Miró, arte e spirito

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Qualche giorno fa ho visitato la mostra dedicata a Joan Miró a Palazzo Albergati. Chi conosce l’artista per le sue opere più famose e colorate, per esempio la serie delle Costellazioni, potrebbe restare sorpreso nel trovare tele anche (ma non solo) dai colori e dai toni più cupi e inquietanti. Per me è stata una bella esperienza; il taglio della mostra, che comprende tante opere la maggior parte delle quali risalenti agli anni più maturi ‒ quando Miró si faceva per sua stessa ammissione più iconoclasta, aggressivo e istintivo ‒ mette molto in rilievo la biografia dell’artista e alla fine del percorso mi sono sentita affezionata e vicina a questo artista ma soprattutto molto ispirata e motivata, piena di idee.

Leggo che Jacques Prévert avrebbe descritto Miró come “un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni” e in effetti nelle immagini e nei filmati che lo ritraggono mi ha colpito la dolcezza un po’ malinconica della sua espressione. Lui però non si sentiva così innocente né così dolce: descriveva se stesso, in quanto artista, come aggressivo, selvaggio, e nelle sue opere vedeva l’espressione di questa energia. Con la vecchiaia sentiva di diventare ancora più “matto” e “arrabbiato”. I forni in cui cuoceva le sue ceramiche erano solo forni a legna, non elettrici, poiché il senso di queste sue opere stava anche nell’ardore e nel calore del fuoco che serviva per realizzarle.

Era curioso e aperto alla sperimentazione, ma sempre fedele a ciò che l’arte, nella varietà delle forme e degli stili, esprime: umanità. Così poteva lasciare le impronte delle sue mani su ampie tele solcate da segni istintivi stesi con le dita, a evocare le prime forme di pittura, quelle rupestri attraverso le quali gli uomini della protostoria imparavano a lasciare i primi segni del Sé proprio attraverso le mani nude. Poneva le sue tele sul pavimento del suo meraviglioso studio e ci camminava sopra mentre dipingeva, in modo estremamente fisico, attratto e ispirato dall’action painting. Utilizzava qualsiasi materiale gli capitasse tra le mani, sacchi di juta, giornali, spago, la carta in cui erano avvolti i cibi che sua moglie portava di ritorno dalla spesa, perché secondo lui “nessuna cosa del mondo è stupida o banale”.

Aggirandomi per le sale pensavo a come vi avrei condotto dei bambini, quanti spunti avremmo potuto cogliere insieme e quanta ispirazione e divertimento avremmo potuto provare; sì, perché a mio parere la mostra è ottima anche per i bambini già in età da scuola primaria; potrebbero capire alcune tele meglio di noi adulti, sentirsi stimolati e provare un brivido di timore e tremore colmo d’invidia e ammirazione nell’osservare l’artista calpestare le sue tele e lasciarvi l’impronta delle mani (alla faccia di suor Anna Maria che alla scuola materna traumatizzò mia sorella per essere andata semplicemente un po’ fuori dai bordi mentre colorava). Peccato che nel dépliant distribuito all’ingresso, nella sezione “didattica”, sia specificato che, nella visita per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, «gli alunni saranno stimolati ad analizzare il significato dell’opera». E pensare che la maggior parte delle opere non hanno neanche un titolo!

Miró sarebbe comunque felice di sapere che bambini e giovani visitano le sue mostre:
Ho fatto un grande mosaico per Wichita, per l’Università. È già installato e voglio vedere che effetto fa (…) Quel mosaico è all’esterno dell’edificio e ogni giorno migliaia di studenti vi passano accanto. Quindi évidemment, avrà un effetto su quei giovani, che sono gli uomini di domani. Uno di loro potrebbe diventare il presidente degli Stati Uniti. Vedere quel murale potrebbe influenzarlo… perciò ne vale la pena. Questo mi interessa. Sono i giovani che contano. Non mi interessano i vecchi ruderi. Lavoro per il futuro, per il Duemila. Lavoro per gli uomini di domani, degli uomini di oggi je m’en fous.
[citazione presa da qui].

joanmirostudio1Il meraviglioso studio di Miró a Palma di Maiorca, che lui aveva desiderato per una vita. Qui un bel testo sull’artista, il suo studio, la sua opera.

