per intero (anzi, tutti ne conoscono questa sola frase).
E questo fenomeno si ripete da anni e con persone diversissime tra loro (per età, classe sociale, provenienza regionale) e nei contesti più disparati; be’, adesso non immaginate che io ripeta ovunque e sempre questa frase; però, le volte in cui l’ho pronunciata (e ormai la pronuncio apposta, per vedere se il fenomeno si ripete, e si ripete), si è sempre elevato, immancabilmente, automaticamente, il suddetto canto.
Trattasi, appunto, di riflesso automatico esteso a buona parte della popolazione italiana (assumendo che il mio campione di riferimento sia abbastanza significativo, e secondo me lo è, trattandosi di ricerca longitudinale, protrattasi negli anni e in posti e contesti differenti).
Ora: già considero preoccupante il fatto che in generale esistano simili automatismi verbali, per cui, al sentire una parola, pigramente le accostiamo subito una e una sola altra parola.
Ma ancor più preoccupante è il fatto che questa canzone – ho scoperto – è stata cantata da Toto Cutugno in non so quale Festival di Sanremo e da allora il suo ritornello si è inspiegabilmente scolpito nel cervello di persone giovani o vecchie (ma soprattutto giovani, molto giovani) e sembra destinato a venire tramandato di generazione in generazione e ora non è più possibile pronunciare una certa frase senza che qualcuno la musichi in tal modo (quasi sentisse il bisogno irrefrenabile di farlo, perché il canto non avviene come battuta che uno fa scherzando, ma parte proprio in automatico, come se uno cantasse tra sé e sé, senza intenzione, senza quasi accorgersene) e, devo dire, questa cosa mi sconvolge un po’ (Toto Cutugno come Dante Alighieri?).