Svuotare lo sguardo

post-32_2016The Slave Ship (1840)

I fisici lo chiamano processo di depressurizzazione. I filosofi, processo di epoché fenomenologica. Gli antropologi e gli storici parlano di straniamento: per entrare in un tempo che non è il nostro, occorre dismettere gli abiti che sono propri della nostra idea di razionalità, è necessario abbandonare le nostre categorie di certezza e di verità. Gli storici dell’arte, del resto, hanno ben presente l’esempio di William Turner: l’obbligo che imponeva ai visitatori che volevano accedere alla sua collezione privata. Prima di ammirare i suoi quadri, essi dovevano sostare per qualche minuto in un’anticamera completamente buia, in modo che i loro occhi potessero «riposare» e spogliarsi dei colori veduti fino ad allora. Che sostassero, che le loro retine si svuotassero dei consueti fasci luminosi, pronte così a essere inondate da masse di colori mai viste prima di allora e che descrivevano naufragi, collisioni di navi nella nebbia, tormente di neve, valanghe, incendi.

M.Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Einaudi, Torino 2011 (pp. 21-23)

Apprezzo questo comportamento di Turner; oltre a implicare una sorta di “pedagogia della bellezza e dello sguardo” ha in sé – e trasmette – la consapevolezza del valore della propria opera e della dignità del proprio lavoro. Quanto diverso da certi “spiattellamenti” odierni e aggressivi…
Anche se, a dire il vero, la potenza espressiva dei suoi quadri ti inonda, ti rattrappisce e ti schiaffeggia anche senza l’adozione di particolari riti; non dimenticherò mai l’impressione profonda e lancinante e lo stordimento che ho provato quando sono entrata svagata e chiacchierina nella sala della Tate Gallery a lui dedicata e per la prima in volta in vita mia mi sono trovata davanti le sue opere dal vivo. Giganti, maestose, vive, incombevano su di me quasi senza pietà togliendomi favella e respiro.

 

 

 


Bambini per sempre

Oggi ho visto un bambino di 120 anni. Tenuto stretto dal papà mentre in bilico sul tavolo sperimenta l’equilibrio avvolto in una vestina di pizzo bianco (lo avevo infatti scambiato per una bambina); seduto a tavola tra il papà e la mamma, imboccato insieme con affetto e veemenza; nel cortile di casa, tutto concentrato nel muovere i primi incerti passi. Sarà cresciuto, diventato un uomo; avrà avuto figli? Sarà stato un adulto felice? Qualunque cosa gli sia accaduta, ora non è più, eppure attraverso questo schermo davanti ai miei occhi è bambino per sempre.

Ecco i lieti pensieri che attraversavano la mia mente mentre mi aggiravo tra le sale della mostra “Lumière – L’invenzione del cinematografo”, seguendo la bravissima guida che con grande competenza ci ha accompagnato nell’avvincente percorso del cinema e delle sue origini.

La mostra si snoda su due livelli: quello tecnologico – vi sono tutti i marchingegni del cosiddetto Precinema, dalla Lanterna magica al Kinetoscopio di Edison passando per prassinoscopio e teatro ottico – e quello dei filmati con i loro contenuti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato davvero interessante potere toccare e utilizzare questi strumenti antenati del cinema moderno, con la commozione di constatare come da sempre gli uomini, che senza storie, racconti e immaginazione non possono vivere, abbiano cercato di creare immagini in movimento. È sempre emozionante, inoltre, constatare come nessuno inventa nulla dal nulla: le invenzioni che hanno segnato la nostra cultura sono sempre frutto di un percorso costituito dal contributo di molti e illuminato sì da qualche scintilla di genio, ma sempre debitore del contesto. La cosa più buffa è stata quando, aggirandomi tra gli svariati modelli di cineprese creati dai Lumière, tra esse ho notato una “cinepresa” che era uguale a una macchina da cucire, una di quelle portatili.

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“Una cinepresa a forma di macchina da cucire?”, mi sono detta, non volendo ammettere che quella fosse proprio una macchina da cucire. Dopo poco sento la guida spiegare che ormai all’epoca era chiaro a tutti che per creare la percezione del movimento occorreva che immagini simili si susseguissero velocemente ma come fare? A Louis (il più inventivo dei due Lumière) la soluzione decisiva fu ispirata osservando lavorare sua madre alla macchina da cucire: occorreva “cucire” le immagini tra loro. Nasce da qui il concetto della pellicola cinematografica, un nastro costituito da immagini “cucite” tra loro. Quindi quella che stavo osservando era proprio una macchina da cucire e nell’invenzione del cinematografo c’è pure lo zampino inconsapevole di mamma Lumière.

E a proposito di mamma, l’altro aspetto, come dicevo, è quello dei filmati: dal primo “film” (questi film duravano tutti pochi secondi), che mostra l’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière a un tentativo di film comico (un ragazzino preme con un piede la canna con la quale un contadino sta innaffiando un orto, bloccando il flusso dell’acqua per poi rilasciarlo tutto d’un colpo) a film che mostrano cavalli, ciclisti, uomini alla moda… tra tutti spiccano i filmati di famiglia. E io osservandoli ritrovo un clima che conosco: sono scene felici di una famiglia numerosa e unita. La guida ci spiega che i Lumière erano progressisti per l’epoca: nei filmati mariti e mogli si divertono insieme, alla pari, giocano insieme; i padri sono affettuosi con i figli piccoli e giocano con loro, li imboccano, li sostengono nei primi passi. Io osservo questi volti sorridenti, queste persone ben vestite, e rivedo i vecchi filmati, girati proprio con la cinepresa, in cui la mia nonna, le sue sorelle e i fratelli, giovani, baldanzosi, si mostrano spensierati all’obiettivo. Filmati che a guardarli ora, col tempo che intanto ha portato via tutti, mi si spezza anche un po’ il cuore.

Le parole della guida tornano a catturare la mia attenzione di lettrice di romanzi per ragazzi quando raccontano un episodio vero della vita dei fratelli Lumière, che in quei romanzi ci starebbe benissimo: da ragazzini, Louis e Auguste rimasero intrappolati in una grotta che a causa dell’alta marea si stava inesorabilmente riempiendo d’acqua: terrorizzati, si promisero solennemente che se si fossero salvati sarebbero rimasti insieme per tutta la vita. E mantennero la promessa: non solo perché lavorarono sempre insieme, creando e inventando, ma vissero anche tutti nella stessa casa con le rispettive famiglie.

In una sala, negli schermi scorrono i film dei vari operatori che, formatisi alla scuola dei Lumière, andarono poi in giro per il mondo a effettuare riprese. Sono tanti ma in uno di questi una particolare scena colpisce la mia attenzione e mi si imprime nel cuore divenendo la mia preferita: in un villaggio dell’allora Indocina francese, Namo, una folla di bambini corre allegra verso l’obiettivo, quindi verso noi che guardiamo. Tra questi c’è un piccolo dal visino allegro; un ragazzino più grande gli si avvicina e gli dà un colpetto sulla nuca; il piccolo ci resta male, si cruccia, resta offeso. Con le manine a proteggere la parte toccata, resta fermo e teso mentre prima correva leggero. Poi passa un adulto che con delicatezza lo invita a riprendere il passo. Quante volte ‒ basta osservare dei bambini al parco o in cortile ‒ capita di osservare una scena identica a questa, con comportamenti e reazioni, espressioni e atteggiamenti perfettamente uguali? A dispetto della distanza di tempo e di spazio, io osservo l’infanzia nella sua essenza immutabile. E allora potrà avere anche 120 anni questo bambino (ne ha 117 perché il film è del 1900) ma è davvero un bambino per sempre.

L’autore del filmato è l’operatore Lumière Gabriel Veyre.

To flee from

to-flee

Se per volare via dalla memoria
avessimo le ali
in molti voleremmo.
A più lente cose avvezzi
gli uccelli sgomenti osserverebbero
il carro poderoso
degli uomini in fuga
dalla mente dell’uomo.

To flee from memory
Had we the Wings
Many would fly
Inured to slower things
Birds with dismay
Would scan the mighty van
Of men escaping
From the mind of man.

Emily Dickinson

A parte la verità espressa in questi versi, non so se fosse intenzione della poetessa ma l’immagine finale – quella fuga così scomposta e pesante contrapposta alla leggerezza e calma degli uccelli che osservano – mi sembra tanto comica… e quindi ancor più rivelatrice.


Le case degli altri

londonPiù o meno in ogni città si può visitare la casa di qualche “personaggio illustre” del passato. Qui a Pesaro c’è la casa di Rossini. Di case di Mozart vi è un’inflazione (io ne ho visitata una a Praga). Chissà poi se a tutti questi illustri avrebbe fatto piacere sapere che tanti estranei si sarebbero aggirati tra le loro stanze; magari, sapendolo, prima di morire le avrebbero organizzate secondo una precisa intenzione: di burla o invece solennemente autocelebrativa, a seconda del carattere. Un po’ come quando, un paio d’anni fa, il domenicale de “Il Sole 24 ore” chiese ai lettori di inviare alla redazione le fotografie delle loro scrivanie e queste foto – che i lettori inviarono a iosa e, in questo caso, con intenzioni molto seriose nei propri confronti – mostravano quasi solo scrivanie disordinatissime, ai limiti della fruibilità; disordinate ad arte, in base alla diffusa quanto fallace convinzione per cui: disordine = genio creativo. E ci auguriamo che le loro mamme non abbiano visto quelle foto, che poi sono state pubblicate dal giornale. Così io, che non ho il feticismo né delle case né delle scrivanie, sorridendo voglio omaggiare il caro Jack London che, nella testimonianza di Edmondo Peluso, “siccome gli era fisicamente impossibile restare a lungo chiuso, lavorava all’aria. La mattina presto partiva a cavallo. Si portava dietro un macchina da scrivere portatile, una sedia pieghevole, un tappeto e il pasto. Quando aveva trovato un posto che gli piaceva, un prato assolato, o uno spuntone su un canyon dalle pietre multicolori, stendeva il tappeto all’ombra di un eucaliptus, di un cedro rosso o di qualche sequoia gigante. S’imponeva ogni giorno un compito preciso. Schizzava in fretta i punti che intendeva sviluppare e poi, alla macchina da scrivere, svolgeva il tema.”


Lo shock del sabato pomeriggio

Sabato pomeriggio sono salita su un “trenino” della ferrovia suburbana, gestita dalla FER-Ferrovie dell’Emilia Romagna – precisamente il Bologna-Vignola – e ne sono rimasta entusiasta. Piccolo, modernissimo e pulito, ben riscaldato e con l’altoparlante che avvisava in anticipo a ogni fermata, questo trenino fendeva con andatura rapida e silenziosa la fitta nebbia padana in quella fredda giornata di novembre, e io un po’ guardavo fuori un po’ mi guardavo nel mio specchietto per vedere una faccia sorridente. Ero infatti tutta in fibrillazione per l’evento al quale mi stavo recando.

Questo trenino mi è piaciuto così tanto che prevedo di esplorare prossimamente tutte le tratte percorribili; sì, mi ha suggerito un nuovo modo di passare il tempo libero – quando avrò del tempo libero – e cioè battere la bassa padana a bordo del suddetto trenino armata di taccuino e macchina fotografica, onde lasciarmi ispirare. C’è infatti un trenino per ogni direzione (Modena, Ferrara, Verona…) che copre tutti i paesi grandi e piccoli lungo ogni traiettoria. Puoi raggiungere ogni posto, in quel modo, e senza bisogno di dover guidare.

Ma torniamo a sabato. Cullata dal ritmo dolce e dal calduccio del treno semivuoto e quindi silenzioso, non potevo immaginare lo shock cognitivo che avrei subìto di lì a poco.
È arrivata la mia fermata: Casalecchio Palasport. Sono scesa dal treno, trovandomi tutta sola in questo binarietto immerso nella nebbia, e mi sono incamminata verso la strada. Ero diretta verso un grande centro commerciale e al telefono mi avevano detto che, uscita dal binario, lo avrei visto davanti a me. E infatti, scese le scale e giunta sul ciglio della strada Statale (classica strada da pirati della strada), oltre i fumi della nebbia ho intravisto delle luci appannate in lontananza, che delineavano in modo non troppo nitido ma percepibile un’immensa struttura scura che sembrava incombere in quel nulla: il centro commerciale.

Traversata la strada, ho cominciato a camminare in quella direzione. Seguivo un percorso in cemento, che lambisce il Palasport e conduce direttamente verso lo Shopville Gran Reno e l’Ikea. L’aria che respiravo odorava di hot dog e patatine fritte, cucinati e venduti nei numerosi baracchini con le ruote che costeggiavano lo stradino.
Ok, sono sulla strada giusta
, mi son detta.
Un ponte in cemento e ferro sovrastava un parcheggio vastissimo. Ho percorso tutto il ponte ed ecco stagliarsi davanti a me sulla destra l’insegna dell’Ikea e sulla sinistra quella del centro commerciale.

Varcato l’ingresso del centro commerciale, i miei sensi sono stati travolti da un’ondata di molteplici stimoli non del tutto gradevoli: un frastuono assordante composto da voci, suoni di giostre e marchingegni vari; l’odore unto del Mac Donald’s e della pizzeria al taglio accanto; le luci potenti, innaturali, aggressive; i colori accesi delle vetrine e un calore esagerato. Ma soprattutto: la folla. Che flashback: quando a scuola studiavo la Divina Commedia, me le immaginavo così le bolgie dell’inferno: fiumane di gente che avanzano compatte in più direzioni senza una vera meta. E lì ho realizzato che fino a quel momento ero stata una persona spensierata che non aveva idea di come fosse un centro commerciale durante il weekend. Io quando devo andare in un centro commerciale ci vado sempre solo nei giorni feriali e preferibilmente di mattina e possibilmente nella prima parte della settimana, proprio per evitare la mitologica “ressa del weekend”, ma non immaginavo che tale ressa fosse così fatta! Consideriamo anche che io vado in centri commerciali raggiungibili in bicicletta, quindi grandi ma bene o male collocati nel tessuto cittadino o poco distanti dalla zona abitata. Diciamo: a misura umana. Invece sabato sono stata in questo centro poco umano. Insomma, mi sono sentita disorientata, stordita… mi son sentita quasi male.

Ma soprattutto mi sono chiesta: ma come fa molta gente a trovare rilassante passare il fine settimana dentro un enorme centro commerciale sperduto nel nulla – all’esatta confluenza di: una pericolosa strada statale, la tangenziale e un casello autostradale –, puzzolente, assordante, caotico e dove non puoi neanche fermarti a guardare una vetrina perché rischi di essere investita dal flusso inarrestabile di corpi in movimento? Né tantomeno riesci a parlare con i tuoi amici o il tuo compagno?

Bello comunque vedere che a questo mondo siamo tutti diversi. Ogni tanto, nel caso dimenticassi questa ovvietà, la Realtà provvede a ricordarmelo in modo lampante.

P.S. ma cosa ci facevo io in quel non-luogo di perdizione per eccellenza? Qualcosa di meraviglioso. Partecipare alla presentazione di questo libro, una presentazione atipica: musicata dagli autori stessi e ballata da due ottimi ballerini. Sì, ultimamente sono diventata un’appassionata della Filuzzi e di Leonildo Marcheselli. Ma questa è un’altra, bellissima, storia.


Pensavo fosse un quadro, invece era un estintore

Amo la città di Ferrara e ogni occasione è buona per andarci; l’occasione di qualche giorno fa era la mostra sul gallerista Aimé Maeght e i suoi artisti. Questo signore, assieme a sua moglie Marguerite, aveva fondato nel 1945 una galleria d’arte molto innovativa all’epoca, poiché promuoveva opere d’arte moderna e contemporanea senza rifarsi a una sola corrente ma spaziando tra artisti e opere d’arte diversi. Grande aggregatore di artisti e personalità che hanno segnato la storia dell’arte contemporanea, tra gli artisti che frequentava e le cui opere erano esposte al Palazzo dei Diamanti, troviamo per esempio Braque, Léger, Calder, Giacometti, Miró, Kandinsky e tanti altri.

Ho provato strane emozioni, visitando la mostra. Da un lato, quelli erano anni in cui le opere che osservavo – per es. quelle dell’esposizione surrealista del 1947 – rappresentavano una grossa e importante novità, una rottura per molti indigeribile rispetto ai canoni estetici cui si era abituati, e questo mi entusiasmava; dall’altro, è anche il momento in cui l’arte, allontanandosi sempre più dalla mimesi della realtà, si allontana anche dalla gente comune per entrare in una dimensione elitaria, più chiusa e riservata a galleristi ed esperti che, spesso più in virtù della propria autorevolezza che non del valore dell’opera, determinano successo e dignità artistica di alcuni prodotti mentre ne escludono altri. Il tutto in un modo che pare spesso piuttosto arbitrario e opinabile.

Il risultato di tutto questo decennale processo è per esempio che a un certo punto, attraversando una sala, sono passata davanti a un riquadro contenente un estintore e sono stata qualche secondo ad ammirarlo come se fosse chissà quale opera di genio; invece stavolta era solo ciò che sembrava: un estintore.


Rose al verziere, rondini al verone!

Questo inverno è stato davvero lungo, gelido, nevoso e duro da sopportare. Ieri finalmente il cielo si è debolmente tinto d’azzurro (ma non illudiamoci: oggi è già di nuovo bianco e c’è l’eterna nebbia) e io ne ho approfittato per fare ciò che da tempo aspettavo: andare a Forlì per visitare la mostra “Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh” (vedi il sito). Mi è piaciuta tantissimo, forse perché mi ha spinta a concentrarmi sul fiore come soggetto protagonista di un’opera d’arte anziché ridotto a semplice elemento decorativo. Passando da una stanza all’altra, ho attraversato tutta l’età moderna fino ad arrivare al Novecento, saltando di fiore in fiore e perdendomi tra i diversi modi di concepire e rappresentare la bellezza di questi gioielli che Mamma Natura ci ha donato. Tutto mi ha interessata: i primi erbari secenteschi, così diversi da quelli medievali nell’esigenza tutta nuova di classificare in modo scientifico i fiori e le piante; nasce la botanica, e per comporre questi erbari – in mostra ve ne sono sia preziose copie manoscritte e mano-disegnate, sia edizioni a stampa – artisti e scienziati collaboravano insieme: l’effetto di queste pitture, in genere a tempera o ad acquerello, era davvero speciale, poiché bellezza estetica e precisione scientifica erano entrambe soddisfatte. Tra un fiore e l’altro occhieggiava qua e là un insetto (andava sviluppandosi infatti anche l’entomologia) e devo dire che perfino davanti a una blatta, ha prevalso in me la curiosità artistica anziché il disgusto ordinario. Un’altra stanza era dedicata alle ghirlande di fiori, altro tema tipico tra Seicento e Settecento: spesso all’interno di queste ghirlande veniva raffigurato o un soggetto sacro (per es. la Madonna) o il viso di un nobile cui l’artista rendeva omaggio, però secondo me stonava un po’; infatti le mie preferite erano quelle al cui interno c’erano solo uccellini o farfalline svolazzanti, come alcune ghirlande del pittore Giovanni Stanchi (detto anche “Stanchi dei fiori”): molto più naturali e delicate, e senza contaminazione umana. Ho ammirato poi i “pittori caravaggeschi” (artisti anonimi di cui era però riconoscibile lo stile, ispirato al Caravaggio), la pittura ottocentesca (in cui i fiori si intrecciavano con figure umane, mitologiche o realmente esistite o si esibivano sotto forma di “nature morte”) fino ad arrivare a Van Gogh e Monet con le sue ninfee.

Due cose mi sono piaciute più di tutte: alla corte di Vienna, nel periodo post-Restaurazione, andavano di moda quadri – spesso dipinti da artisti fiamminghi, quindi immaginate grande precisione, nitidezza e realismo – che dovevano raffigurare insieme fiori che nella realtà non possono mai trovarsi insieme, perché fioriscono in periodi diversi: in questo modo, attraverso l’arte si voleva superare la realtà, creando una situazione che in natura non si poteva avere. Questa cosa mi è piaciuta moltissimo! Anche perché tale ricreazione artistica doveva confrontarsi con un grande realismo nella raffigurazione dei fiori e col fatto che in genere questi fiori – di specie le più varie, fatti provenire da ogni parte del mondo – erano presenti nei giardini degli Asburgo e quindi mi immaginavo la nobiltà asburgica che girava nei propri giardini ammirando i fiori dal vivo e pretendendo di ritrovarli poi nei dipinti.

L’altra cosa è stata l’emozione nel rendermi conto di quanto non possiamo fare a meno della bellezza, anche se è effimera come quella di un fiorellino che ha una vita tanto breve e che, utilitaristicamente parlando, non serve a niente. Eppure, secolo dopo secolo, ecco artisti che impiegavano tanto tempo e tanta cura nel riprodurre minuziosamente le sfumature di colore di un girasole o i soffici contorni dei petali di una rosa. E c’erano nobili o borghesi che amavano questi quadri e li ammiravano, amavano mettersi in posa e farsi ritrarre in un tripudio di fiori.

In una ghirlanda di Giovanni Stanchi svolazzava una farfallina cavolaia, disegnata così bene che sembrava fotografata; la luce ne faceva risplendere le ali mentre puntava un fiore e io mi sono commossa nel pensare che un’insignificante farfallina vissuta quattrocento anni fa è arrivata fino a me immortalata in un dipinto.

Sono uscita dalla mostra con il sorriso e una grande serenità nel cuore. Mi piace tantissimo visitare mostre e ammirare opere d’arte perché quella Bellezza mi fa pensare che noi umani per vivere avremo sempre bisogno anche di questo, e non solo dello schifo che leggiamo ogni giorno sui giornali.


Godiamoci la vita

Archiviata la tesi e smaltito (quasi del tutto) il lavoro arretrato accumulatosi sempre a causa della tesi (da lettrice, non avrei mai pensato che tra i motivi di ritardo nell’uscita di fumetti potesse esservi la tesi di laurea dell’adattatrice dei suddetti! Eh eh, non spargiamo troppo la voce!), sono ufficialmente uscita dalla clausura forzata che ero stata costretta ad autoinfliggermi (chi era quello che si era legato alla sedia? Alfieri? Be’, sono una sua degna erede). Bene, ho scoperto che, nonostante la mia indole tendenzialmente solitaria, non sono adatta per vivere reclusa tra quattro mura – per quanto in buona compagnia cartacea –, esclusa dal consesso umano e forzatamente avvinghiata a un pc il cui uso prolungato mi provoca emicrania, occhi arrossati e crisi isteriche. Ecco perché questo povero e innocente blog è rimasto abbandonato a se stesso molto a lungo: prima, appunto, per altre occupazioni più urgenti cui assolvere, poi perché la sua autrice è tornata a rivedere il sole e le altre stelle e a dedicarsi a una delle sue attività preferite: bighellonare. Assieme al suo Amico del Cuore, bighellone D.O.C. anche lui. Favoriti dal sole di questi giorni che, nonostante la temperatura sottozero, illumina il loro percorso e li invoglia a non fermarsi.

Mercoledì siamo stati in trasferta a Ferrara, per vedere la mostra dedicata a William Turner. Ricordavo di avere avuto una mezza sindrome di Stendhal quando a Londra vidi alcuni dei suoi quadri esposti alla Tate Gallery ed ero molto curiosa di vedere questa mostra dedicata in particolar modo ai dipinti ispiratigli dai paesaggi italiani. Molto bella, e quello che mi ha colpito è stata l’evoluzione del modo di dipingere di Turner, dalla precisione imbevuta di classicismo con cui rappresentava scenari naturali e urbani in gioventù (da ignorante quale sono, non me l’aspettavo proprio) all’impronta sempre più selvaggia, visionaria e sperimentale della produzione in età più avanzata. In alcuni casi, il soggetto dell’opera era il medesimo, ma la resa completamente diversa. Potere ripercorrere in questo modo l’evoluzione di un autore mi ha molto emozionata. Così come mi ha commossa (ma questo mi accade sempre, in simili circostanze) trovarmi a pochi centimetri da quadri che dai primi dell’Ottocento sono arrivati a noi… e vedere anche i taccuini su cui Turner abbozzava gli schizzi da cui poi avrebbe tratto ispirazione, o il passaporto dell’epoca, che gli serviva per spostarsi da Napoli a Roma, e che attestava che il signor Turner non si era macchiato di delitti e poteva quindi essere accolto nel nostro paese. Quei pezzi di carta e quelle tele, partiti dalle sue mani e passati per chissà quante altre mani di gente ormai morta, hanno attraversato due secoli e sono arrivati fin qui, quando mai il buon Turner avrebbe immaginato che un giorno una Flalia qualunque li avrebbe rimirati e ne avrebbe scritto su un supporto di cui lui non avrebbe mai potuto prevedere l’esistenza. E si tratta solo di due secoli, in fondo. Quando mi trovo davanti a un vaso greco o un sarcofago egiziano o al cospetto di un albero millenario, è indescrivibile quello che provo. Il passato mi fa sempre il suo bell’effetto. Mi sono poi consolata con un buon tè gustato in un bel bar del bellissimo centro di Ferrara, una città per cui ho sempre avuto una certa predilezione. Mi fa sempre piacere tornarci (senza considerare poi il brivido nel passare esattamente nello stesso punto descritto da Bassani in Una notte del ’43).

Ieri invece ho bighellonato per il centro della mia città; sono uscita da casa con uno zaino e una sporta carichi di libri da restituire in biblioteca e mi sono poi dedicata al rinnovamento del mio guardaroba in vista della primavera (naturalmente, mentre tutte, a gennaio, si buttavano sui saldi io ero appunto reclusa davanti a un computer); è da un mese che vado annunciando: “Ehi, ridendo e scherzando, ormai è primavera!”, e questo pur in mezzo alla neve e al gelo, ma sono stanca di indossare il mio cappottino invernale e di girare imbalsamata sotto strati di maglioni di lana! Per una freddolosa come me l’inverno è la stagione in cui la necessità di ripararsi dal freddo copre ogni velleità estetica… il tutto aggravato dal fatto che il mio mezzo di locomozione è la bicicletta (per cui, tra cappotto, guanti, cappuccio di lana e sciarpa fin sul naso, l’unica cosa che si scorge di me sono gli occhiali), perciò son qui che bramo l’avvento della primavera, il momento in cui potrò finalmente spogliarmi della crisalide invernale e riassumere un aspetto più sfarfalleggiante o almeno colorato e pastelloso. Così, nonostante il freddo, ho fatto incetta di maglie e camicette primaverili e mi sento già un po’ meglio.

Ho poi scoperto che ieri era giovedì grasso ma non c’era alcun festeggiamento in giro. Sarà che tre giorni fa ho fatto indigestione di sfrappole e raviole alla crema (entrambi dolci tipici della mia regione e tutta roba super fritta e zuccherosa) e il mio Carnevale è morto lì.

Insomma, tutto ciò per dire che sono felice, leggera e sono tornata in me.